Su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Giovanna Marini
Giovanna Marini: "Il mio canto libero in un mondo che non crede più alla resistenza"
La musicista, cantautrice e ricercatrice etnomusicale: "Una sera venne ospite il grande folksinger americano Peter Seeger, amato anche da Bob Dylan. Dovevo fare da traduttore ma non sapevo lo slang. Fu surreale"
di ANTONIO GNOLI
PENSO che Giovanna Marini appartenga ad una certa sinistra scomparsa. Lei è ancora qui, ma gli ideali di giustizia e uguaglianza sono volati via da un pezzo. Non si sente, per questo, una sopravvissuta. Per curiosità vado ad una sua lezione dedicata al canto contadino.
Temo il peggio. Mi accorgo che è una donna affabile e brillante, mentre - negli spazi del Macro di Testaccio - racconta un mondo visibilmente remoto. Dispiega le sonorità della sua voce particolare davanti a una platea di allievi che la segue e partecipa attivamente. L'età media è alta. Come la passione dopolavoristica di questo gruppo che nel canto sembra voler scoprire disciplina e bellezza, più che impegno e futuro. Con Giovanna c'eravamo visti un paio di giorni prima nella sua casa ai Castelli Romani. E ripensavo alla naturalezza delle sue parole. Una semplicità non artefatta combinata con un'idea di vita coerente. Una cantante fuori dalle mode e dalla tirannia del mercato: "Non ho mai avuto pose da artista ispirata. La mia musica del resto nasce dalla conoscenza precisa di un mondo che non c'è più e dall'indignazione e la protesta con cui alcuni hanno cantato e denunciato le ingiustizie e i soprusi. So bene che tutto questo ha un sapore oggi strano, desueto, inattuale. Ma quel mondo è stato e continua a restare la mia vita".
Tutta la vita sotto il segno della musica?
"Sì, decisamente. Mio padre - che non ho mai conosciuto, morì a 29 anni quando nacqui - era un compositore, allievo di Respighi e Casella. Un talento anarchico le cui musiche sono ancora eseguite. Mia madre ha insegnato a lungo al conservatorio. Questo era lo sfondo. Studiai pianoforte. Una complicazione seria a un braccio mi impedì di continuare. A nove anni fui spedita in Inghilterra e lì per un po' persi il contatto con la musica".
Quel viaggio perché?
"A causa di un disturbo serio agli occhi provocato dall'avitaminosi. Venivamo da anni tremendi. Improvvisamente la guerra ci aveva reso tutti più poveri. Non c'era da mangiare. La mamma, per giunta, era una donna fuori dal mondo. Incapace di procurarsi alcunché. Pensava che la "borsa nera" fosse non già il mercato parallelo e illegale per l'acquisto del cibo, ma letteralmente una borsa dal colore nero! Quando scoprì l'arcano vendemmo due pianoforti e una radio. Ma per me era tardi. Avevo cominciato a perdere la vista".
C'era la guerra?
"La guerra era finita da un po'. Era il 1947. Fui spedita in Inghilterra, non lontano da Londra, ospite di una zia, architetto di paesaggi. Vi restai più di un anno. La mia vista migliorò, grazie alle cure e soprattutto al cibo. Tornai a Roma e a 13 anni feci l'esame per entrare al conservatorio di Santa Cecilia. Avevano da poco istituito un corso di chitarra classica. Decisi di provare".
So che ha studiato anche con Andrés Segovia.
"Accadde dopo il diploma, quando entrai all'Accademia Chigiana di Siena per il corso di specializzazione. Ci rimasi due anni. Incontrai quest'uomo conformista, ortodosso, noioso che imprecava contro la musica moderna. Era perennemente circondato da una corte di spagnoli e di uruguayani. Ma quando imbracciava la chitarra avvertivi potente il prolungamento dell'anima".
La musica ha questo di prodigioso?
"La musica, certo. Ma non solo. Direi che ogni arte, se è grande, è in grado di portarci in un altro mondo".
Il suo mondo, però, non restò quello della musica classica.
"Sono le circostanze e gli incontri, oltre alle preferenze, a orientare il cammino di una persona. Non sono stata un'eccezione. Mi imbattei casualmente in un libro che raccoglieva i canti dell'Alta Savoia. Mi affascinava la metrica, la diversità sonora. Ne imparai alcuni a memoria. Cominciai così a interessarmi di canti popolari. Nel frattempo proprio a Roma Harold Bradley aveva fondato il Folkstudio".
Ci andò a cantare?
"Praticamente dall'inizio. Quando Bradley tornò in America fu Giancarlo Cesaroni a rilevarne la gestione. E a rilanciarlo grazie anche ad alcune intuizioni felici. Qui mossero i primi passi personaggi come De Gregori e Venditti. Per tornare a me, una sera venne a sen- tirmi Roberto Leydi. Mi disse che aveva coinvolto, per un giro di concerti, Pete Seeger, il grande folksinger americano al quale lo stesso Bob Dylan aveva tributato il suo omaggio. Seeger venne a cantare al Folkstudio. Io, che conoscevo piuttosto bene l'inglese, fui invitata a tradurre a braccio le cose che veniva dicendo a commento alla sue canzoni. Fu una serata surreale".
Cosa accadde?
"Per quanto sapessi l'inglese, non conoscevo le inflessioni e le sfumature dello slang americano. Dal pubblico cominciarono a ridere. Seeger si guardava nervosamente intorno. Insomma fu un esordio al quanto impacciato".
Che anno era?
"L'inverno del 1963. Leydi - che oltre a essere un grande etnomusicologo era anche un uomo paziente e generoso - malgrado l'incidente, mi chiese se volevo partecipare a Milano, alla casa della Cultura, alla presentazione del primo disco del Nuovo Canzoniere Italiano. Fu così che entrai in contatto con il meglio che in quel momento si produceva nella musica folk".
Chi conobbe?
"Non c'erano solo cantanti. Ma anche intellettuali e antropologi. Conobbi Ivan Della Mea, Michele Straniero, Gianni Bosio. Si aggiunsero i nomi di Umberto Eco, Dario Fo, Giangiacomo Feltrinelli, Giovanni Pirelli, Diego Carpitella, Franco Fortini".
Aveva un'idea circa il tipo di intellettuale che stava nascendo?
"Per quello che potevo capire e dalle conferme che ebbi in seguito era una figura totalmente staccata dal mondo accademico; legata alla Resistenza e insofferente di certi conformismi; curiosa di sperimentare i fermenti che provenivano dalla società. E questo valeva anche per scrittori come Italo Calvino, antropologi come Ernesto De Martino o compositori come Luciano Berio, Luigi Nono e Sergio Liberovici. Con alcuni di loro strinsi rapporti di lavoro e perfino di amicizia".
Non c'erano donne?
"C'erano, eccome. Franca Rame, Sandra Mantovani, Caterina Bueno e poi Giovanna Daffini. A molti, quest'ultima, dirà poco. Ma fu un personaggio fondamentale e non solo nella mia vita".
Nel senso?
"Fu Giovanna Daffini a insegnarmi come cantano le mondine, a farmi capire la differenza tra canto contadino e canto lirico. Il primo non sfoga nella testa, ha una risonanza facciale. È una tecnica che pone una differenza culturale rispetto al canto lirico. Quando ascoltavo Bella ciao - che non è in origine un canto partigiano - mi colpivano non tanto le parole quanto la voce in qualche modo "strozzata"".
Quell'anno lei cominciò dunque a collaborare con il Canzoniere.
"Cominciai e ben presto ci lanciammo in una serie di iniziative musicali che ci condussero l'anno dopo al Festival di Spoleto. Era il 1964. E una sera del mese di giugno cantammo le nostre canzoni contadine davanti a un pubblico ostile. Fummo assaliti dai fischi e dagli insulti. Una donna si alzò gridando: non ho pagato il biglietto per ascoltare cantare la mia donna di servizio. In un certo senso aveva capito che il nostro canto nasceva dalle classi umili".
E poi cosa accadde?
"Il giorno dopo arrivarono i fascisti decisi a boicottarci e a buttarla in rissa. Da Genova giunsero alcuni partigiani e un gruppo di "camalli", ossia i portuali. Ci difesero dagli assalti. Riuscimmo così a portare fino in fondo il nostro spettacolo. Furono giorni memorabili. Improvvisamente diventammo famosi".
So che subito dopo andò a vivere per un certo periodo in America. Perché?
"Seguii mio marito che di professione era fisico. Il suo trasferimento al Mit di Boston fu l'occasione per conoscere meglio un mondo che alla musica folk aveva dedicato passione, intelligenza, creatività. La prima cosa che feci fu di andare a trovare Pete Seeger. Lui suonava spesso al Club 47, una specie di Folkstudio, non lontano da Boston. Gli ricordai quella serata romana disastrosa. Rise. Mi presentò sua sorella Peggy che cantava non solo bellissime ballate con il banjo, ma ne studiava anche le origini. Facemmo amicizia in quel luogo che avrebbe visto la consacrazione solo un paio di anni dopo di Bob Dylan. Tornai in Italia nel 1966".
I suoi legami con l'antropologia e la letteratura quanto l'hanno aiutata?
"Direi tantissimo. Grazie a Ernesto De Martino e Diego Carpitella. Ma anche a Pasolini che fu per me uno stimolo straordinario, anche se del tutto involontario".
Lo ha conosciuto?
"Ci incontrammo nel 1960 a una festa pubblica. Strimpellavo Bach con la chitarra. Avevo appreso a suonarlo da Segovia. Si avvicinò questo giovane che mi chiese se avevo voglia di cantare. Pensai: ma guarda stò ignorante che mi interrompe. Feci un gesto, come per allontanarlo. Lui insistette. Disse: ci sono cose bellissime che si fanno con la voce. E intonò una villotta friulana. Solo un accenno. Rimasi stupita. Gli chiesi in quale libro aveva trovato il testo. Mi rispose che apparteneva alla tradizione orale. A quel punto cantai qualcosa anch'io. Con Pasolini ci rivedemmo poi nel 1968. Nel frattempo divenni amica di Laura Betti".
Che ricordo ne ha?
"Una donna aggressiva e generosa. Dotata artisticamente. Persa dietro la cucina e la puntualità. Una sera a cena si presentò tardissimo Luca Ronconi. Lei, inferocita, cominciò a insultarlo. C'era il povero Franco Zeffirelli che cercava di calmarla. E a stento alla fine ci riuscì".
Ha mai cantato altro a parte la canzone contadina e politica?
"Direi di no, feci però una tournée in Spagna con Renato Carosone e Gegé Di Giacomo. Renato era bravissimo al pianoforte. Lo suonava con tre dita. Ed era simpaticissimo: mangiate, mangiate. È tutto pagato, diceva".
Ha mai frequentato il mondo della tradizione napoletana?
"Troppo grande e profondo. Per calarsi in quel mondo occorre possedere il genio di De Simone. A un certo punto mi ero interessata, diciamo così, di alcuni fenomeni religiosi. Insieme ad Annabella Rossi, una ricercatrice e antropologa, ci incuriosimmo di una guaritrice che si mormorava avesse poteri straordinari".
Dove praticava?
"Non lontano da Napoli. Era chiamata Giuseppina del Glorioso Alberto. Il "Glorioso Alberto" era il nipote, un camionista morto in un brutto incidente sull'autostrada. Giuseppina, si disse, ne aveva inghiottito l'anima. E senza sapere che era morto, un bel giorno si mise a parlare con la voce del nipote. Identica. Un medico avrebbe diagnosticato un caso di isteria. Lei, furbissima, in quella zona poverissima del napoletano, non lontano da Castel Volturno, impiantò una piccola Lourdes. Venivano da tutta la Campania per farsi guarire. Un vero spettacolo".
Ma il suo interesse qual era?
"Per le litanie che il popolo cantava. Poi la vicenda ebbe un finale imprevisto e cruento. Qualche mese dopo Giuseppina la veggente fu ammazzata da un devoto al quale aveva garantito una sostanziosa vincita al totocalcio. Lui si indebitò e quando scoprì di non aver vinto niente perse il lume della ragione. Il denaro, questa "lingua" ritenuta universale, spesso stravolge le relazioni tra le persone".
Il suo lavoro non l'ha resa ricca?
"La ricchezza non è mai stata in cima alle mie priorità".
Si sente ancora di sinistra?
"Sento di essere me stessa con coerenza, nonostante le incertezze e i dubbi. Provengo da quel mondo, anche se non so più bene cosa oggi rappresenti. Se avessi vissuto una vita da politico sarei una sopravvissuta. Ma ho vissuto una vita da musicista. E allora eccomi ancora qui. La mia ricerca del canto popolare si è legata ai valori della Resistenza e della Costituzione. Avevo come punti di riferimento: Vittorio Foa, Pietro Ingrao, Bruno Trentin. Maestri e amici nel rispetto e nella fede nell'uomo. Era questa la mia sinistra".
E la fede in Dio?
"Avevo una madre profondamente cattolica. Alla morte di mio padre si votò alla castità assoluta, trovando nella religione un forte sostegno. Mi sembrò un modo estremo ed eccessivo di attaccarsi a Dio. Però non posso dire di non avere fede, se non altro perché ho un fratello sacerdote col quale a volte discuto. Siamo il risultato delle nostre radici, siamo la nostra terra".
Questa terra è la tua terra?
""Questa terra è stata creata per te e per me", cantava Woody Guthrie. Ci sono certe canzoni che dicono dove devi andare. Basta crederci e incominciare a camminare".
Francesco De Gregori & Giovanna Marini - Sento il fischio del vapore
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