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martedì 1 aprile 2014

Ritratto di Ennio Morricone

Il 26 marzo su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Ennio Morricone



"Credo in Dio, sarebbe bello nell'aldilà trasformarci tutti in suoni"




Morricone: "La musica mi ha salvato da fame e guerra.

Ma l'arte è puro talento,
la sofferenza non c'entra"


La colonna sonora di una vita. Il grande compositore si racconta.

 di ANTONIO GNOLI

La recente operazione di ernia del disco ha messo Ennio Morricone nel rassegnato malumore dei convalescenti. Mi guida con lentezza nella vasta casa romana: "Per il dolore passo alcune notti seduto in poltrona. Spero che il calvario finisca presto", dice. E sembra quasi un commiato più che l'inizio di una conversazione. Dalle finestre del grande salone si intravede un'ampia porzione del Vittoriano. Somiglia a una torta di matrimonio. In quel delirio di marmo, officiato dalla gloria dei militi scomparsi e ignoti, si rappresenta l'onirica vanità di certi simboli che ruotano attorno alla guerra e alla pace. Chiedo al maestro se ha mai fatto caso al fatto che certe celebrazioni somigliano un po' a delle grandi colonne sonore della nazione. Mi guarda sorpreso. Larga parte della vita di questo artista, penso, è stata una fervida committenza con registi e produttori cinematografici. Un trionfo di suoni. In fondo, azzardo, anche quel pezzo di "vita marmorea", che è lì fuori, emana suoni. E improvvisamente ricordo di aver letto tanti anni fa un bellissimo libro sulle "pietre che cantano" e che il suo autore, Marius Schneider, riportava il suono all'origine del mondo: dei e demoni lottarono gli uni contro gli altri per impossessarsi del potere della forza canora: "È una teoria suggestiva, mi fa pensare che una linea frastagliata corra lungo tutta la storia della musicalità. Fatta di scontri e di conquiste, di successi e fallimenti".

Cos'è il potere della musica?
"È la sua natura evocativa, ma cosa evochi resta chiuso nel sentimento di ciascuno. Ma al tempo stesso è un potere che crea un legame collettivo, una comunità dell'ascolto. O, più paradossalmente, del silenzio".

È importante il silenzio nella musica?
"È la sua parte più segreta e intima. Qualche settimana fa Riccardo Muti ha eseguito a Chicago una musica che scrissi nel ricordo della tragedia delle Twin Towers e che ho chiamato, non a caso, Voci dal silenzio. C'è un istante, dopo un grave trauma, in cui tutto si ferma. Tutto tace. È in quel momento che il suono manifesta la sua forza".

Viviamo in una società del rumore che ha sconfitto il silenzio. Cosa le suggerisce?
"Non condannerei il rumore. È una risorsa per la musica. I rumori non sono difetti, non sono errori. Non mi creano infelicità mentale. Non faccio che ascoltare rumori. Sono una fonte di ispirazione, perfino sgradevoli ma di brutale bellezza, densi di esperienza e di vita. Mi accorgo di concentrarmi, a volte, su qualche rumore particolare  -  il ronzio di un aereo per esempio  -  e di trasformarlo, nella tonalità in cui riesco a pensarlo, in una specie di canto interiore".

Un'educazione che nasce nella strada?
"Diciamo pure nel mondo. Anche se non è trascurabile l'apporto dei maestri".

A chi pensa?
"A mio padre che suonava la tromba. Fu lui a insegnarmi la chiave di violino e a trasmettermi la passione per quello strumento. Mi iscrissi al conservatorio di Santa Cecilia, a Roma. Feci un corso di armonia complementare e poi andai a studiare composizione. Seguivo le lezioni di Antonio Ferdinandi e in seguito quelle di Goffredo Petrassi".

Che anno era?
"Mi pare fosse il 1940 o '41. C'era la guerra. Roma invasa dai tedeschi. Avvertivo un senso di disperazione e di frenesia. Era la fame a scatenare i sentimenti più tristi. Con le tessere in dotazione non riuscivamo a soddisfare l'acquisto del pane e della pasta. Ma la cosa peggiore fu un'altra".

Quale?
"In quel periodo non sapevamo niente degli ebrei che venivano fermati, arrestati, deportati. E questo accadeva anche a pochi passi da casa. Ancora oggi avverto un lancinante dolore per quelle storie ignorate, per quei drammi invisibili dei quali siamo stati ampiamente inconsapevoli".

Sapere è importante?
"Lo è per decidere. Se dici: ignoravo ciò che è accaduto, poi ti devi chiedere: vale come giustificazione?".

E che risposta si è dato?
"Oggi penso che anche il non sapere sia una forma di responsabilità".

Dove abitava?
"Sul Viale Trastevere che allora si chiamava Viale del Re. Alcune finestre affacciavano sulla strada. Un pomeriggio assistetti dal davanzale al passaggio rapido dei carri armati. A un certo punto, dalla colonna uno di essi cominciò a sbandare. Vidi il carrista, che aveva perso il controllo del mezzo, fare dei gesti disperati. Si erano rotti i freni. All'altezza dell'ospedale San Gallicano il veicolo travolse una fontana e schiacciò un uomo. Fu il mio primo impatto con la morte".

E cosa provò?
"Stupore e paura. Quell'uomo un momento prima era vivo, mobile, indaffarato. Mi pare si stesse lavando le mani. Un attimo dopo non c'era più. Sembrava un fantoccio, un corpo inerte. E in lontananza sentivo le urla della gente. Quello scialbo pomeriggio si colorò di disperazione. Qualche tempo dopo, la morte si portò via mio fratello Aldo. Aveva tre anni".

Come accadde?
"Fu una morte assurda, tanto quanto l'altra. Ma questa volta provocata dall'insipienza di un medico. Aldo aveva mangiato delle ciliegie cadute da alcuni vasi. La sera prese a vomitare. Pensammo a un'influenza. Era estate. E il nostro dottore di famiglia era in vacanza. Chiamammo il sostituto. Che sbagliò completamente la diagnosi. Me lo ricordo Aldo, smagrito e sofferente. Con la mamma disperata che lo abbracciava. Morì per un enterocolite acuta, scambiata per un banale mal di pancia".

Come reagirono i suoi?
"Può immaginarlo. Fu terribile. Leggere la tristezza sui loro volti mi provocava un senso di sconforto infinito. Mio padre finì con l'accentuare il suo lato più severo. In contrasto netto con l'atteggiamento della mamma, la cui bontà assoluta era spesso fuori luogo. C'era un'esagerazione in entrambi i sensi che mi disorientava. Cercai sempre più rifugio nella musica".

Come fu il rapporto con Petrassi?
"Una fortuna averlo incontrato. Era un maestro fantastico. Incuteva una certa soggezione. Tanto è vero che quando, per guadagnare, iniziai a fare i primi arrangiamenti musicali alla radio, mi guardai bene dal dirglielo ".

Cosa glielo impediva?
"Temevo che vedesse in quella scelta una specie di corruzione. Ma quando, infine, lo seppe, reagì senza fastidio. Mi disse semplicemente: sono convinto che lei riguadagnerà il tempo che sta perdendo".

E quell'impegno era una perdita di tempo?
"Era la vita. Con i suoi compromessi e le sue necessità. Sapevo di non voler pesare sui magri bilanci familiari. In quegli anni collaboravo, spes-so in modo determinante, alle stesure musicali. Senza firmare. Senza apparire. È stata la mia gavetta. Poi un giorno mi chiamò Luciano Salce e realizzai le musiche del mio primo film".

Quale?
Il film era Il federale. Il regista mi fece vedere il filmato e lo musicai. Quell'esperienza andò bene e per qualche anno collaborammo assieme. Poi vennero gli altri registi".

Tra i quali, immagino, Sergio Leone ha un posto di primo piano.
"È stato certamente importante. Ma di solito si dimenticano gli altri: Pontecorvo, Bertolucci, Petri, Montaldo, Bolognini, Tornatore per non parlare dei registi stranieri: da Brian De Palma a Terrence Malick. Mi scoccia un po' che si dica che tutto comincia e finisce con Sergio Leone".

Le musiche che ha dedicato ai film di Leone sono tutte di grande successo e straordinarie.
"Aveva l'ironia giusta. Eravamo stati perfino compagni di classe alle elementari. E fu il caso a farci rincontrare. Effettivamente Sergio comprese una cosa che gli altri non avevano ben chiaro: la musica è la sola arte che applicata al cinema ne esalta i dettagli".

Perché?
"Hanno in comune la durata. Leone intuì perfettamente che il tempo della musica doveva essere quello del cinema. Non credo che la musica che ho scritto per lui fosse migliore di quella fatta per gli altri registi. Ma con il suo cinema si stabilì questa intesa di fondo. A volte caricaturale, alsmagritotre ancora drammatica".

È un aspetto che ho trovato nella musica per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
"Il tema musicale del film di Elio Petri non era così immediatamente orecchiabile".

Era l'esasperazione caricaturale di una società fondata sull'ordine grottesco.
"Ricordo la presenza dominante del mandolino. Che faceva da contrappunto comico, in un certo senso spernacchiante, alla situazione tragica di un delitto. Con Indagine volevo provare a realizzare qualcosa di musicalmente diverso da quello che si faceva in quel periodo. In fondo, mi piaceva tener fede al consiglio di Petrassi: non ti buttare via, fai cose che risultino preziose alle orecchie del pubblico".

Ha lavorato anche con Pasolini?
"Abbiamo collaborato a lungo. La prima volta con Uccellacci e uccellini. Mi chiamò. Diedi la mia disponibilità. Lui mi fece avere una lista di musiche che dovevano essere adoperate o imitate. Gli risposi che ero un compositore e che non eseguivo a comando. Pasolini molto tranquillamente mi disse: beh, allora faccia quello che vuole. Poi con Teorema mi fece un po' penare. Disse: "Maestro, mi realizzi una musica dissonante e metta, come ho fatto in Accattone, una citazione dal Requiem di Mozart" ".

Cosa fece?
"In Accattone aveva inserito la musica di Bach. Pensai che fosse una questione scaramantica. Perciò accettai".

Dopo tutto erano grandissimi compositori.
"Non è questo il punto. Del resto a parte Pasolini, che volle anche in dire la sua sulle musiche, ho sempre rifiutato imposizioni. Un regista, non faccio il nome, mi chiamò e mi disse: "Maestro, mi faccia un bel Ciajkovskij". "Io non le faccio un bel cazzo di niente", replicai, attaccando il telefono".

Le sarebbe piaciuto collaborare con Fellini?
"Bella domanda. Oltretutto sapendo che per tutta la vita ebbe il sodalizio con Nino Rota. Ma non credo che sarei riuscito a lavorare con lui".

Perché?
"Sono convinto che Rota sia stato un bravissimo compositore. Ma la cultura musicale di Fellini, troppo influenzata dal circo, lo limitò, facendo prevalere il cromatismo. D'altra parte, Rota scrisse abitualmente musica assoluta che fu e continua a essere molto eseguita. E qui niente da dire ".

Anche lei ha diviso il suo impegno tra musica assoluta e quella dedicata al cinema.
"Da compositore ho vissuto intensamente entrambe le ambizioni".

Non le viene il dubbio, magari pensando a Petrassi, che una sola doveva essere la strada per un uomo di talento?
"Perché mai? Sono convinto che la musica del cinema sia a pieno titolo musica contemporanea. Non farei classifiche. Come non potrei dire che Visconti è meglio di Fellini o viceversa".

A proposito di Fellini viene in mente La dolce vita. Lei ha sempre vissuto a Roma. In che misura quella stagione l'ha coinvolta?
"La mitologia cresciuta attorno ai caffè di piazza del Popolo, o dell'allora più famosa via Veneto, mi ha sempre lasciato indifferente. Sarei stato un corpo estraneo. Ho sempre fatto una vita regolare e non ho mai frequentato i salotti. Forse per carattere o perché vengo da una famiglia tranquilla e modesta".

Non sembra che il successo l'abbia cambiata.
"Non credo di essere un narcisista e ritengo che il successo sia un evento provvisorio. Ed è duro, molto duro, confermarlo nel tempo. Ogni volta che penso di aver fatto il massimo, so che si può ancora fare meglio".

Un perfezionista?
"No, credo che la musica sia una vigile e costante applicazione del talento. È un mestiere totale. Almeno per me".

E che rapporto ha con la vita?
"In generale direi che ne fa parte. In particolare non ha niente a che vedere con la propria vita privata. Con le gioie e con i dolori personali. Mi viene da ridere al pensiero che un compositore traduca in musica la propria sofferenza".

È il punto di vista romantico.
"Detestabile e velleitario e anche retorico. Non esiste la musica ispirata dal sogno".

Lei sogna?
"Raramente e poi non li ricordo. Ne ho al più una vaga reminiscenza. Posso solo dire: credo di aver sognato".

Credere?
"Sì, credere. Si crede per abitudine, per convenienza, per assurdo. Per vaghezza".

Crede in Dio?
"Certo, con qualche perplessità sul dopo".

L'aldilà non la convince?
"Mi pare ci sia molta confusione. Resurrezione della carne? Boh. Saremo anime sublimate nella beatitudine? Chissà".

Forse saremo musica.
"Mi piacerebbe che ci trasformassimo tutti in dei suoni. Non era ciò che sosteneva l'autore da lei citato all'inizio?".

Marius Schneider?
"Lui. In fondo, se in origine eravamo dei suoni, mi pare bello pensare che torneremo ad esserlo".



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Ritratto di  Luciana Castellina


giovedì 27 marzo 2014

Ezio Raimondi

Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima».

19/03/2014
oggi su LA REPUBBLICA
Ezio Raimondi
amava Céline e Caravaggio
Riccardo Mannelli


È morto Ezio Raimondi, aveva quasi 90 anni.
la notizia
Sopra il ritratto fattogli dall'artista Riccardo Mannelli e sotto un articolo dove il professore filosofo parla del suo ultimo libro e del suo amore per i libri nel febbraio 2012.

«Ho incontrato Petrarca in cucina»

Intrecci di storie, amicizie, passioni: Ezio Raimondi
racconta le voci dei suoi libri

BOLOGNA - Le voci dei libri sono le tante voci contenute nei libri, ma sono anche quelle che arrivano a determinarne la scelta e la lettura, e sono quelle che dai libri, una volta letti e consumati, si dipartono per proseguire lungo percorsi imprevisti. I libri sono intrecci di voci, confluenze, crocevia. Le voci dei libri è il titolo del nuovo libro di Ezio Raimondi (a cura di Paolo Ferratini, Il Mulino), che a sua volta è un intreccio di voci e di incontri. Si sarà notata l'abbondanza di «libri» nelle righe che aprono questo articolo. Non è casuale. Perché il nuovo libro di Raimondi, che con i suoi quasi 88 anni è il decano degli italianisti, è in realtà un metalibro, racconta le letture-chiave di una lunga vita, quelle che prima ancora di rappresentare una svolta culturale sono state un momento importante sul piano esistenziale: voci che provenivano da lontano lasciando nell'intimo una lunghissima eco. Nel momento in cui si prefigura il suo tramonto, questo è un canto di riconoscenza dal tono quasi testamentario all'oggetto libro quale segno tangibile e imprescindibile di profonda umanità. Non c'è pagina che si esaurisca in sé. Ogni pagina letta si riallaccia a una presenza, a un incontro, a un'amicizia. Del resto, si sa, per Raimondi la letteratura, non solo quella poetica e narrativa ma anche quella critica, è il luogo del dialogo per eccellenza: non c'è niente di più democratico. Ogni libro è un incontro dentro e fuori le pagine.
Ezio Raimondi - «Le voci dei libri» - Il Mulino, pp. 113, € 13Ezio Raimondi - «Le voci dei libri» - Il Mulino, pp. 113, € 13
Seduto al tavolo della sala nel suo appartamento di via Santa Barbara, sulla collina innevata di Bologna, Raimondi non nasconde l'emozione di fronte a questa sua esile creatura; emozione che contrasta un po' con la magrezza severa del portamento ma soprattutto con il rigore razionale del suo immenso lascito critico. Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima». Ma l'incontro con i suoi autori che viene fuori dal racconto di Raimondi è soprattutto una continua occasione umana: «Il mio rapporto con i libri è fatto anche di assenza, di desideri, di momenti sofferti e di dubbi, un rapporto che mi avvicina a una totalità imperfetta, un atto di amicizia. Anche nella letteratura quel che conta è la nozione di amicizia, perché la letteratura tutela l'integrità dell'uomo, come di un amico che accettiamo così com'è».
Il libro prende avvio da un'infanzia povera, da un padre ciabattino che preferirebbe un figlio artigiano e da una madre donna di servizio che insiste perché Ezio continui a studiare. «In realtà - dice Raimondi - io avevo due padri e quello che parlava di più era l'altro, il mio era laconico. Il caso volle che bambino in fasce venni accolto da una coppia di vicini senza figli. Mia madre andava a lavorare e mio padre pure, così io rimanevo con loro tutto il giorno e nacque un affetto di paternità e di maternità. Il Baratta, un operaio specializzato che leggeva il «Corriere» e «La Stampa», divenne per me una specie di padre elettivo che era stato corista a Milano e mi portava a teatro. Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, un abito a puntino azzurro, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni: aveva un volto affilato ed era privo della tipica espansività verbale bolognese. L'espansività era un dono del Baratta, che coniugava dialetto e italiano in una miscela molto inventiva».
A proposito di miscela linguistica, c'è un incrocio fatale nella vita di Raimondi: l'amicizia con Giuseppe Guglielmi, lo scrittore, il poeta, il miglior traduttore di Céline. La parte centrale del libro è occupata dall'immagine dell'amico Giuseppe che ogni domenica mattina sale verso via Santa Barbara per leggere con Ezio le traduzioni in corso. Non facili: Céline, Queneau, Baudelaire... Il sodalizio, che durerà per una vita dando frutti straordinari, è anche per Raimondi un'immersione nell'intimità della lingua: «Prima di tradurre Céline schedammo tutto Gadda per capire se poteva servirci il suo lessico, ma scoprimmo che non ne veniva nulla. La pagina di Céline era musicale, fango che si accende di improvvise accensioni celesti: da bambino mi era stato vietato di parlare in dialetto, ma traducendo Céline ripescavo dalla memoria le mescolanze di Baratta e le passavo a Guglielmi».
Bisogna tornare all'infanzia per cogliere le difficoltà di un ragazzo la cui casa è ridotta in macerie dai bombardamenti e che presto perde il padre, morto per malattia nel '45: rimane da solo con sua madre nel locale di una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme. Il giovane Ezio scrive la tesi in cucina, uno studio su Codro e l'umanesimo bolognese, nelle narici l'odore del soffritto. «Mia madre era una persona spericolata, che aveva combattuto nella Resistenza e incitava mio padre a metter su bottega. Quando finii le elementari, mio padre disse che non c'erano soldi per farmi studiare e fu mia madre ad assumersi l'onere della spesa, qualche volta aiutata dallo stesso Baratta».
Ezio Raimondi alla scrivania del suo studio, a Bologna, circondato da volumi (foto di Monica Silva)Ezio Raimondi alla scrivania del suo studio, a Bologna, circondato da volumi (foto di Monica Silva)
Prima di passare dalla cucina alla biblioteca, entra in casa un volume della storia della letteratura del Flora: un regalo che la mamma, suggestionata dal battage pubblicitario mondadoriano, volle consegnare al figlio come un messale. «C'era una commistione tra libro dotto e contesto domestico, artigianale: nell'esperienza del libro c'era il vissuto diretto, l'odore della cucina. Io parlavo a mia madre delle mie ricerche, e Petrarca e Codro diventavano personaggi del nostro mondo: mia madre era quasi in grado di chiedermene lo stato di salute». Eccole là, le voci dei libri. Si potrebbe anche dire i volti dei libri. Per esempio, il sorriso malinconico di una ragazza, Sonia, che un giorno gli dice: «Tu conosci il tedesco...», e gli passa un libro intitolato Sein und Zeit . La scoperta di Heidegger, nella miseria dei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, è una rivelazione per il giovane Ezio, che lo legge a suo modo, in una chiave esistenziale, depurata del côté eroico e nietzschiano, «quasi con inconsapevole baldanza», scrive giustamente Ferratini nella postfazione al volume. Tra caso e destino arrivano altri incontri e con essi altre letture: le prime lezioni con Roberto Longhi sono una folgorazione capace di cambiare una vita e Raimondi ricorda che rinunciò a laurearsi in storia dell'arte per ragioni economiche, ma anche per timore: «Paura pazza dell'ironia di Longhi, attorno a lui c'era un mondo borghese che non mi apparteneva e rispetto al quale non mi sentivo ostile ma diverso: io ero portato alla parola discreta e non gridata. Il grido lo riservavo al gioco del calcio in cui ero soprannominato Qui-Qui, perché chiedevo sempre la palla. Io avevo due facce: quella del primo della classe in una classe di fannulloni e quella del ragazzino che giocava e cascava come tutti». Altri incontri, altre amicizie, altri libri, altri casi, altri destini: la scoperta del Medioevo europeo attraverso il dono del grande libro di Ernst Robert Curtius proveniente da un altro amico inseparabile, Franco Serra, lo studioso di filosofia tedesca che nel '48 tornando dalla Germania portò con sé quel volume: «Ecco - disse all'amico -, è tuo». Quel libro fu una «premessa ai movimenti del cuore», commenta Raimondi. E poi l'«epifania» del saggio di Lucien Febvre su Rabelais e i problemi della miscredenza, pescato tra i tanti volumi arrivati sulla scrivania dello stesso Serra e divorato febbrilmente. «Questa è la vera storiografia», avrebbe detto Ezio opponendo quella concretezza di spazi e di oggetti e quella dimensione materiale all'idealismo stagnante della cultura italiana. Le passeggiate in bicicletta verso l'Appennino e le conversazioni sotto gli alberi approfondivano l'amicizia con Franco, nipote di Renato Serra, cui Raimondi avrebbe poi dedicato studi fondamentali.
Meno caso e più destino, forse, è un altro dono: quello che nel novembre del '68 a Baltimora Raimondi ricevette dai suoi allievi che lo salutavano prima del rientro in Italia: «Era un involto con il fiocco tricolore, conteneva il Rabelais di Michail Bachtin, credo la prima edizione occidentale, un libro che desideravo o, per meglio dire, aspettavo e che mi avrebbe aperto gli orizzonti sulla polifonia dei mondi ideali: le prospettive del mondo si moltiplicavano, le voci composite coesistevano, la lingua diventava pluralità, vitalità e dialogo». E poi Broch e Nabokov, Fuoco pallido, un romanzo travestito da filologia, una prima edizione Mondadori trovata forse alla Biblioteca circolante Brugnoli: «Lì si potevano reperire Proust, Faulkner, Virginia Woolf, Mann. Copertine povere e i commenti dei precedenti lettori, magari a contrappunto: ricordo che Conversazione in Sicilia era costellato ai margini da una serie di "porco". Anche alla Biblioteca circolante ho incontrato tanti libri non sapendo che sarebbero stati grandi eventi della mia vita».
20 febbraio 2012 (modifica il 21 febbraio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

Maestro
• Ezio Raimondi (1924 -2014), filologo e saggista, è professore emerito di Letteratura italiana a Bologna
• Il suo lavoro critico spazia dalla letteratura alla storia dell’arte, dalle origini all’Umanesimo, dal Barocco al ’900. Tra i saggi più importanti, quelli su Dante, su Tasso, su Manzoni, su Gadda e su Montale
• È stato tra i fondatori della rivista «Il Mulino». I suoi libri più recenti trattano la letteratura scientifica, la retorica, l’etica della lettura

lunedì 17 marzo 2014

Ritratto di Giacomo Rizzolatti

Il 23 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Giacomo Rizzolatti 


Gli psicologi non hanno accolto molto bene la vostra scoperta.
"Lo capisco, va a toccare tutto il piano dell'emotività che loro spiegano in maniera diversa. I neurologi invece l'hanno presa benissimo, ritenendola fondata su basi solide. E così gli artisti e perfino i filosofi".




Giacomo Rizzolatti: "Da bambino sono scampato alle purghe staliniane, con i miei studi ho capito come funziona il cervello"

Lo scienziato racconta la sua vita e come ha scoperto i neuroni specchio: vivevamo a Kiev negli anni Trenta e dovemmo scappare
di ANTONIO GNOLI

Ripensando alla turbinosa ascesa della repressione staliniana non era facile immaginare di ritrovarvi i lembi di una piccola grande storia italiana. Ma quando la polizia segreta e la fame incombente bussarono alla porta della famiglia Rizzolatti si capì immediatamente che un'epoca era finita e che il futuro appariva incerto e spaurito come i volti degli abitanti di Kiev. Giacomo Rizzolatti, che grazie alla sua scoperta dei "neuroni specchio" ha sfiorato il Nobel, conserva la memoria di quegli anni per quel tanto che il padre gli raccontò. Lo scienziato vive e insegna a Parma. È un signore curioso e affabile. E se posso aggiungere una nota di colore egli veste con la discreta trasandatezza che un uomo di talento ha quando il disinteresse per sé è pari all'interesse per la propria ricerca. "Giunti a una certa età siamo ciò che abbiamo imparato ad essere: radici, educazione, cromosomi. Contesti naturali e sociali. Anche il vestire non fa eccezione".

In fondo l'abito e l'abitare hanno la stessa radice.
"Abitiamo i nostri vestiti come le nostre case".

Lei vive qui?
"Sì, a Parma in una zona centrale".

Dove è nato?
"In Ucraina, allora Unione Sovietica. Il mio papà fece l'università a Kiev, città allora molto diversa da quella martoriata di oggi. Parlo degli anni Trenta. Si iscrisse a Medicina che non ero ancora nato. La situazione si stava facendo terribile. Si percepiva un senso di furore rivoluzionario e di paura ancestrale".

Paura per cosa?
"Perdere tutto, anche la vita. Cominciava a dilagare il sistema della delazione e della denuncia. Stalin aveva deciso di collettivizzare l'economia. E i contadini, quelli con la terra, furono i primi a opporsi. Ammazzarono le proprie bestie, incendiarono le proprie case, rinunciarono a lavorare la terra pur di non cedere all'espropriazione forzata. In quelle circostanze gli studenti erano spediti a lavorare nei campi. Mio padre, soprattutto in estate, raccoglieva nei primi kolchoz le patate".

Fu una forma di collaborazione?
"Direi piuttosto un obbligo. Mi raccontò che durante una lezione all'università, una ragazza lo denunciò: lui, disse la studentessa indicando mio padre, è il figlio del costruttore Rizzolatti, un nemico del popolo. Il professore reagì con calma: è vero, replicò. Ma lo studente Rizzolatti è stato rieducato come infermiere nelle miniere del Don".

Con che spirito suo padre le raccontò tutto questo?
"Era consapevole che la situazione stava sfuggendo di mano. Ma non ne ebbe mai un ricordo cupo. Quando una volta gli chiesi perché, sapendo cosa era accaduto in Unione Sovietica, aveva deciso di partecipare alla guerra partigiana in Italia, mi rispose: perché lì come qui pensavamo comunque a un mondo migliore".

Come arrivò la sua famiglia a Kiev?
"Alla fine dell'800 il mio bisnonno emigrò verso l'impero russo. Era friulano, senza lavoro perché ce ne era poco. Arrivò a Kiev con alle spalle una scuola di mosaico. Fu assunto come operaio specializzato. Col tempo si mise in proprio nella lavorazione del marmo, che importava da Carrara. Divenne un uomo discretamente ricco. E tutto andò bene fino alla rivoluzione del 1917".

Cosa accadde?
"Ci tolsero la fabbrica. Ma non la casa, quella che il nonno aveva fatto costruire. La confiscarono solo parzialmente consentendo alla nostra famiglia di viverci. Dopotutto eravamo stranieri e quindi ancora agevolati".

Quando la situazione precipitò?
"Durante la Guerra di Spagna. Stalin decise che in pochissimo tempo gli stranieri dovevano essere rispediti ai loro paesi. Nel 1937 arrivò lo "sfratto". Toccò prima a mio zio, poi a mio padre e mia madre, infine ai nonni che erano ancora vivi. In tre mesi dovemmo lasciare Kiev. Ero appena nato. L'ambasciata ci aiutò a portare via qualche gioiello, sembravamo usciti da un romanzo di Bulgakov, che tra l'altro era nato a Kiev e aveva fatto il medico".

Non è che l'Italia fosse proprio il sogno.
"Anzi. Per una legge del fascismo i miei dovettero risiedere nel luogo da cui i nonni erano partiti: Clauzetto, un paesino non lontano da Pordenone. Ora, lei immagini passare da un posto come Kiev che faceva un milione di abitanti, con una vita sociale internazionale, a un luogo che contava sì e no 500 anime. La mamma che era una donna spiritosa, disse: ma non avete l'impressione di stare nel Caucaso?".

E qui inizia la sua storia.
"Devo dire che la nostra storia familiare strideva con il provincialismo italiano di quegli anni. Avevo buone letture alle spalle: romanzi francesi e russi, come si addiceva a un'educazione un po' mitteleuropea".

Conosceva il russo?
"Da ragazzo lo leggevo. Oggi avrei difficoltà con il cirillico. Ma allora, parlo degli anni Cinquanta, mi fu utile al liceo classico che frequentai a Udine. Poi l'università a Padova e la decisione di occuparmi di neurologia".

Perché neurologia?
"La scelta si legava alla professione dei miei. Entrambi medici. E poi ero affascinato da quella scatola e soprattutto dal suo contenuto: il cervello. Gli insegnanti mi sembravano tutti bravi. Fu un assistente di fisiologia a mettermi in guardia: ma cosa fai? Qui sono quasi tutti dei "mona". Se vuoi occuparti di "cervello" vai a Pisa dal professor Giuseppe Moruzzi".

Cosa aveva di speciale?
"Fu un genio della ricerca. Insegnò a Bruxelles, Cambridge e a Chicago invitato dal grande Horace Magoun e infine a Pisa. Capitava, a volte, che Rita Levi Montalcini lo interpellasse su alcune ricerche scientifiche. A lui si deve l'importante scoperta della formazione reticolare che lo rese particolarmente famoso in Unione Sovietica".

Perché lì?
"Le sue ricerche si incrociavano con quelle di Pavlov. In particolare sul concetto di "reazione di orientamento"".

Spieghi.
"Prima di Moruzzi si pensava che il cervello si attivasse grazie alle sue tante vie, acustica, visiva, motoria, e che queste modalità andassero analizzate separatamente. Pavlov si accorse che battendo le mani si produce un certo suono di fronte al quale una persona si gira. La domanda che si fece Moruzzi fu: perché quella persona oltre all'udito coinvolge la parte motoria?".

E quale fu la risposta?
"Moruzzi formulò l'ipotesi che le modalità sensoriali fossero integrate, o tenute assieme, da una sostanza reticolare che poi inviava l'impulso al cervello".

Con Moruzzi quanto tempo ha lavorato?
"Per tre anni. È stato un uomo fondamentale con una visione umanistica straordinaria. Ricordo ancora che una delle prime cose che mi chiese fu se conoscevo la Recherche di Proust. Balbettai che sì qualcosa avevo letto. Mi guardò e rispose: naturalmente in francese, se no è come non averla letta".

È stato importante Moruzzi per le sue successive scoperte?
"Lo è stato come atteggiamento critico, come manifestazione di creatività e indipendenza di giudizio. Di solito si pensa che solo gli artisti siano creativi e che gli scienziati facciano il lavoro rigido. Non è così".

In effetti molti artisti si sono entusiasmati per la sua scoperta dei "neuroni specchio".
"È vero. Jan Fabre, che ho incontrato diverse volte, ci ha visto dentro un mondo che era anche il suo".

Parliamo di questo mondo.
"Inizialmente mi occupavo del sistema visivo. Per caso mi accorsi che c'era un'area del cervello che confinava con il sistema motorio e lì si trovavano delle risposte visive che apparentemente non dovevano esserci".

Mi faccia capire: un cervello ha miliardi di neuroni. Lei e il suo team ne intercettate alcuni un po' particolari. Ma non è come trovare il biglietto vincente di una lotteria?
"Sembra ma non è così. Anche perché non si parte da zero ma con delle ipotesi. Il punto è che quando ti imbatti in ciò che sembra un'anomalia, prima di escluderla, devi provare a razionalizzarla".

E come avete fatto?
"Seguendo anche un approccio etologico. Cominciammo i primi esperimenti utilizzando dei gatti".

Dei gatti?
"Sì. Quando lo comunicai a un professore americano rispose: ma io non leggo letteratura sui gatti. Come non legge? dissi io. Voglio dire, precisò, che la sola rilevanza cognitiva la si ha con le scimmie o con l'uomo".

So che sceglieste un macaco.
"Sì e l'idea fu di non condizionare la scimmia ma lasciarla libera. Quindi non trattarla come un essere che produce movimento, ma alla stregua di un'entità viva, le cui azioni sono esercitate in vista di uno scopo".

Quindi un essere intelligente.
"E in qualche modo socievole. I test che conducemmo ci fecero scoprire una cosa apparentemente strana: registrammo che un neurone motorio rispondeva agli stimoli visivi".

Perché strana?
"Perché di solito si pensava che l'atto motorio fosse un semplice atto esecutivo. In realtà la questione apparve più sofisticata. Ci accorgemmo che la scimmia non compiva solo dei movimenti ma delle vere e proprie azioni. E questo era possibile perché, in qualche modo, era saltata la rigida e artificiale separazione tra area percettiva, cognitiva e motoria".

Per dirla con una battuta: il movimento non è cieco.
"Più esattamente: il cervello che agisce è anche il cervello che comprende".

E questa comprensione avviene prima che la società dia le regole e si formi il linguaggio?
"Diciamo che è una precomprensione che viene prima della costruzione dei concetti, ma è altrettanto importante per le capacità cognitive".

Questa fase primaria è quella che chiamate dei "neuroni specchio"?
"Ci sono dei fenomeni alla nascita che abbiamo appunto chiamato "neuroni specchio"".

"Specchio" perché?
"Il meccanismo ci permette di sapere cosa fanno gli altri senza dover ricorrere alla fase linguistica, ma basandosi unicamente sulle proprie competenze motorie".

Insomma: io so che cosa sta facendo una persona perché so farlo anche io, sento le stesse cose che sente lui?
"In un certo senso è così. I neuroni specchio creano un campo comune di esperienza che coinvolge tanto l'aspetto individuale quanto quello sociale".

Un Io e un Noi con una base comune?
"La nostra scoperta, alla quale ha contribuito un gruppo di ricercatori straordinari, rivela che c'è un meccanismo naturale che in qualche modo ci rende sociali, ci porta a considerare l'altro come noi stessi. È chiaro che questo meccanismo è poi influenzato dalla società. Questo per rispondere a eventuali obiezioni sul presunto eccesso di biologismo".

Gli psicologi non hanno accolto molto bene la vostra scoperta.
"Lo capisco, va a toccare tutto il piano dell'emotività che loro spiegano in maniera diversa. I neurologi invece l'hanno presa benissimo, ritenendola fondata su basi solide. E così gli artisti e perfino i filosofi".

Anche il pubblico si è appassionato. Come ha vissuto il successo?
"All'inizio con molto stupore. Sapevo che la scoperta era interessante, soprattutto per le ricadute. Ma non mi aspettavo una reazione così mediaticamente forte".

Le piace essere una star della scienza?
"Cerco di non montarmi la testa"

Come definirebbe la scienza?

"Nell'epoca moderna è il metodo sperimentale: trovare risultati che siano ripetibili. Insomma, il metodo galileiano".

Rimane buono nonostante la svolta quantistica?
"Mi sento ancora newtoniano. In fondo continuiamo a vivere nel mondo newtoniano".

Newton non disprezzava le incursioni nella magia e nella religione.
"Anche Galilei si dedicava all'astrologia. Ma sono aspetti folcloristici".

Per uno scienziato oggi sarebbe folcloristico occuparsi di religione?
"Non sarei io a impedirglielo. Mi dà fastidio chi è violentemente contro qualcosa. La varietà di pensiero nelle persone, oltre alla confusione, crea ricchezza. Però una cosa è la fede altra è la scienza".

Nel senso?
"Sono due mondi avulsi l'uno all'altro. Il metodo sperimentale mi dice che una cosa deve essere assolutamente ripetibile perché sia vera. I miracoli non sono ripetibili. Se ammettessi i miracoli non farei più scienza. Diamoci un po' di coerenza".

Alcuni grandi scienziati non hanno rinunciato a credere.
"È vero. Il grande scienziato John Eccles era un esigentissimo cattolico".

Cos'è la libertà per un uomo che si concede una contraddizione così vistosa?
"Non ho mai pensato alla fede come a un oggetto. E capisco che ad alcuni faccia piacere sapere che esiste un mondo dell'aldilà e che non tutto finisce qui".

È solo una consolazione?
"Certamente consola. Ed è chiaro che sul piano delle preferenze è meglio un mondo che preveda l'aldilà a un mondo che non è in grado di contemplarlo. La mia logica dice però che è poco verosimile. Tuttavia, mi danno fastidio coloro che si dichiarano atei e che impongono una loro immagine di assenza di Dio. In fondo è anche questa una prepotenza. Se uno scienziato vuole andare in chiesa ci vada pure. Le leggi della fisica non cadranno per questo".




...............................................................

Giacomo Rizzolatti
ha scoperto i "neuroni specchio"
che mettono in diretto contatto le capacità visive e di osservazione
con le capacità di apprendimento.
cioè neuroni che agiscono per empatia, "specchiando" le attività motorie degli altri direttamente su noi stessi.
quindi non si impara solo con le nostre capacità analitiche e razionali, ma anche a livello istintuale.
Gli artisti sono entusiasti della scoperta, gli psicologi molto meno.
personalmente sono fierissimo perchè sono anni che,da perfetto ignorante, sperimento certe mie tecniche di osservazione istintuale proponendole per l'approfondimento dello studio del disegno.
fierissimo anche di avergli fatto il ritratto per l'intervista di Repubblica.

Riccardo Mannelli

mercoledì 12 marzo 2014

Ritratto di Valentino Zeichen

  Il 16 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Valentino Zeichen, il poeta.


"La mia poesia è senza speranza. Non parlo di mondi onirici. Nella mia poesia entra la comicità, l'ironia, la precisione. Ci sento lo zampino della matrigna. E quindi la diffidenza verso il sentimento. O meglio: verso la menzogna del sentimento. Esiste una purezza della poesia alla quale sono fedele... l'esclusione del cuore. Non mento mai. Il meccanismo della scrittura può ingannare il lettore, ma non la sostanza che abita la poesia".



Valentino Zeichen: "Sono poeta grazie alla mia matrigna,
era una musa crudele e involontaria"

Arte, incontri e ricordi familiari di un irregolare della letteratura

di ANTONIO GNOLI
Nell'universo di Valentino Zeichen non c'è posto per la grazia. Il poeta non è una creatura speciale, ispirata, palpitante. È una persona che prevalentemente vive immersa nel conflitto. Il soldato Zeichen  -  così viene di presentarlo  -  imbraccia robusti Kalashnikov e vola su vecchi Spitfire: strumenti o meglio immagini mentali con cui combatte la sua lotta per la sopravvivenza. Mi riceve dritto sulla soglia della sua ormai mitica "baracca", ultimo avamposto di un mondo solo in apparenza pittoresco. In realtà duro e povero: una perla di squallore che brilla di opaca grandezza, nel cuore di Roma. Ho letto con ammirazione la raccolta completa delle sue poesie (in uscita domani da Mondadori). Non vi ho trovato disagio, disperazione, infelicità, invocazione. Ma la disciplina del naufrago che conta i giorni che lo separano dalla costa: "Non saprà mai quando avvisterà terra, ma è per quella, in funzione di quella che il naufrago si organizza", commenta Zeichen.
Cosa ama della disciplina?
"È una domanda che mi inquieta".

giovedì 27 febbraio 2014

Ritratto di Franco Maria Ricci

Il 9 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Franco Maria Ricci


...il più grande labirinto del mondo. Tacque. E dopo un po' riprese: il più grande labirinto del mondo è il deserto".



Franco Maria Ricci:
"Volevo fare il geologo, poi ho capito che dovevo dedicare
la mia vita alla bellezza"


L'editore racconta la sua storia e la passione per i libri di lusso: "Ho l'ossessione dell'effimero che però deve avere una forma"
di Antonio Gnoli
A mezz'ora di macchina da Parma c'è Fontanellato. Poco distante dal paese, la proprietà di Franco Maria Ricci. Ampia e fradicia di pioggia. Bambù ovunque. Un paio di cascine e una casa, padronale, costruita nel segno dell'ossimoro: fuori sembra una rovina, dentro un tempio del gusto. Due cani, una moglie simpatica ed energica che lo affianca da anni nel lavoro di grafica, un nipote, Edo, qualche collaboratore e lui: Ricci, che incede lento e incerto. Mi fissa con impassibile gentilezza. Nella casa di Fontanellato - tra busti, quadri e libri - è una guida tutt'altro che convenzionale. Collezioni neoclassiche. Una raccolta d'arte che confluirà nel progetto del labirinto: un enigmatico giardino di bambù, con al centro una serie di costruzioni variamente funzionali.

Per chi è fatto tutto questo? Chiedo. "Per me, innanzitutto. E per coloro che vorranno visitare questa "follia" che mi ha accompagnato, ossessionato, incalzato nel corso degli anni". Ricci somiglia a un banchiere della bellezza. La ospita, la conserva, la lascia fruttare. La inscatola in quelle edizioni lussuose a dominanza di nero e di oro che sono state le sue edizioni. Chi non le ricorda? Ancora oggi, dopo aver venduto il marchio, continua quel mestiere di editore, che lo ha reso celebre tra gli anni Settanta e Ottanta nel mondo.

Cosa ricorda di quel periodo?
"Ero più giovane e più bello, in un'Italia non ancora interamente depressa. Dove, anzi, gli stranieri scoprivano il fascino di certe idee, e la forza della nostra unicità. Oggi si torna a parlare delle potenzialità di questo paese, dimenticando che allora fummo in pochi a crederci e a rischiare".

Lei cosa ha rischiato?
"Cambiai mestiere, passando dal mondo certo della geologia a quello incerto della grafica".

In origine è stato geologo?
"In origine avrei voluto essere un archeologo. Fu mio zio a dirmi se ero matto. Immaginavo missioni avventurose e grandi civiltà scomparse. Lui mi richiamò alla realtà: guarda, se ti va bene, ti mettono a incollare i cocci".

Perciò che fa?
"Mi interesso di geologia. Era un buon compromesso. In fondo, bisognava sempre scavare. Avevo tra l'altro un cugino a capo di una società petrolifera. A un certo punto gli chiesi se poteva suggerirmi qualche prospettiva. Mi spedì in Mesopotamia dove avevano una concessione. Vado nella zona di Diyarbakir, frutto della civiltà ittita e ultimo avamposto dei romani. Ricordo il fiume Tigri. Impressionante. Resistetti sei mesi. Per il caldo dormivo all'aperto, su un lettino da campo. La mattina mi svegliavano le facce dei curdi protese su di me. La bellezza del posto urtava con la fatica dei giorni".

Non resistette?
"Perché non fosse proprio una fuga, presi a pretesto qualche episodio di vaiolo che nel frattempo c'era stato. Tornai in Italia, a Parma. Magro, tonico, senza un mestiere. La sola cosa nella quale mi sembrava di eccellere era distinguere il bello dal brutto. Cominciai timidamente con qualche prova grafica. Un bel giorno mi chiesero di disegnare un manifesto per un festival teatrale. Fu notato dal direttore di uno studio americano. Cominciò così la mia fortuna. Mi trasferii a Milano. Erano i primi anni Sessanta. Stavo nel cuore della grafica europea e guadagnavo un sacco di soldi. Poi scoprii Giambattista Bodoni ".

Lo stampatore?
"Definirlo così è riduttivo. Fu un genio del carattere. Mi invaghii del Manuale tipografico. Cominciai a tormentare gli antiquari per avere i suoi libri. Bellissimi. Unici. Con pazienza misi insieme una collezione ragguardevole di testi. Che fu alla base della mia casa editrice. Era il 1965".

Bodoni da un lato e Borges dall'altro. Le due B.
"Una la grafica, l'altra la letteratura. Mi fu immediatamente chiaro il progetto: fare libri smaglianti, esclusivi che andassero nella direzione opposta a quella di una cultura acquistata a buon mercato. Giu-lio Einaudi, con un sorrisetto di sufficienza, mi sconsigliò di continuare, pena la catastrofe. Non capiva, o faceva finta di non capire, che se il mondo è pieno di poveri ci sono anche tanti ricchi disposti a seguirti. Del resto, a quale categoria crede lui appartenesse?".

Non ho dubbi sul censo di Einaudi. Ma cosa significa oggi questo elogio del lusso?
"Le sembra intempestivo? Questo paese ha trovato nel lusso le sue ragioni industriali ed economiche. Abbiamo sbalordito il mondo con la moda e il design. E ogni volta sembrava che ci dovessimo scusare delle nostre scelte. Per anni ho venduto il mito della bellezza e del patrimonio artistico, di tutto ciò che è stato conservato male e goduto peggio".

Non le sembra una bellezza ornamentale e prevedibile quella che ha "venduto"?
"Ho messo in gioco il mio gusto, la mia educazione estetica, la mia fantasia e i miei soldi. Lei dice: "Prevedibile". Penso che la bellezza sia frutto dell'educazione oltreché della sensibilità".

Si lancerebbe in una definizione?
"Eviterei giudizi estetici. La bellezza deve produrre emozione".

Come un tramonto ad esempio?
"Perché no? Non arretro neanche davanti alla più banale delle versioni. Credo che davanti al brutto possiamo ridere o spaventarci e che solo il bello provochi sentimenti di fusione. Personalmente traggo un piacere enorme davanti alla bellezza neoclassica. E sa perché?".

Perché?
"È un modo di guardare al futuro ripensando il passato. L'arte di oggi ha sempre meno legami con l'antico. Usa il linguaggio della tecnologia. E del furore compiaciuto. Le sue leggi provocatorie e mediatiche mortificano e disorientano la mia intelligenza. Mentre, se penso a Borges, mi accorgo che non c'è un atomo nella sua scrittura che non sia pensato in funzione del passato. Non le sembra istruttivo, emblematico?".

Anche iperletterario. Quando ha conosciuto Borges?
"Nei primi anni Settanta. Andai a trovarlo a Buenos Aires grazie all'intercessione di un'amica comune. Arrivai alla Biblioteca nazionale dove era direttore. Vidi un uomo elegante venirmi incontro recitando alcuni versi di Dante. Per lui esisteva solo la letteratura".

Era già cieco?
"Credo percepisse solo ombre. Ricordo una visita che facemmo al Louvre. Voleva assolutamente esserci. Mi si strinse il cuore all'idea di un vecchio signore immerso nell'oscurità. Eppure era felice e a suo agio in mezzo ai tanti capolavori. A un tratto ci fermammo davanti al quadro di David Il giuramento degli Orazi. E, nella sorpresa generale, Borges cominciò a spiegare il senso del dipinto, le sue figure, i dettagli della scena. Aveva una memoria fotografica incredibile.

E che ruolo svolse nella casa editrice?
"Con lui ho fatto 45 libri per "La Biblioteca di Babele". Fu un'avventura memorabile. Sceglieva autori e stili in base ai suoi gusti, a ciò che aveva letto e amato. Credo che ogni cosa del passato fosse per lui la scala infinita su cui salire per guardare oltre. Mi sorpresi - due giorni prima che morisse, in un letto di una clinica di Ginevra - nel sentirmi dire che fama e ricchezza erano state un dono minore della cecità. Lo disse senza imbarazzo. Come la cosa più naturale del mondo. Della costellazione degli scrittori che ho conosciuto e amato è stata la stella più luminosa".

Altre stelle che hanno brillato?
"Roger Caillois, William Saroyan, Italo Calvino, Roland Barthes che scrisse per me un paio di testi. In particolare uno per l'edizione che avevo pubblicato dell'Enciclopedia di Diderot".

Come le venne in mente di dare alle stampe un'opera così imponente, sulla quale diversi editori avevano già fatto naufragio?
"Mi dicevano che i diciotto volumi sarebbero stati la mia tomba.
Furono invece un successo incredibile. Perfino Mitterrand mandò il suo autista nella nostra libreria di rue Beaux Arts ad acquistarne. Oggi sarebbe impossibile fare i libri che realizzai allora. Ne parlai a Parigi con Barthes, aveva da poco pubblicato un librettino di grande successo,
Gli chiesi se quel piacere lo ritrovava anche nell'Encyclopédie. Rispose che nella caccia al dettaglio c'era tutta l'intelligenza, l'erotismo e la felicità di Diderot".

Com'era privatamente?
"Gentile, poetico, sensibile. E in qualche modo incuriosito dai miei modi".

In che senso?
"Avevo una trentina di anni ed erano abbastanza note le inclinazioni sessuali di Barthes".

Intende che ci fu un approccio?
"No, ma non era insensibile alla mia presenza. Non ci fu niente perché niente volevo che accadesse.Anche se..."

Anche se?
"Un certo modo che ho di vestire poteva equivocare sui miei gusti sessuali".

Insomma che la scambiassero per gay?
"Ecco. E la sensazione divenne certezza quando per un certo periodo ho indossato un'ampia e vistosa pelliccia di marmotta. Era un freddo pomeriggio romano. Da una macchina, ricordo, qualcuno si sporse e gridò: "A frocio!". E pensare che quell'indumento aveva tutt'altra storia".

Quale?
"Ricorda quell'attore francese che interpretò una parte in Pierre Clémenti. Ci conoscemmo e frequentammo. Una sera, con altri amici, andammo a ballare al "Bang Bang", un locale milanese. A un certo punto Pierre si avvicinò e un po' imbarazzato mi chiese dei soldi. Gli tremava il labbro. Aveva una voce piena di guai. Erano mi pare cinquantamila lire. In cambio ti dò la mia pelliccia, disse. Insistette e facemmo questo scambio bizzarro. In seguito la pelliccia mi fu rubata. Peccato. La sostituii con un tabarro. Sa, quei mantelli a ruota che indossavano i contadini della Bassa? Un omaggio alle mie origini".

Dove è nato?
"A Parma. Mio padre discendeva da una nobile famiglia genovese. Studiò Legge senza mai giungere alla laurea. Non volle iscriversi al fascio e ciò gli impedì di lavorare. Non ho mai capito se accettò quel disimpiego come una condanna o una benedizione".

E di cosa vivevate?
"Di rendita, del ricavato delle terre della nonna. Durante la guerra il babbo fece costruire uno chalet negli Appennini. Fu lì che sfollammo. Avevo quattro anni. Fu un periodo toccato da una sola tragedia. Mio cugino, diventato partigiano, venne ucciso durante un'azione dai tedeschi. Poi la guerra finì e il babbo ogni tanto spariva per andare a Milano. Si pensò a un'amante, scoprimmo che gli era presa la mania di giocare in Borsa. Morì che avevo 14 anni".

Lo ha amato?
"Come si può amare un padre che aveva preso l'effimero troppo sul serio".

E quindi?
"Mi preoccupava che l'effimero diventasse una forma di irresponsabilità. Anch'io ho l'ossessione delle cose che non durano. E fu una delle ragioni per cui inventai la rivista perché la bellezza si espone alle offese del tempo".

La rivista più bella del mondo, si disse.
"Così la definì Jacqueline Kennedy. Fellini parlò della "perla nera". Come vede, l'effimero mi appartiene, ma deve avere una forma. Altrimenti è nulla".

Per questo indossa all'occhiello della giacca rose di plastica che non appassiscono?
"Di bachelite. L'idea venne dopo un regalo di Ottavio Missoni: un pullover. Gli dissi che non ne indossavo. Sulla scatola c'era un fiocco con una rosa rossa di resina. Prenderò questa come dono, aggiunsi".

Pensa di essere un dandy?
"Lo furono Marcel Proust e Oscar Wilde. Sarei ridicolo a volerli imitare. Del resto, non sono ossessionato dall'eleganza. Ho cinquanta giacche che non indosso mai. E due sole che metto sempre. Non sono un dandy. Semmai uno stravagante. Vado perfino in chiesa e mi confesso tutte le domeniche, retaggio di un'educazione dai gesuiti".

Ha molto da farsi perdonare?
"Non lo so, sinceramente. Mi suscita una certa vergogna pensare che uno come me possa acquistare un quadro da 200mila euro mentre c'è gente che muore di fame".

Si sente condannato al lusso forzato?
"Mi sento prigioniero di Fontanellato. Sto qui e mi aggiro come un Minotauro dentro il mio labirinto. Anche mentale. A volte ho la sensazione di essere un coglione gettato in un'epoca che non è più la sua".

Chissà cosa direbbe il suo grande mentore.
"Intende Borges?".

Proprio lui.
"Venne qui alcune volte. Si sedeva con il bastone tra le gambe e fissava il vuoto. Una sera parlammo di giardini. Citò il saggio Horace Walpole. Timidamente gli parlai del progetto di un giardino a forma di labirinto realizzato con piante di bambù. Mi chiese perché bambù. Risposi che era una pianta timida e mistica. Tacque. Poi chiese, che tipo di labirinto. Risposi: il più grande labirinto del mondo. Tacque. E dopo un po' riprese: il più grande labirinto del mondo è il deserto".




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Ritratto di  Luciana Castellina



Ritratto di Fuksas

domenica 16 febbraio 2014

Ritratto di Fuksas

Il 2 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Massimiliano Fuksas

"Una struttura non deve solo funzionare. Deve dare un'emozione."


Fuksas: "Dall'architettura
ho imparato che l'ordine
conta quanto il caos"
La famiglia, la politica, l'arte: ricordi nel tempo e nello spazio

 Di Antonio Gnoli
In questa piccola storia orale affiora, ogni tanto, l'idea che il successo sia solo un ingrediente di una personalità che ha cercato altre ragioni nella vita. Almeno è ciò che Massimiliano Fuksas lascia filtrare di sé. Con indubbia abilità. È come se tutto ciò che vedo, che mi fa vedere, sia il frutto prospettico di una lieve illusione. Non è questo che in fondo regalano gli architetti più dotati: una solida e fondata (o fondabile) illusione? E allora eccomi calato, non lontano da Campo dè Fiori, nei tre piani di morbidezza che sono poi quelli dello studio: bello, accogliente e abitato da una legione di giovani che si danno da fare intorno ai tanti progetti che Fuksas sta realizzando. Gli chiedo com'è il rapporto con questa generazione che ci ostiniamo a definire senza futuro. "Se ho cento persone qui, altre cento divise tra Parigi e la Cina, e quasi tutte sotto i trent'anni, è segno che qualcosa si muove. Al di là della crisi. Ma l'architettura è un mondo strano. Abitato da nani nelle viscere delle montagne e da elfi nelle foreste".

Un mondo fantastico?
"Diciamo dove la fantasia può ancora galoppare. E i giovani possono ritagliarsi la loro parte".

Di sogni ne sono rimasti pochi.
"Però è l'unica merce non ancora venduta in saldo. Penso alla mia storia come a una successione di eventi incompleti che i sogni hanno colmato di gioia e delusione. Piccolo inciso. A me non frega niente se un sogno si realizza o meno. Importante è averlo. È la risorsa inesauribile dei miei perché. Dalle mie origini in poi".

Da dove viene? Il nome non ha nulla di italiano.
"Nel periodo luterano, la mia famiglia, ebraica, emigrò dalla Germania in Lituania. Il mio bisnonno era un mercante di sale a Kaunas. Poi si trasferì a Vilnius. Fece abbastanza soldi per mandare i figli all'università. Ma era il periodo del dominio zarista e gli ebrei non potevano accedervi. Perciò spedì mio nonno ad Heidelberg. Dove conobbe Elisa e la sposò. Nacquero due figli: mio padre Raimondas e Anatole Pierre".

Che anni erano?
"Gli anni Dieci dello scorso secolo. Nel 1914 scoppiò il conflitto. Nel corso della prima settimana di guerra il nonno, medico, fu investito da una bomba. Una scheggia lo colpì in pieno e morì dissanguato. Nonna Elisa si rifugiò a Mosca con i due figli. Sposò in seconde nozze Harry Basin, direttore delle acciaierie moscovite. Anni tumultuosi. Poi, nel 1918, la Lituania proclamò l'indipendenza. Con il nuovo marito Elisa tornò a Vilnius. Non era la fotografia di una famiglia felice".

Perché?
"Perché Harry era un uomo autoritario e duro. Pretendeva che il figliastro studiasse ingegneria. Mio padre cominciò a detestarlo e alla fine decise di andarsene a Roma. Sulle orme del padre studiò medicina. Conobbe mia madre. Felicità presto interrotta dalle leggi razziali, dalla guerra e da tutte le aberrazioni legate al conflitto e al fascismo. Superammo anche quelle. Non bastò. Nel 1950 papà morì. Avevo sei anni".

Cosa faceste?
"La mamma accettò l'invito della nonna, che viveva non lontana da Vienna. La città divisa in zone di influenza. Eravamo nella parte inglese. Sebbene fossi nato a Roma avevo ancora il passaporto lituano e per questo non potevo accedere alle altri parti della città. Insomma, dopo un po' tornammo a Roma. Andammo a vivere dalle parti del Gianicolo, vicino a Villa Sciarra. Iniziai le scuole elementari al Francesco Crispi. Una delle prime cose che chiesi fu chi era Crispi. Immaginavo fosse il proprietario della scuola. La mamma mi disse vagamente che era stato uno statista italiano. Ma fu Giorgio Caproni a fornirmi qualche dettaglio in più".

Caproni il poeta?
"Proprio lui. Fu il mio maestro alle elementari. Un giorno ci spiegò che gli uomini sono strani. E che la coerenza non è quasimai il loro forte. Ci raccontò che Crispi era stato rivoluzionario da giovane. Che aveva perfino seguito Garibaldi nella spedizione dei Mille e che da vecchio, a capo del Governo, stroncò i primi scioperi operai. Insomma diventò "pompiere"".

E lei ha paura di fare la stessa fine?
"Almeno sul piano politico non ho mai cambiato opinione. Le ingiustizie non mi piacevano quando avevo vent'anni e non mi piacciono ora che ne ho settanta".

Com'era Caproni insegnante?
"Grande sensibilità e ironia sommessa. Mi prese a ben volere. Forse incuriosito dalle mie origini o dalla mia timidezza. Non lo so. A volte mi invitava a casa. Viveva in un tristissimo palazzo in via dei Quattro Venti. Ricordo l'edificio in mattoni, il portone incongruamente monumentale, le piccole finestre verdi, l'appartamento povero. Una vita grama segnata però da due grandi passioni".

Quali?
"Il violino che ogni tanto suonava e il treno. Possedeva i piccoli treni Rivarossi. Confesso che ero più interessato a questi giocattoli che non alle sue poesie o alle sue traduzioni. Un pomeriggio mi parlò della dolce bellezza della lingua francese. Era un uomo semplice. Seppi in seguito che aveva sofferto enormemente. Nella suo dolore rispecchiò il mio, di bambino solo. In un certo senso mi adottò".

Ha avuto un'infanzia complicata?
"No, semmai disciplinata da una madre forte. Avevo un carattere ombroso. Ero magro, fragile e soprattutto mi sentivo solo al mondo. Con il tempo ho imparato a convivere con questa solitudine".

Non dà l'impressione di un uomo solo.
"La mia socialità è forzata. Per il mestiere che faccio devo incontrare le persone, frequentarle. Ma vivo meglio con me stesso".

Come è giunto al mestiere di architetto?
"Non era tra le mie aspirazioni. La sola cosa che intendessi fare era l'artista. A 16 anni, grazie all'interessamento di Giorgio Castelfranco, andai a lavorare con Giorgio De Chirico. Mi sentivo pittore. Stare nella bottega di un grande artista, pensavo, era il modo migliore per migliorarsi".

Non andò così?
"Scartabellavo nell'archivio, rassettavo. Niente di creativo. E poi non si capiva mai se il maestro era contento. Mascherava la sua stizza permanente sotto un sorriso sornione. Per farla breve, finii il liceo - al Virgilio dove, tra l'altro, ebbi come professore di italiano un giovane Alberto Asor Rosa - e dissi a mia madre che volevo fare il pittore. Lei mi guardò e tutta seria commentò: vedo già l'ombra del fallimento dietro le tue spalle. Fu scoraggiante".

Ma aveva torto?
"Penso che valutasse una professione in termini di riuscita sociale. Pochi giorni dopo le risposi dicendole che mi sarei iscritto ad architettura. Fu laconica: ecco, è già meglio. Insomma feci rapidamente i miei studi. Ebbi la fortuna di scoprire, nella Londra degli anni Sessanta, il lato creativo dell'architettura. Di innamorarmi di una ragazza danese, raggiungerla a Copenaghen, e alla fine lavorare negli studio di Henning Larsen e poi in quello di Jorn Utzon ".

In che anno si laurea?
"Nel 1969. Ero uno dei pochi che non voleva fare carriera universitaria ma costruire. Fui considerato un traditore ideologico".

In che senso?
"Si pensava che l'architetto dovesse essere testimone della crisi. In linea con l'idea della morte dell'arte. Non credevo a quelle stronzate e sostenevo che se intraprendi una professione devi anche dimostrare cosa sai fare".

Cos'è per lei l'architettura?
"Non lo so, ogni volta mi trovo a dire una cosa differente. Però non può essere solo una struttura che funziona. Deve dare un'emozione. Essere il risultato di una passione".

Niente di razionale?
"La razionalità conta tanto quanto il caos".

Si spieghi.
"Senza il disordine non nasce niente. La disciplina, le scuole vanno bene. Ma fino a un certo punto. Poi ci sei tu e un oceano di passioni. Non c'è niente di romantico in ciò che dico. Ma devi seguire i flussi. Non sono mai stato il seguace di nessuno. Ho preso un po' da tutti. Come il surf. Vai sulle onde se ci sono le onde".

Qualche nome?
"Louis Kahn mi insegnò il passaggio di scala; da Wright ho appreso la varietà dei soggetti; da Le Corbusier l'aspetto scultoreo e plastico; da Prouvé il lavoro nel dettaglio. Ma non li ho sposati. Semmai li ho traditi".

E tra gli italiani?
"Ammirazione per Gio Ponti. Un dandy meraviglioso. Capace di passare, con la stessa naturalezza, dal cucchiaino alla città. E poi Libera, Terragni, Piacentini. Una generazione straordinaria".

Cosa è lo spazio per lei?
"Non è la cosa più importante. È un mito che l'architetto si occupi di spazi. Semmai è lo spazio che si occupa di te".

E la luce?
"Fondamentale. Non ci sarebbe architettura senza la luce che esalta i volumi e il colore".

Accosterebbe la luce al divino?
"No. Piuttosto la vedrei come una realizzazione dello spirituale. Il divino, o meglio il sacro, non mi coinvolge. Richiede una fede che non ho. La spiritualità è un'esperienza che anche un non credente può vivere. Ci deve essere qualcosa che superi il pragmatismo. Quando l'architettura riesce ad andare oltre le sue funzioni, allora si scopre lo spirituale".

Prima faceva l'elogio del disordine. Da dove le nasce?
"Da una forma di indisciplina cronica".

Come quella che esibì negli anni della contestazione?
"Me lo chiede come se abbia commesso chissà cosa".

Si dice che fosse tra i più determinati.
"Non ho mai preso in mano un bastone. I poliziotti ci scacciarono dall'università di Valle Giulia, protestammo, ci inseguirono manganellandoci senza pietà. Vedere quei vecchi celerini, spesso con la pancia, che arrancavano era uno spettacolo terribile. Ricordo che con le mie Clark ai piedi non facevo che scivolare. E pensavo: ma cosa cazzo si inseguono, cosa cazzo si picchiano. Avevo il cuore in gola e l'adrenalina che girava a mille".

Il bello della rivolta?
"Era un mondo che stava cambiando".

Pasolini pensò che stesse cambiando in peggio.
"E aveva torto. Diceva che eravamo borghesi e fighetti. Tra di noi c'era il proletariato che cresceva e, soprattutto, piccola borghesia. Ho polemizzato con lui".

Lo ha conosciuto?
"Non bene. Vivevamo nello stesso quartiere. Abitava nella stessa palazzina di Attilio Bertolucci. Una volta lo incrociai mentre, con la madre, andava da Caproni. Ricordo che facemmo una partita di pallone in un campetto di periferia. Vidi una figura nervosa, muscolosetta, dotata di un indiscutibile stile. Finalmente rilassata. Poi, nello spogliatoio, si mise a fare a "dito di ferro" con dei compagni di squadra. Gli piaceva la vigoria fisica e la sfida virile".

Politicamente che giudizio ne dà?
"Aveva posizioni apocalittiche. Diverse comunque dal mio modo di essere di sinistra".

Cosa intende per "mio modo"?
"Dopo tante "seghe" mentali, alla fine penso che la sinistra va giudicata a seconda di quanti "no" dice. Se pronuncia troppi "sì" occorre diffidare".

Si sente un uomo contro?
"Credo che esistono ancora le ingiustizie e che possono essere contrastate. L'infelicità fa male a tutti: sia a chi la subisce direttamente, sia a chi la vive di riflesso".

Però il peso è diverso. Come vive i suoi privilegi?
"Quali?"

È ricco, famoso e per giunta di sinistra.
"Frank Gary una volta mi disse: fai tutto quello che devi, e se hai successo non te ne vergognare. L'importante è che non venga dalle cattive azioni".

Ha mai progettato per un costruttore, un palazzinaro?
"Mai. Non è il mio mondo. Quasi tutto il lavoro, a parte qualche cliente privato, passa attraverso i concorsi".

Le capita di dire: ho sbagliato?
"Sono un accumulo di errori. Se non ci fosse Doriana, mia moglie, a ricordarmelo e a correggermi finirei per perdermi. Lei mi protegge da me stesso".

Si sente psicologicamente dipendente?
"Si dipende da chi si ama. Mia madre ha toccato i 97 anni e non riesco a immaginare di poter fare a meno della sua onesta durezza".

È sposato da quanto tempo?
"Con Doriana da 34 anni. Prima c'è stata un'altra moglie. E quattro figli equamente ripartiti".

Come sono i rapporti?
"Con uno non ci parliamo da anni. E lo considero una mia sconfitta. Con gli altri va bene. Elisa ha da poco scritto un libro. Generazionale. Credo parli anche di me. E, sospetto, non del tutto favorevolmente".

Teme il giudizio degli altri?
"Dovrei temere quello di Dio. Ma sono ateo. Preferisco che si parli bene di me. Non sono di quelli che dicono: purché se ne parli".

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Ritratto di  Luciana Castellina

lunedì 20 gennaio 2014

Ritratto di Luciana Castellina

Il 12 gennaio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a
Luciana Castellina

"Tutti quegli anni davanti ai cancelli delle fabbriche per vedere oggi
la classe operaia diventare irrilevante"


Luciana Castellina: i ricordi,
le passioni, la politica
di una 'inossidabile comunistaccia'

di ANTONIO GNOLI
Luciana Castellina
Tutte le case di sinistra in qualche modo si somigliano. Ammetto che è un pensiero vago. Perfino insulso. Mi afferra una volta varcata la soglia dell'abitazione di Luciana Castellina. I libri, tanti e disposti quasi in ogni stanza, le foto attaccate ovunque alle pareti, i manifesti, i quadri, il lieve disordine che fa molto vissuto evocano una certa idea della politica e della morale. Sì, le case a volte parlano come e più degli umani. Sedimentano storie, forniscono indizi, mostrano il lato meno scontato del carattere: "Abito qui da sempre", dice, "in questo quartiere borghese con scarsa propensione all'avventura, nella Roma moderata e riccastra che si incistò ai Parioli dagli anni Trenta. Se fosse stato per questo clima di spenta moralità e di scarso agonismo non avrei fatto tutto quello che poi ho realizzato. Ho ereditato questa casa, senza sceglierla. E penso che alla fine i ricordi e le abitudini me l'abbiano resa non dico indispensabile, ma vicina, quasi una parte di me".

Si sente una privilegiata?

sabato 28 settembre 2013

Verdi 200

Verdi di David Rowe


Festival Verdi 2013




  30 settembre                                                 1813 - 2013
    31 ottobre 2013   
                                              BICENTENARIO


Giuseppe Verdi (Roncole di Busseto, 10 ottobre 1813 – Milano, 27 gennaio 1901) è stato un compositore italiano autore di melodrammi che fanno parte del repertorio operistico dei teatri di tutto il mondo. È considerato il più celebre compositore italiano di tutti i tempi.
Quest'anno ricorre il bicentenario dalla nascita.
Sarà la Filarmonica della Scala diretta da Riccardo Chailly ad inaugurare il 30 settembre il Festival Verdi di Parma, una tappa nei festeggiamenti per il bicentenario dalla nascita del compositore che porterà l'orchestra a novembre anche in Germania e Lussemburgo. Due le opere allestite Il Simon Boccanegra e I Masnadieri. Tanti i concerti e le mostre correlate la regione insieme alla provincia di Parma hanno aperto un sito apposito www.giuseppeverdi.it, molto ricco di documenti; interessantissime le raccolte delle immagini, ci sono anche le caricature d'epoca.

Festival Verdi 2013

mercoledì 18 settembre 2013

Enrico Rava

Enrico Rava.

“Nel jazz e nella vita fare la cosa giusta non significa conoscere le regole”.




grande tromba
grande musica
grande faccia
Enrico Rava -da La Repubblica
Riccardo Mannelli

ENRICO RAVA
Antonio Gnoli
 La circostanza peggiore che possa capitare a un concertista è che l' organizzatore scappi con la cassa: «È una cosa che mi fa molto incazzare e non è solo per il denaro che hai perso, ma per la buona fede tradita, per il rapporto di responsabilità che hai con gli altri componenti della band», dice Enrico Rava, uno dei massimi jazzisti contemporanei.
È strano cominciare questo incontro parlando di soldi. Con i capelli lunghi, il baffo spiovente e il casual degli indumenti, Rava sembra uscito da un fotogramma degli anni Settanta. Se non è in giro per l' Italia, o l' Europa, vive a Chiavari, dove ci incontriamo in un bar del lungo mare. Sotto, le esili spiagge sono divorate da gruppi di famigliole che si accalcano per prendere il sole.
«Secondo me, per sopperire alla mancanza di spazio inventeranno, come per le auto, il multipiano», dice ironico. È appena tornato da un concerto tenuto a Cagliari.
 Com' è la vita con una band? 

martedì 3 settembre 2013

Giuseppe Rotunno

Antonio Gnoli intervista Giuseppe Rotunno.
 Il direttore della fotografia racconta la sua vita con i grandi del cinema.
“Per me la luce sul set è quella di Dio così ho capito la vita e la morte”





GIUSEPPE ROTUNNO
ANTONIO GNOLI

Sono più di cento i film che Giuseppe Rotunno ha realizzato nell' arco di sessant' anni. Ha lavorato con i più grandi registi, predisposto e inventato le luci per "raccontare" i volti di attrici e attori famosi, diretto e misurato le profondità di campo, creato quella magia luminosa senza la quale l' arte cinematografica resterebbe un' esperienza piatta e incolore. Eppure, incontrandolo, non si ha l' impressione di un uomo troppo compreso nel proprio ruolo. È come se la sua storia - che ha contribuito a realizzare una parte fondamentale del cinema italiano - si esprima nell' immediatezza delle cose e nella semplicità delle parole. Da pochi mesi ha compiuto 90 anni. Non dimostra un' età che di solito disorienta chi ne porta il peso. Egli è un' ombra felice e tranquilla. Un' umile proiezione di una vita lunga vissuta senza accaparramenti né brame. Una vita solida che continua nell' impegno al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove insegna agli allievi a diventare direttori della fotografia. Mi accoglie nella sua casa romana con un filo di apprensione. Dice che a volte la sua memoria gira a vuoto. Ma è spiritoso quando aggiunge che se dovesse davvero ricordarsi tutto, dimenticherebbe cosa fare. Ha accanto la moglie. Più giovane di una decina di anni e ancora bella. Si conobbero sul set di Pane, amore e... regia di Dino Risi, era il 1955. Ma poi al cinema Graziolina preferì la pittura. I suoi quadri, di una leggerezza infantile, adornano una parete del salotto. Mentre su un' altra spiccano anche un paio di dipinti di Ligabue.
«Conobbi Ligabue quando con Michele Gandin giravamo un documentario sul Po. Ci incuriosì quell' uomo schivo che vagava per i paesi spingendo una carrozzina per bambini. Teneva lì le sue cose e si percepiva la sofferenza e il disagio», ricorda Rotunno.
È diverso il disagio di un artista da quello di una persona normale?
«Non saprei cosa rispondere. Di lui non sapevamo nulla. Per me era un uomo che usciva dall' umidità e dalle nebbie di quei giorni. Privo di qualunque baldanza. Solo in seguito appresi che nei suoi occhi signoreggiavano animali esotici e il mondo contadino».
E nei suoi?
«Intende i miei?».
Sì, cosa vedono gli occhi di un grande direttore della fotografia?