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lunedì 19 agosto 2013

Ritratto di Renato Barilli

Ieri su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a

Renato Barilli, critico d'arte e di letteratura italiana ed artista

“Condannato al silenzio, vivo con la paura che alla fine nessuno si ricorderà di me”. L’arte, la letteratura, il Gruppo 63 memorie di un “critico inesistente”. Non invidio Eco, sono solo un piccolo intellettuale petulante
Renato Barilli Ciò che più temo è che nessuno si ricordi di me''




18 agosto 2013
Renato Barilli Ciò che più temo è che nessuno si ricordi di me ANTONIO GNOLI

«Il fatto che lei sia qui a Bologna, in questo giorno di implacabile afa, davanti a me, mi pare un miracolo. Una visione. Forse un' allucinazione».
Non so se Renato Barilli stia scherzando, in un pomeriggio di agosto in cui anche i grilli aspirerebbero a mettersi sotto il ventilatore, o sia serio e compunto. Propenderei per la prima ipotesi se non fosse per un curioso vittimismo che lo anima. Gli chiedo se soffre della sindrome di accerchiamento. Mi risponde con spiritosa prontezza che per accerchiare si richiederebbe la presenza concreta di un soggetto e lui da tempoè sparito dai radar. Puro ectoplasma, che però ha fatto in tempo a darci un libretto sul postmoderno (edito da Guaraldi):
«Non è l' ennesima tirata filosofica sul debolismo»,
dice con vaga e sorniona cattiveria. E il pensiero corre a Gianni Vattimo. Se Barilli, critico d' arte, quasi ottantenne, tra gli alfieri del Gruppo 63, fosse il nome di una strada, faremmo una certa fatica a trovarla. Ma una volta intercettata si vedrebbe un gran via vai di persone, un traffico di gente e cose che hanno sostato o l' hanno semplicemente attraversata. Del resto, un paio d' anni fa, uscì un suo ponderoso autoritratto (edito da Lupetti), ricco di episodi e di nomi e soprattutto attraversato da una certa paura di essere dimenticato. La chiamerei sindrome di abbandono. Davvero teme che nessuno la ricordi più, per quel che ha fatto e detto nel corso della sua vita?
«La paura c' è ed è reale. Le faccio un esempio: sono tra coloro che hanno dato vita al Gruppo 63, ricorrono i cinquant' anni della sua fondazione, non c' è nessuno, dico nessuno, che ricordi che a quell' avventura partecipai anch' io. Mi sento come un paria. È la triste realtà».
La fa soffrire?
«Sì, e trovo sia un' ingiustizia. Una forma di esclusione».
Si è dato una spiegazione?
«Ho provato. Pensai: sono antipatico? Vabbè, ma non più degli altri. Ho compiuto azioni riprovevoli? Non credo e comunque non tali da giustificare questo accanimento. Ho dato fastidio? Non mi sembra».
E allora?
«Un sospetto ce l' ho. Credo che questo stato di cose dipenda molto dalla mia doppia natura. Da un lato esperto di arti visive, dall' altro critico letterario. Sa cosa mi dicevano gli amici? Quelli che si occupavano d' arte dicevano: Renato concentrati sulla letteratura che lì sei bravissimo; e i letterati invece mi invitavano a occuparmi d' arte, sperticandosi in lodi».
Lei è un equivoco vivente.
«Non scherzi, la cosa mi fa soffrire».
Condannato all' inesistenza.
«Non l' auguro a nessuno. Fin da bambino agognavo la socievolezza».
Cosa ricorda dell' infanzia?
«Pochissimo del fascismo, sono stato appena figlio della lupa e poi tutto si è dissolto. Invece ho ancora nella testa i rumori della guerra. Sperimentai tutti i tipi di bombardamento. Sento ancora il cupo ronzio delle fortezze volanti. Luccicavano in alto come enormi sardine d' argento, emanando un suono simile ai quintali di ghiaia scaricati di colpo. Mi distraevo e proteggevo, leggendo».
Cosa?
«Salgari, innanzitutto. Le sue avventure erano più forti dell' orrore della guerra. E poi, più grande, scoprii, Pascoli. Uno dei miei primi amori. Ma già eravamo negli anni Cinquanta».
Com' era la vita a Bologna in quel periodo?
«Intensa, varia, prolifica. Mi iscrissi a ingegneria. Facoltà virile, maschia, impegnativa. Inadatta a un temperamento curioso e polivalente, come il mio. Mi venne in soccorso una meningite virale che fiaccò le mie difese intellettuali. Finii così a Lettere. E lì ho avuto la possibilità di conoscere e frequentare Luciano Anceschi».
Lo studioso di estetica?
«Proprio lui, allievo di Antonio Banfi, mentalmente più agile del suo maestro. La cosa importante che ho appreso è che una teoria più che imporre dogmi deve liberare da quelli esistenti. Fu splendido, anche se sfibrato dalla beghe accademiche. Peccato che soffrì di un invecchiamento precoce. A lui, in parte devo, le distanze che presi dal cosiddetto marxismo letterario».
Dalle posizioni espresse da Lukács?
«Che erano poi quelle difese dagli intellettuali comunisti. Posso vantarmi di aver sentito fin da subito un' avversione per l' "impegno". È stato naturale in seguito dar vita al Gruppo 63. Lukács era la nostra bestia nera: il richiamo all' ordine e l' esaltazione delle classi popolari. Chi da noi se ne fece interprete stucchevole fu Vasco Pratolini».
Ma il vostro successo da cosa dipese?
«Dal bisogno di svecchiamento. Non se ne poteva più del bello stile toscaneggiante. Come neoavanguardia non abbiamo inventato nulla. Abbiamo solo esteso e democratizzato le invenzioni delle avanguardie storiche. Umberto Eco lo ha detto benissimo: siamo stati la "generazione di Nettuno". Lavoravamo sott' acqua, mentre i nostri padri nobili furono tellurici, esplosivi, dirompenti».
Chi sono stati i più talentuosi del gruppo?
«Avrei difficoltà a distinguere i più bravi. Sanguineti fu straordinario con il suo Capriccio italiano; Balestrini ha mostrato nel tempo una magnifica tenuta; i "Nuovissimi", con la loro poesia, furono la punta di attacco; Eco è stato una specie di fratello maggiore. Fu il primo ad avvicinarsi all' industria culturale a capirne i meccanismi e trovo determinante il contributo che diede con Opera aperta. Peccato che sia finito a scrivere romanzi».
Peccato perché?
«Li trovo dei divertissement. E quello che poteva anche essere una piacevole vacanza è diventata la sua occupazione principale». Non è un po' invidioso?
«No, sono solo un piccolo intellettuale, petulante e intransigente».
Piccolo ma agguerrito e col tempo anche potente.
«Ho spesso rischiato il fallimento. Potevo restare il professorino di lettere di un istituto privato; potevo deprimermi dopo la figura miseranda che feci per un colloquio in vista di una borsa di studio per gli Stati Uniti; potrei dirle quanto ho sospirato prima di entrare stabilmente all' Università. E solo dopo tutto questo che la fortuna ha cominciato a girare. Agli inizi degli anni Settanta, con l' aiuto di Argan, fui messo in cattedra e subito dopo, morto Francesco Arcangeli, mi ritrovai alla testa dell' Istituto bolognese di Storia dell' Arte e, pur con fasi alterne, per un quarto di secolo vi ho svolto un ruolo intenso».
 Quell' istituto era il coagulo dell' esperienza longhiana.
«Direi il luogo più sacro all' eredità di Longhi. Di fronte al quale mi sentivo un miscredente. Voglio dire che ero, come quasi tutti, pronto a riconoscere in lui le qualità stilistiche dello scrittore, ma a deprecare il suo inveterato naturalismo che lo portava a disprezzare tutte, o quasi, le esperienze novecentesche».
Cosa pensa delle due grandi esperienze pittoriche del Novecento, almeno della prima metà, cioè De Chirico e Guttuso?
«Con Guttuso sono stato forse fin troppo duro nella condanna. Sebbene sia stato il capofila del rigurgito di naturalismo che si ammantava di falso progressismo, gli riconosco a posteriori un indubbio talento. Il caso di De Chirico è del tutto singolare. Pensavo, come tutti, che finiti gli anni Venti, non avesse più nulla da dire e che la sua occupazione fosse ormai quella di stendere dipinti orribili e di pessimo gusto».
E invece?
«Mi accorsi, negli anni Settanta, che quel suo ricopiare, o rifare, in modi volutamente eccessivi e caricaturali le sue opere famose del periodo metafisico, ma utilizzando colori caramellosi, insomma quel suo imperterrito "citare", lo inseriva a pieno titolo nel postmoderno. De Chirico è stato l' espressione di una "neg-avanguardia", di un' avanguardia con il segno meno che capovolge i valori progressisti, come succede in algebra. Ma nessuno si sognerebbe di condannare come reazionari i numeri negativi».
Ma quando un critico dà un giudizio e sente, col tempo, di averlo sbagliato che fa?
«Non lo so. Molti fan finta di niente. Io non ho paura di ricredermi».
Le è accaduto?
«Agli inizi degli anni Sessanta, quando andavo a Milano, frequentavo di tanto in tanto il Bar Giamaica e mi vedevo spesso con Piero Manzoni. A me non piacevano le cose che faceva. In quel momento stava consumando una fase non eccezionale, quella dei "monocromi bianchi". Poi partii per Parigi dove stetti per più di un anno. Non ero accanto a lui quando ha fatto le sue opere davvero rivoluzionarie: la merda in scatola, il filo lungo all' infinito e altro. Mi rammarico, ma ho rimediato sostenendo i suoi eredi: De Dominicis e Cattelan».
Accennava al suo periodo francese.
«Sono stato decisamente un francofono. Amico di Jean Dubuffet e di Alain Robbe-Grillet. Le sue teorie sul "Nouveau roman" furono una svolta. Non ho amato Roland Barthes, perso dietro il sogno allora alla moda della semiotica. E l' arrivo di Michel Foucault e compagni mi ha turbato, non li ho capiti, trovandoli inutilmente ambiziosi. Ho considerato migliori i loro padri: Sartre e Merlau-Ponty».
Ma è vero che in Francia la chiamavano "Renet Barillet"?
«In realtà, questo sfottò è venuto dalla bocca di Giuseppe Guglielmi, fratello di Angelo, noto per le sue battute. I francesi non si sono troppo accorti del mio amore per loro, quello è l' unico paese in cui non sono mai stato tradotto».
Riecco il tono lamentoso, la sindrome di accerchiamento.
«Magari mi accerchiassero, invece sento solo il silenzio attorno a me. Che è l' arma più subdola. Non mi stroncano neppure, mi ignorano».
Non è che le fanno scontare le sue contaminazioni con il potere politico?
«Se allude a Craxi, ebbene vidi in lui un leader e una speranza per il Paese. Mi sbagliavo. Politicamente sono sempre stato un socialdemocratico. E per questo gli amici del Gruppo 63 mi sottoposero, già allora, a una specie di processo, dal quale uscii indenne. Sono stato per il Psi responsabile nazionale per le arti. Ho tentato di fare qualcosa in quella direzione anche se, lo devo ammettere, talvolta ne ho approfittato per proporre le mie mostre».
È anche pittore?
«Certo. Ho perfino frequentato da giovane l' Accademia delle Belle Arti».
Non capisco se sia più egocentrico, masochista o equanime nel raccontarsi.
«Tenderei a essere equanime, talvolta ci riesco anche per una indubbia pulsione masochistica, tanto da riuscire a infliggermi le qualifiche più odiose. Ritengo di essere l' autore che, nonostante una produzione di ormai sessant' anni, viene più di frequente omesso. Con un pizzico di divertimento mi definisco ormai come un calviniano "critico inesistente". Ma in fondo, lo ammetto, in tutto questo ci può anche essere una punta di vanità e di egocentrismo. Conosco bene l' arte di giocare a rovescio, di capovolgere il tavolo. L' ho appresa da Robbe-Grillet, del quale rimasi amico fino a quando non stroncai il suo cinema. Faceva film duri, legnosi, prefabbricati. Mi tolse il saluto. E fui cancellato dalle sue volontà testamentarie. Credo di aver rivestito un ruolo importante per lui. Ma nelle sue memorie non c' è nessuna menzione, neppure marginale o di sfuggita. Nessuna traccia di me».
ANTONIO GNOLI


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lunedì 12 agosto 2013

Ritratto di Riccardo Muti

Ieri su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a
Riccardo Muti, il grande direttore d'orchestra italiano.
“Ho avuto fortuna, ma non sono nato con il papillon e la musica ha tolto molto tempo ai miei affetti”




11/08/2013
Riccardo Muti
 Ho avuto fortuna ma non sono nato con il papillon

di ANTONIO GNOLI

Straparlando Riccardo Muti "Ho avuto fortuna ma non sono nato con il papillon" oltre ad essere il grande musicista amato in tutto il mondo- dirige la Chicago Symphony Orchestra ed è direttore onorario del Teatro dell' Opera di Roma - Riccardo Muti è un uomo molto spiritoso. Me ne accorgo assistendo a una sua lezione dedicata al Nabucco, davanti a una vasta platea di studenti sotto gli affreschi "africani" del Teatro dell' Opera. E se ripenso agli anni penosi di questa istituzione, che divenne e restò per lungo tempo uno degli esempi della decadenza italiana, mi pare un miracolo ciò che Muti ha realizzato.E dovete immaginare quest' uomo che in uno stile informale intrattiene il suo pubblico per più di due ore. Senza annoiarlo, senza deprimerlo.
 Davvero sorprendente.O quanto meno insolito. Come il taglio sottile dei suoi occhi che verrebbe da definire circasso se non fosse che è nato a Napoli.
«Certo, sono nato a Napoli ma a 14 giorni con i miei ci trasferimmo in Puglia, a Molfetta. Entrambi i luoghi sono incisi sulla mia pelle, come tatuaggi».
Come qualcosa che non si può cancellare?
«Non si può togliere la nostalgia e i ricordi ad essa legati. Sento ancora i profumi della mia terra, dove ho vissuto fino a 17 anni. Le stagioni che passavano le avvertivo dagli odori della natura. Il Natale mi si annunciava non con le luci o il presepe ma con il profumo delle arance. Mi chiedo se sono stato privilegiato in questo, se la mia generazione ha goduto di qualcosa di irripetibile. Nelle mie lezioni ai giovani mi pongo sempre questo problema: come trasmettere certe cose, come parlare di musica, a loro che sono lontani dalla mia stagione, dal mio tempo? Ecco il bisogno di sdrammatizzare e di uscire da certi toni retorici».
Sorprende un po' in un direttore d' orchestra il desiderio di alleggerire.
«Fa parte delle mie due nature: seriosa e leggera. Da una parte, quella pugliese, ponderosa e greve; dall'altra, quella napoletana, solare e scherzosa. E poi, le confesso, che è sempre spiccata in me la tendenza a smitizzare ciò che faccio.A volte mi capita di affermare una cosa molto seria e subito dopo svuotarla di importanza».
Forse è un bisogno di non prendersi troppo sul serio?
«Forse, ma le dirò che non ho piacere a indagare nelle profondità dell' animo umano, soprattutto il mio».
Un' identità precisa però ce la fornisce il suo lavoro. Chi è un direttore d' orchestra?
«È un signore che esercita una delle ultime nobili professioni in cui un singolo mette d' accordo un insieme di persone».
Occorrono virtù carismatiche?
«Direi di sì. L' orchestra è un piccolo collettivo dall' istinto sovrumano. Si accorge immediatamente delle qualità di un direttore, già dal modo in cui sale sul podio. Un direttore deve sapere cosa vuole ottenere. E l' orchestra percepisce se egli va per tentativi o possiede esattamente ciò che intende trasmettere».
Si è spesso associato il direttore di orchestra a una figura dittatoriale. È un' immagine che sopravvive?
«Fortunatamente non esiste più il direttore tiranno che con gesto imperioso allontanava l' orchestrale di turno. D' altra parte, non si può neanche pensare a una direzione collegiale».
Chi sono stati i direttori che hanno rivoluzionato il mondo della musica? 
«È difficile fornire un elenco».
Le lancio un nome facile: Toscanini?
 «Grande, anche se non mi ritengo un toscaniniano. Però il mio insegnante fu assistente di Toscanini. Di lui ammiro il rigore e la severità. Ho amato Furtwängler per quel senso di improvvisazione che imprimeva all'esecuzione. Nel momento in cui eseguiva dava la sensazione di stare creando. E poi Bruno Walter. Figure che non si discutono».
Il più controverso è stato Karajan.
 «È stato soprattutto un innovatore. Con lui si è arrivati alla scoperta di un culto del suono che prima non esisteva».
Forse anche un culto della personalità.
«Sapeva amministrare perfettamente la sua immagine. Ma il primo fu Toscanini. Bastava vedere come vestisse già durante le prove. E poi capì immediatamente l' importanza di un mezzo come la radio».  
Che cosa è il cantante per un direttore?
«Per un artista la voce è lo strumento più immediato ed esaltante. Un direttore deve scoprirne il segreto. Ma anche accettarne la memoria. Ero agli inizi della carriera quando ebbi la fortuna di lavorare con Maureen Forrester, interprete strepitosa dei Lieder di Mahler. Aveva cantato con Bruno Waltere portò a me gli echi di quella esperienza storica».  
Si dice che tra quelle femminili la più grande voce fu la Callas.
«Non farei classifiche. Fu straordinaria in mano a certi direttori. E in un periodo di approssimazione, si parla degli anni Cinquanta, diede al canto e all' arte scenica una disciplina sconosciuta. Non ho mai lavorato con lei. Ma una sera mi telefonò. Ero a Philadelphia. Avevo parlato di lei a un amico, confessandogli che mi sarebbe piaciuto dirigerla. Mi disse che era bello che avessi pensato a lei. Ma aggiunse che era troppo tardi».  
Cos' è il tramonto di un artista?
«Non per tutti è uguale. Alcuni non si rassegnano al tempo che passa. Lo vivono come un affronto, un' offesa. La cosa peggiore che può accadere è di non avere una confidenza ironica con la vita. Occorre saggezza, modestia e una certa disinvoltura per non lasciarsi travolgere dal ricordo di ciò che si è stati e non si è più».  
I ricordi continuano ad affascinarla?
«Mi forniscono la misura della nostalgia, che è una cosa diversa dal rimpianto. La nostalgia dà valore al passato, a ciò che si è fatto. Il rimpianto è la paura per un passato che non passa, che abbiamo mancato. Perciò rischia di trasformarsi in ossessione».
I suoi primi ricordi?
«Due, nitidi. Mio padre nell' ospedale militare, era il 1945, con il camice bianco da medico che curava i soldati tornati dal fronte; l' altro è la prima visione che ho avuto del Castel del Monte. Ricordo che con tutta la famiglia partimmo in carrozza da Molfetta. Arrivammo all' alba e mi apparve il Castello in tutta la sua imponenza. Quell' immagine si è sovrapposta come una seconda pelle. E mi piace pensare che sia l' ombra di Federico II».  
Sono ricordi molto seri. Come è stata la sua infanzia?
«Severa e meravigliosa. C' era la guerra, ma c' erano anche gli occhi di un bambino che guardavano con incanto alla sua terra. Giocavo con i miei coetanei, con i miei fratelli. Ero affascinato dalle feste del Sud, in cui sacro e profano si mescolavano. Come pure ero attratto dalla banda che a volte evocava melodie mediorientali. Incombevano la morte e la vita; la gioia e la tristezza. Quel mondo mi ha dato il vantaggio di guardare all' esistenza non con superiorità ma con distacco». 
Perché?
«Provenire da una terra solida e antica, piena di valori, forgia come nessuna altra metropoli può fare. Niente può gareggiare con l' immagine che conservo, neppure i grattacieli di Manhattan».  
Dei suoi fratelli è il solo a essersi occupato professionalmente di musica?
«Sì, ed è stato casuale. Grazie forse agli incontri che si hanno nella vita. Uno di questi fu con Nino Rota. Quando mi presentai a Bari per l' esame di pianoforte, per me era un modo di completare i miei studi, mi sentì suonare e disse che avevo le qualità per diventare musicista. A quel punto, dopo un consiglio di famiglia molto sofferto, i miei decisero che avrei potuto frequentare il conservatorio».  
Che ricordo ha di Rota?
«Aveva studiato con grandi maestri e aiutato Toscanini, che stimava molto questo giovane talento. Era un uomo celestiale, di una bontà estrema. E un musicista pieno di fascino. Ho inciso diverse sue composizioni».  
Lei poteva intraprendere una carriera di solista, perché è finito a dirigere?
«Il pianoforte fu una decisione dall'alto. Lo studiai a Napoli con Vincenzo Vitale, uno dei grandi maestri della scuola napoletana. E anche se ero un ottimo pianista non è che ci credessi più di tanto. Poi, un giorno fui convocato dal direttore del conservatorio che mi disse: hai mai pensato di dirigere? Restai perplesso. E lui fissandomi negli occhi: credo che tu abbia le qualità per fare il direttore d' orchestra». 
E lei?
«Restai un po' stupito. Poi accadde tutto in modo naturale. Quando cominciai a muovere il braccio sentii dopo pochi secondi che quello sarebbe stato il mio destino. Era una condizione magica: da un gesto semplice scaturivano i suoni. Provai una sensazione strana, insieme di esaltazione e smarrimento».  
Se non si fosse occupato di musica?
«Probabilmente sarei stato un mediocre avvocato».  
Quindi è un uomo fortunato?
«Chi non lo sarebbe al mio posto. Però non sono cresciuto con il papillon. I miei genitori non mi dicevano: Riccardo sei un genio. Le mie conquiste le ho realizzate giorno per giorno, con fatica e determinazione.E poi, le confesso, la musica mi ha tolto tante altre cose».  
Cosa esattamente?
«Potrei dirle la vita, ma sarebbe enfatico. E perfino ingiusto. Però nello spettacolo in cui siamo immersi ed esposti finiamo col perdere la nostra semplicità. E ho sperimentato che fare seriamente una simile professione toglie tempo agli affetti. Ho visto crescere bene i miei figli, ma spesso ero distante da loro».  
Prova sensi di colpa?
«A volte sì. Poi, ringrazio Dio di avermi messo su una strada dove potevo mostrare le mie qualità. Vede? Da un lato c' è il rimorso, dall' altro la convinzione che non poteva che andare così». 
Cos' è il talento?
«Verdi diceva: lavoro, lavoro, lavoro».
 Non basta, lo sa.
«Avere idee forti e il coraggio di portarle avanti a dispetto delle convenzioni e dei conformismi. In ogni grandissimo talento c' è il momento della trascendenza».  
Crede in Dio?
«Credo in un Dio unico, possiamo anche dargli nomi diversi, assoggettarlo alle nostre necessità o abitudini, ma c' è un solo creatore. Non si può dirigere il Requiem di Verdi o la Messa in si minore di Bach senza avvertire il fascino di una presenza divina. Grandezza spirituale e abisso, questa è la musica».  
A proposito di abisso, mi incuriosiva la sua affermazione che è meglio non guardarsi troppo nel profondo.
«È una forma di difesa. Molte volte è preferibile non chiedersi tante cose, non aprire certe porte».  
Ma per un artista non è fondamentale aprire le porte più rischiose?
«È una visione romantica. Comunque anch' io ne ho aperte. Però c' è un istinto razionale che mi spinge alla cautela. Mi pare fosse Kant, in una celebre pagina della Critica della Ragion Pura, a mettere in guardia dall' ignoto».  
Il giorno in cui smettesse la sua professione, cosa farebbe?
  «Bella domanda. A volte mi sento un outsider dell' arte che è finito sul palcoscenico per una serie di circostanze favorevoli. Ma spente le luci bisogna avere il coraggio di uscire dal gioco. Credo che tornerei all' immagine di Castel del Monte. Proprio lì davanti ho comprato un terreno dove mi piacerebbe andare a vivere».
È come un ritorno all' infanzia?
 «In un certo senso. Ma quando accadrà e quanto tempo dedicherò a questa nuova forma di vita non lo so».
 Il Castello è un' interessante metafora, un' opportunità letteraria.
 «Non è il Castello di Kafka, minaccioso, terribile, enigmatico. Quello di Federico II fu creato non per difesa ma per la mente, è un libro misterioso scritto con la pietra. Trasmette un' idea di una perfezione che ogni uomo dovrebbe cercare».  
E lei l' ha trovata? «A volte mi sono illuso. È una necessità che ci portiamo dentro. Come un mare infinito nel quale a volte con timore o esaltazione ci bagniamo».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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sabato 10 agosto 2013

Dagli Antipodi: le tavole di David Rowe, Gheddafi (2)

Le tavole di David Rowe che ho scelto per la seconda puntata hanno un soggetto unico, Mu'ammar Gheddafi.
Sono state disegnate nel 2011 dopo la decisione dell'Onu di intervenire in difesa delle popolazioni civili contro le violenze del governo libico.
L'intervento militare in Libia del 2011 è iniziato il 19 marzo ad opera di alcuni paesi aderenti all'Organizzazione delle Nazioni Unite autorizzati dalla risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza che, nel marzo dello stesso anno, ha istituito una zona d'interdizione al volo sul Paese nordafricano ufficialmente per tutelare l'incolumità della popolazione civile dai combattimenti tra le forze lealiste a Mu'ammar Gheddafi e le forze ribelli nell'ambito della guerra civile libica.
Ed è terminato nell'ottobre 2011 in seguito alla morte del Ra'is. Conseguentemente, la NATO ha cessato ogni operazione il 31 ottobre.

























 (2; continua)
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Difficile scegliere un titolo per questa nuova rubrica con cui prossimamente e saltuariamente vi farò conoscere qualche disegno di questo grande artista  australiano David Rowe.
 Amico grazie ai social network, David riesce a stupirmi con ogni suo disegno, anche quelli sulla politica locale dell'Australia  di cui magari non capisco neppure l'argomento ed i personaggi.
 Disegni colti eruditi che non ci si stanca di ammirare.
Qui sul blog condividerò i suoi grandi ritratti, le caricature, la satira internazionale.
Dagli Antipodi: le tavole di David Rowe(1)

mercoledì 7 agosto 2013

Ritratto di Lina Wertmuller

Ieri su Repubblica uno splendido ritratto di Riccardo Mannelli ed una bella intervista-testimonianza
di Antonio Gnoli

a Lina Wertmuller, famosa regista italiana.






Lina Wertmuller: Sono una donna piena di eccessi
di ANTONIO GNOLI

Lina Wertmuller: " Sono una donna piena di eccessi" vogliata, capricciosa, inversa. Sdraiata su un divano - che Freud avrebbe guardato con la stessa curiosità con cui studiava i suoi nevrotici - Lina Wertmüller mi riceve nella sua casa romana. Dice di non avere troppo tempo da dedicarmi. Sollecita la lettura di articoli su di lei, biografie, monumenti. E la prima cosa che penso è che chi mi sta di fronte sia una persona insopportabile. Non un' egocentrica, come pure capita di incontrare e neppure una provocatrice pronta a stoppare l' ennesimo seccatore di turno. Ma una cui non frega più niente di niente. È lì stesa sui cuscini con i suoi inconfondibili occhialini bianchi a dirci - tra i silenzi e i colpi di tosse - che la vita ha compiuto il suo giro completo. Poi penso che a 85 anni Lina Wertmüller ha tutto il diritto di mandarmi al diavolo e che in fondo sotto quell' apparente svagatezza si cela la donna intelligente, provocatoria, e perfino fragile che ci ha regalato alcuni dei più bei film della storia italiana, a cominciare da quell' esordio I basilischi che la impose a livello internazionale.
Che ricordo ne ha?
«Ma io non voglio ricordare. Sono stanca. Dormo poco. Ho sempre dormito poco. Tre o quattro ore per notte. Un tempo mi bastavano. Per fare tutto quello che facevo».
E ora? «Ora che?».
Cosa fa, la notte, quando è sveglia? «Vedo film, mi rincoglionisco di cinema. La notte, il giorno, il pomeriggio. In questo momento è la mia occupazione principale: condannata a vedere».
 Le piacerà anche. «Ci sono film che non invecchiano. Solitamente quelli in bianco e nero. Mi farebbe un favore?».
Se posso. «Non mi faccia più domande».
Perché ha accettato che venissi? «Forse perché ci illudiamo di essere dei punti di riferimento nel mondo reale».
Per alcune persone lo siamo, per altre forse lo diventeremo. «In un certo senso è vero. Se ci va bene diamo e riceviamo orientamento. Vuole un bilancio della mia vita? Credo di essere stata una donna molto fortunata».
E il cinema c' entra con questa fortuna? «Non potrei negarlo. Alti e bassi: è la legge dello spettacolo».
Più alti, direi. «Vuole compiacermi?».
Ma no, è un fatto. Proprio a cominciare da quell' esordio. Che anno era? «Ci risiamo. Vabbè, era il 1961. Scelsi di raccontare una storia del Sud, un pezzo delle mie radici. Avvenne tutto in maniera molto casuale. Ero andata con Tullio Kezich a trovare Francesco Rosi sul set di Salvatore Giuliano. Mi venne la curiosità di visitare il paese di origine di mio padre che non era molto lontano: Palazzo San Gervaso, una gloriosa cittadina della Basilicata. E guardando la vita arcaica e velleitaria dei suoi abitanti, sentendoli parlare come se al mondo non esistesse che quel paese, pensai che quella storia valeva la pena di raccontarla. Scrissi la sceneggiatura e realizzai il film. Kezich, che aveva caldeggiato e seguito tutte le fasi, riuscì a farlo entrare in concorso al festival di Locarno, dove vinse. Era il 1963».
Aveva già avuto esperienze con il cinema? «Frequentavo Federico Fellini. Lo conobbi attraverso la mia amica Flora Carabella, una donna dotata di un fascino unico, che avrebbe in seguito sposato Marcello Mastroianni. Fellini dava l' impressione di interessarsi a te, quando in realtà era solo lui il centro dell' attenzione. Comunque, gli divenni amica. Lo accompagnai perfino alla prima londinese della Dolce vita e lo aiutai nel casting di Otto ½. Tra l' altro, fu proprio grazie alla troupe di Otto ½ che potei realizzare I basilischi. In ogni caso, più che il cinema fu il teatro la mia passione d' esordio».
E come si realizzò quella passione? «Fu grazie a Flora, che si era iscritta all' Accademia d' arte drammatica, che cominciai a frequentare l' ambiente. Ero troppo piccola per iscrivermi e alla fine scelsi la Libera accademia del teatro che era diretta da Pietro Scharoff, un allievo di Stanislavskij di cui insegnò il metodo. Finito l' apprendistato mi sentivo pronta a conquistare il palcoscenico. E feci una cosa abbastanza inusuale».
Cioè? «Mi rivolsi direttamente a un famoso regista teatrale, Guido Salvini. Suonai il campanello di casa e lui mi venne ad aprire in pigiama e morto di sonno. Mi disse che vuoi ragazzina? "Mi chiamo Lina Wertmüller e voglio fare l' aiuto regista". Avevo una faccia tosta incredibile. Fu così che ebbe inizio la mia avventura teatrale».
A parte Salvini chi l' aiutò? «Fu Andreina Pagnani, grandissima attrice, a prendermi sotto la sua protezione. Mi presentò Giorgio De Lullo che aveva creato la Compagnia dei Giovani con Romolo Valli, Rossella Falk, Anna Maria Guarnieri. Giorgio era un uomo bello e dotato di una grande sensibilità. Soffrì enormemente per la morte di Romolo Valli, avvenuta in un incidente automobilistico, al punto di ritirarsi per alcuni mesi in un convento. Poi, si lasciò travolgere dall' alcol. L' ultima volta che lo incontrai fu al caffè Rosati di Roma: lo vidi alle dieci del mattino con un enorme bicchiere di whisky in mano».
Cos' è l' autodistruzione? «Girare intorno al proprio abisso e poi finirci dentro. Bisognerebbe amare tutto quello che fa crescere e detestare ciò che ci fa regredire».
Come sono stati gli amori della sua vita? «Belli, strani, a volte divertenti. Ma per me uno solo fu fondamentale. E se non sentissi il senso del ridicolo, aggiungerei eterno, quello per mio marito: Enrico Job. Come si fa a raccontarlo?».
Cosa ha avuto di speciale? «Tutto. È stato un grande artista. Ai miei occhi il più grande. Era un uomo schivo che non accettava i compromessi. Deluso dal mondo foto dell' arte contemporanea, aveva preferito il teatro. Fu uno scenografo impareggiabile, innovativo. Ha ideato per me le cose più belle, anche quelle realizzate al cinema».
A proposito di cinema lei è stata la prima donna candidata a un Oscar per la regia. «Avvenne con Pasqualino Settebellezze, ebbe quattro nomination. New York impazzì per i miei film. Avevo messo d' accordo il pubblico, la critica e i registi. Pensi che Woody Allen, colpito dalla montatura dei miei occhiali bianchi, voleva farmi fare un cameo in Io e Annie. In quel periodo stavo girando un film. Perciò gli spedii un paio di occhiali simili a quelli che indossavo dicendogli che avrebbe potuto usare una controfigura. Non credo colse l' ironia. Quel piccolo ruolo fu poi interpretato da Marshall McLuhan. Perfino uno scrittore come Henry Miller, dopo aver visto Travolti da un insolito destino, disse che il film, per umorismo ed erotismo, gli ricordava Tropico del cancro ».
Uno che di sesso se ne intendeva. «A giudicare dai suoi romanzi e carteggi era un' autorità assoluta. Nel mio piccolo con il duo Giannini-Melato realizzai la coppia più erotica del cinema italiano. O quasi».
Quasi? «Beh, il grande De Sica aveva creato quella tra Sophia Loren e Marcello Mastroianni. Come si dice? Noblesse oblige ».
Si può coniugare erotismo e comicità? «Ma i miei film non sono mai stati comici. Non appartengo alla tradizione gloriosa della commedia all' italiana; e lo dico consapevole che da lì sono uscite opere straordinarie. No, i miei film sono grotteschi. Che è un' altra cosa».
Cosa l' attrae del grottesco? «Sono una donna piena di eccessi e forse il grottesco stilisticamente mi corrisponde. Amo deformare la realtà perché solo così riesco a raccontarla. Anche l' eros vi si intona meglio».
Sul grottesco viene da pensare a certi giudizi poco lusinghieri che Nanni Moretti espresse sul suo cinema. «Ah l' abominevole Moretti! Pensavo che le sue uscite contro di me in Io sono un autarchico, sotto forma per lo più di vomito, fossero solo spiritosi espedienti. In realtà era vero disprezzo. E lo capii quando al festival di Berlino provai a salutarlo e lui mi voltò le spalle. Credo, nonostante tutto il suo successo, che sia e resti un rosicone».
Cos' è il cinema? «È una baracconata quando lo fai. Ma poi accade il miracolo. E a volte diventa poesia».
E recitare? «Un dono misterioso e naturale che un bravo attore ha e gli altri non hanno».
In cosa consiste? «Ti fa credere in quello che fa. Alla base della grande recitazione c' è l' identificazione del pubblico. Ciascuno vuole essere lui o lei. È un' alchimia dei sentimenti».
Teme il pubblico? «Temo la sua imprevedibilità. Chaplin sosteneva che il pubblico è un mostro senza testa che non si sa mai da che parte si volterà. Anche in questo caso mi ritengo fortunata».
La fortuna è anche negli incontri che si fanno. «Dovrei fare una lista lunghissima. Ricordo con tenerezza Nino Rota, una presenza soave. Gli capitava di comporre suonando e dormendo al pianoforte. Visconti: esigente e aristocratico. Con Luchino negli ultimi tempi c' era spesso Helmut Berger. Circolava la storiella che questo giovane bellissimo gli fosse stato portato da un albergatore austriaco avvolto in un tappeto, come pagamento per un debito. Non facevano che insultarsi. Ricordo il salotto di Suso Cecchi d' Amico. Da lì è passato tutto il cinema italiano. Il solo che non andò mai era Fellini. Come salotto preferiva Roma».
È la città dove è nata? «Sì, in una palazzina rosa dietro piazza Cola di Rienzo. Da anni vivo invece sopra piazza del Popolo. Mi affaccio e capisco perché Roma è la città più erotica del mondo. In questo piccolo spazio si intrecciavano i destini di parecchi artisti, che spesso si vedevano la sera al ristorante l' Augustea: Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Laura Betti, Elsa Morante, la più grande scrittrice italiana del ' 900».
Glielo riconoscono in molti. «È vero. Le piacevano i cani, i gatti e i ragazzi vagabondi. Se li portava a casa e li accudiva».
Un artista deve essere diverso? «Deve con il suo linguaggio saper raccontare delle storie. Poi che sia diverso o no chi se ne frega. Io ne ho raccontate tante. E mi capita di dire: se domani non ci sarò più sappiate che mi alzerò da tavola come un commensale sazio».
E se le chiedono il conto? «Spero che non sia salato. Per ora si va avanti».
Avanti come? «Ho finito di scrivere una commedia per il teatro su Livia, la moglie dell' imperatore Augusto. Fu la donna che accompagnò il difficile passaggio dalla repubblica all' impero. Di solito sono figure che non vengono ricordate. Ed è un peccato perché avremmo molto da apprendere. Livia aveva due palle che non finiscono mai».
Sente di assomigliarle? «Non vedo imperi all' orizzonte. Però mi piacerebbe».
(La Repubblica)



lunedì 29 luglio 2013

Ritratto di Enzo Bianchi, priore di Bose

Ieri su Repubblica uno splendido ritratto di Riccardo Mannelli ed una bella intervista-testimonianza
di Antonio Gnoli
a Enzo Bianchi, il priore di Bose



“Ho passato la vita alla ricerca di Dio oggi sento il peso di non avere figli”
intervista a Enzo Bianchi a cura di Antonio Gnoli
in “la Repubblica” del 28 luglio 2013
Forse cinquant’anni fa Enzo Bianchi non avrebbe immaginato che la Comunità di Bose, da lui
fondata, sarebbe diventata un importante centro della spiritualità, sul quale convergono religiosi e
laici da tutta Europa. E non è che qui si respiri la severa aria teologale che incute timore e toglie il
respiro. Quel vecchio detto: solo il bene alla lunga è degno di considerazione qui è declinato con
naturalezza e semplicità. Sono le armi con cui mi accoglie il Priore, in questo luogo che conta una
settantina di monaci, impegnati nelle più diverse attività.
Bianchi ha una vita intensa. Scandita, oltre che dal lavoro in comunità, dagli incontri esterni:
generalmente sono conferenze con molto seguito. Ha da poco compiuto settant’anni che Einaudi ha festeggiato con una raccolta di scritti in suo onore (La sapienza del cuore). E nell’osservare
quest’uomo dalla costituzione robusta e dallo sguardo franco mi chiedo quanto di tutto quello che vedo realizzato sia dipeso dal suo carisma. Sediamo a una tavola imbandita con semplicità e dovrei raccontare a questo punto l’appassionata competenza che il Priore esibisce in fatto di cucina. Quella che predilige è monferrina, perché lì sono le sue origini: «Mia nonna era una cuoca francese, venne in Italia e sposò mio nonno, un panettiere. In casa c’è sempre stato il culto per la cucina». E per un po’ la conversazione si insinua tra i ricordi di pietanze della sua terra: «Amo il mio Monferrato con
le sue colline e le sue viti», dice. E nel dirlo, si avverte un senso di pienezza e di malinconia.

martedì 12 gennaio 2010

De Andrè 11 anni dopo ... musica tra le vigne...


Umberto Romaniello

11 gennaio 2010,
11 anni dopo si ricorda il Beato Fabrizio, protettore dei versi in musica. Dall'ombra di umidi ronchi distillava nell'aria gli sguardi degli ultimi. 
*
* 


*HOTEL SUPRAMONTE. 

  

 

GRANDRE' Rifuggo, disprezzo, aborro il fanatismo. Ma per Fabrizio De Andrè, forse, non nascondo la coda di paglia e lo ammetto, stravedo. Le sue parole accompagnano le mie giornate da trentacinque anni, i suoi cd occupano la mensola sopra la mia scrivania, inamovibili ma mai impolverati, mai inusati, anzi sempre ascoltati, sempre riascoltati. Dunque l'invito di Carlo a ricordare il Maestro nel decennale è, per me, quasi un dovere, un obbligo a rivisitarlo in decine e decine di canzoni, a riviverlo in una discografia mai stanca, sempre nuova, sempre emozionante. E, tra le tante meraviglie che ci ha regalato, ho scelto di usare Un malato di cuore per la mia ipotesi di Quadretto:brulliotoi Etichette: brulliotoi, de andrè, omaggio a de andrè mi permetto Tullio di aggiungere il testo Un Malato Di Cuore! "Cominciai a sognare anch'io insieme a loro poi l'anima d'improvviso prese il volto." Da ragazzo spiare i ragazzi giocare al ritmo balordo del tuo cuore malato e ti viene la voglia di uscire e provare che cosa ti manca per correre al prato, e ti tieni la voglia, e rimani a pensare come diavolo fanno a riprendere fiato. Da uomo avvertire il tempo sprecato a farti narrare la vita dagli occhi e mai poter bere alla coppa d'un fiato ma a piccoli sorsi interrotti, e mai poter bere alla coppa d'un fiato ma a piccoli sorsi interrotti. Eppure un sorriso io l'ho regalato e ancora ritorna in ogni sua estate quando io la guidai o fui forse guidato a contarle i capelli con le mani sudate. Non credo che chiesi promesse al suo sguardo, non mi sembra che scelsi il silenzio o la voce, quando il cuore stordì e ora no, non ricordo se fu troppo sgomento o troppo felice, e il cuore impazzì e ora no, non ricordo, da quale orizzonte sfumasse la luce. E fra lo spettacolo dolce dell'erba fra lunghe carezze finite sul volto, quelle sue cosce color madreperla rimasero forse un fiore non colto. Ma che la baciai questo sì lo ricordo col cuore ormai sulle labbra, ma che la baciai, per Dio, sì lo ricordo, e il mio cuore le restò sulle labbra. "E l'anima d'improvviso prese il volo ma non mi sento di sognare con loro no non si riesce di sognare con loro." *

 
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GRAZIE FABER  
 Pubblicato da Vadelfio 
Etichette: de andrè, omaggio a de andrè, vadelfius, vignette 

Il cuore rallenta la testa cammina in quel pozzo di piscio e cemento a quel campo strappato dal vento a forza di essere vento porto il nome di tutti i battesimi ogni nome il sigillo di un lasciapassare per un guado una terra una nuvola un canto un diamante nascosto nel pane per un solo dolcissimo umore del sangue per la stessa ragione del viaggio viaggiare Il cuore rallenta e la testa cammina in un buio di giostre in disuso qualche rom si è fermato italiano come un rame a imbrunire su un muro saper leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura nei sentieri costretti in un palmo di mano i segreti che fanno paura finchè un uomo ti incontra e non si riconosce e ogni terra si accende e si arrende la pace i figli cadevano dal calendarioYugoslavia Polonia Ungheria i soldati prendevano tuttie tutti buttavano via e poi Mirka a San Giorgio di maggio tra le fiamme dei fiori a ridere a bere e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi e dagli occhi cadere ora alzatevi spose bambine che è venuto il tempo di andare con le vene celesti dei polsi anche oggi si va a caritare e se questo vuol dire rubare questo filo di pane tra miseria e sfortuna allo specchio di questa kampina ai miei occhi limpidi come un addio lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio KHORAKHANE' "a forza di essere vento" 
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Omaggio a De Andrè (aggiornamento) I tempi cambiano, cambiano anche i presidenti e persino io non sono (ci mancherebbe!) il grande Pazienza. Una sola cosa è certa, Faber resta...
Max



  

Una buona novella Pubblicato da Mauro Patorno Etichette: de andrè



  

Fifo 



 
* La guerra di Piero
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gavavenezia 


  
* Fabrizio De Andrè - Il suonatore Jones
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PER FABRIZIO DE ANDRE' Chi volesse, passando per Genova, fare un giro ragionato per le vere "croese de ma", passare per Via del Campo e magari arrivare sulla passeggiata De Andrè, è pregato di avvisarmi per tempo. Un saluto a tutti Uber *

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Inserto Satirico: Speciale De Andrè

PS:  
"La ballata di Michè"

* "Sappiamo - scriveva George Steiner - che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e poi, il mattino dopo, recarsi come niente fosse al proprio lavoro ad Auschwitz". Forse fare memoria è proprio reagire alla logica del "come se niente fosse", e decidere che per smettere di chiudere gli occhi non c'è bisogno di un'altra Auschwitz: forse basta anche un CPT." *La tavola disegnata è tratta dalla mostra "Come una specie di sorriso, Biani rilegge De Andrè", fino al 31 gennaio a Roma, libreria Feltrinelli di Galleria Colonna. Poi in giro per l'Italia: Milano, Bologna, Firenze, Napoli e probabilmente Palermo.
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il libro di Biani 


venerdì 9 ottobre 2009

I ritratti del presidente Napolitano.

'Giorgio Napolitano' di Rocco Grieco http://www.ilfoglio.it/


'Napolitano' di Roberto Malfatti http://www.ilfoglio.it/


'Napolitano' di Fulvio Fontana http://www.ilfoglio.it/


'Napolitano' di Mauro Patorno http://www.ilfoglio.it/


'Napolitano' di FANY



PS:




ACCIDENTI ALLA FRETTA !
Questa l'avevo mandata al concorso "la Caverna" del Foglio dove il tema di questa tornata era appunto "un ritratto di Napolitano". Ha vinto però il bravissimo amico Grieco e quindi io ora mi consolo pubblicandola sul mio blog.
Penso che Napolitano compia sforzi enormi per mantenersi sopra le parti ma, come si sta verificando non sempre la fretta di promulgare, per rispetto della maggioranza, contribuisce ad un corretto dibattito politico.

Pubblicato da uber a 9.49 di sabato 10 ottobre '09
Etichette: COSTITUZIONE, NAPOLITANO, politica, riforme costituzionali

mercoledì 30 settembre 2009

Fortina e i ritratti del cavaliere

La galleria dei ritratti del Cav. (che oggi 29 settembre compie 73 anni) che il pittore Andrea Fortina disegnò per il Foglio nel 2006


Andrea Fortina, sir Winston Churchill, olio su cartone, marzo 2006


Andrea Fortina, Napoleone, olio su cartone, febbraio 2006


Andrea Fortina, “L’imperatore Giustiniano”, olio su cartone, marzo 2006


Andrea Fortina, “Luigi XIV in battaglia”, olio su cartone, aprile 2006


Andrea Fortina, “Erasmo da Rotterdam e L’elogio della follia”, olio su cartone, marzo 2006


Andrea Fortina, Lady Margaret Thatcher, olio su cartone, marzo 2006


Andrea Fortina, Solimano il magnifico, olio su cartone, marzo 2006
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eh! eh! confesso che ieri quando ho disegnato il mio sultano
avevo trovato questo SolimanoII e non quello di Fortina


Il Sultano (fany)