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lunedì 18 agosto 2014

Ritratto di Morando Morandini

Il 6 luglio  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Morando Morandini


Morando Morandini
su LA REPUBBLICA
Riccardo Mannelli


Morando Morandini: "Noi critici siamo come eunuchi a guardia di harem senza goderne"

"I miei novant'anni sembravano un bel traguardo, ora non mi frega più". Alla viglia dell'appuntamento i ricordi del giornalista che ha dato il nome a un dizionario di film
di ANTONIO GNOLI

ORA che sembra quasi tutto pronto, con le celebrazioni in corso e quelle imminenti (Milano gli consegnerà alla fine dell'estate l'Ambrogino d'oro), Morando Morandini si lascia andare a un piccolo sfogo: "L'arrivo dei novant'anni mi pareva un traguardo autorevole. Ora non me ne frega più di tanto. Se penso a cosa è stata la mia vita, vedo due o tre cose fondamentali: il cinema, la moglie, le figlie. E allora mi chiedo: chi sei Morando, chi sei veramente? Prima facevo fatica a trovare una risposta, ora mi sembra di avercela stampata in fronte".

E qual è?
"Sono un vecchio egoista che si sorprende nel vedere che la gente gli vuole bene. Pochi giorni fa c'è stata una serata che mi è stata dedicata al cinema Anteo. E io pensavo: chi sono per essermela meritata? Poi quando sono entrato ed è stato annunciato il mio nome è esploso un applauso di un minuto. Lei non sa quanto può essere lungo un minuto. Sembrava non finisse mai. L'emozione era fortissima. Non sapevo, in quel momento, se essere contento o vergognarmi ".

Vergognarsi di cosa?
"Non lo so. È una specie di tardiva insoddisfazione. Sto leggendo un libro sulla schizofrenia".

Teme di essere schizofrenico?
"No, no. Anzi, della patologia mi affascina la micidiale separazione della personalità. Per cui una parte non sa cosa fa l'altra. In un certo senso, io che sono stato solo che un critico, per parafrasare un mio libretto di qualche importanza, non ho mai saputo veramente cosa accadesse al di là delle Colonne d'Ercole della critica. Non ho mai saputo chi fossi veramente".

Ma questo succede un po' a tutti. Abbiamo perso in introspezione.
"E di chi è la colpa? Sarà che sono invecchiato di botto, ma stento a riconoscermi. Mi viene in mente Baudelaire, quando ormai trafitto dal rincoglionimento, passando davanti a uno specchio si toglieva il cappello e salutava la sua immagine senza riconoscerla".

Cosa la tormenta?
"Se lo sapessi! Non vorrei però finire in un posto come Cesano Boscone, se non altro perché c'è sempre il rischio di trovarci uno che scontandovi una condanna magari mi parlerebbe delle sue numerose conquiste femminili e di quanto era bella la televisione che faceva lui".

Lei tra critico cinematografico e televisivo non ha dubbi dove stare?
"E me lo chiede? Il cinema tutta la vita. Naturalmente semplifico. È un vizio che mi porto appresso".

E come critico cinematografico dove ha lavorato?
"Sono passato dalla Notte al Giorno. In mezzo ci fu un'esperienza che durò meno di un anno con il quotidiano Stasera ".

La Notte era un giornale di destra, come fu lavorarci?
"Meno complicato di ciò che poteva sembrare. Lo dirigeva Nino Nutrizio, il quale non fece mai osservazioni sulle mie idee. Aveva capito che ero tra gli artefici del suo successo. E questo gli bastava".

E a lei bastava?
"Evidentemente no. Anche se, ripeto, fu una grande palestra. Fui il primo a inventare nelle critiche cinematografiche le stellette del critico e i pallini per il gradimento del pubblico".

Come le è nata la passione per il cinema?
"Da piccolo tendevo a identificarmi con Jean Gabin e Gary Cooper. Passai la mia infanzia in un cinemino parrocchiale non lontano da Chiasso. Poi continuai ad andarci nel periodo in cui ho vissuto a Como. Compresi che il cinema è una grande macchina del desiderio. In fondo è questo che mi ha spinto a occuparmene ".

E ha scelto di farlo da un'entrata di servizio.
"Mica tutti nascono Kubrick o Fellini. Mi piaceva leggere romanzi, scrivere e andare al cinema. Sommando queste tre cose è venuto fuori Morando Morandini. Però capisco che la domanda presenta un risvolto ".

Quale?
"In fondo noi critici cinematografici siamo come degli eunuchi, piazzati a guardia di harem ma incapaci di godere realmente delle bellezze che vi sono contenute".

Fare cinema e parlarne sono due cose diverse.
"Sì, poi magari arriva uno come Truffaut che eccelleva in entrambe le cose. Ad ogni modo, mi è anche capitato di fare l'attore".

Lo dice come fosse un peccato.
"In un certo senso è così. Anche perché non credo di sapere recitare. Al più potrei rifare me stesso. Ma anche lì avrei dei dubbi. Detto ciò, Bertolucci mi propose una parte nel film Prima della rivoluzione. Accettai. E devo dire senza pentirmene. Ho imparato alcune cose. Perfino l'umiliazione di sentirsi trasformati in un oggetto".

Chi sono i suoi registi preferiti?
"Che domanda? È come chiedere a un drogato con che cosa si fa. Ma poi alla fine un elenco di nomi rischia di fornire una caricatura. Ho passato tutta la vita a cercare di non farmi influenzare dalle mie idee e dai miei giudizi. Bastava quel rompicoglioni di mio padre ".

Cosa faceva?
"Ma sa che non lo so. O forse l'ho rimosso. Ho l'impressione che si occupasse di turismo".

E in che senso rompeva?
"Era un entusiasta militarista. Entrò nella milizia fascista. Ci perseguitava con le sue frasi, i suoi atteggiamenti viriloidi. Ho dovuto sopportarlo per anni. In compenso ho adorato mia madre. Morì nel 1942 e per me si aprì un periodo complicato".

Quanto complicato?
"Abbastanza da mettermi di malumore. Si accentuò un difetto che mi portavo da bambino: la balbuzie. Ancora oggi, sente, come a volte mi impunto su delle parole".

E come l'ha vissuta all'inizio?
"Mi pareva un limite, come avere una gamba più corta. Però poi mi sono accorto che quel "limite" andava abbastanza d'accordo con il mio carattere, che tendeva a farmi stare sempre un po' in disparte. Diventai così una specie di balbuziente felice e solitario".

Si è mai chiesto da dove nascesse quel difetto?
"Emotività, vergogna, paura, rabbia. Chi lo sa? Per risolverlo ho provato a imparare a respirare. Ma come vede ancora balbetto. Penso sia un modo per farsi rubare le parole".

Chi le ruba?
"Ogni tanto penso a un piccolo demone malignetto. Un guastatore della lingua che piccona le sillabe, prosciuga le vocali, svolazza sulle piccole frasi creando scompiglio".

È la sua ossessione?
"I demoni possono diventare la nostra ossessione".

Ha letto Dostoevskij?
"L'ho letto. Mirabile. Profondo. Ma di una profondità irraggiungibile. Quasi paralizzante".

In che senso?
"Non è una novità dire che Dostoevskij aveva guardato nel baratro del suo mondo. Cogliendone tutto l'orrore, l'assurdità, il pericolo. Io, giovane lettore, cosa avrei dovuto fare a quel punto? Alla fine provavo ammirazione per la sua lucidità ma nessuna empatia. Nessuna condivisione. Se si afferma che Dio è morto e che qualunque cosa è ammessa, il mio primo pensiero non va al nichilismo feroce, ma allo sdoganamento del consumismo che in questi anni, non ora che stringiamo la cinghia, ci ha afflitti e ridotti a espressioni dell'onirico".

Però il "nichilismo feroce" lo abbiamo vissuto sulle nostre spalle. Per lungo tempo è cresciuto come un demone esigente che ha divorato storie ed uomini.
"Sapevo che saremmo finiti lì. Su quel lembo di vita tragica che ha coinvolto mio figlio".

Lo sapevamo entrambi. Ma non volevo chiederglielo in maniera scorretta o brutale.
"Chieda, mi pare giusto risponderle".

Suo figlio, Paolo Morandini, con un commando di una sedicente "Brigata XVIII marzo", partecipò all'agguato mortale di Walter Tobagi. Di quella vicenda accaduta nel 1980 si è scritto molto e molto è stato chiarito sulle responsabilità individuali e collettive. Non vorrei riaprire una ferita, che immagino comunque dolorosa, ma le chiedo cosa sono diventati i rapporti con suo figlio dopo quella vicenda.
"Prima di risponderle. Vorrei precisarle che ho avuto tre figli: due femmine e un maschio. La primogenita è Lia, poi è arrivata Luisa e infine Paolo. Ricordo ancora con un certo rincrescimento le dichiarazioni di congratulazioni da parte degli amici: finalmente un figlio maschio. A me, devo essere sincero, non mi fregava niente di avere avuto un maschio".

Forse è una reazione a posteriori.
"Forse. Come pure, può sembrare facile, dire a cose fatte, che avrei preferito non avere un figlio così. Ma è la verità".

Si sente in qualche modo responsabile?
"Ma la situazione era di una tale enormità, di una tale sproporzione che più che alla responsabilità pensavo al disorientamento. Cosa avevo fatto per meritarmi un figlio così? Ho sofferto tantissimo".

Ha mai sentito il bisogno di perdonarlo?
"È stato un bisogno che mi ha messo molto a disagio. E poi ho l'impressione che la nozione di perdono non faccia parte della mia visione del mondo".

In che senso non le appartiene?
"Ha troppe implicazioni cristiane e religiose".

Diffida dei precetti religiosi?
"Penso che non si dà quasi mai una vera espiazione. E se c'è, è qualcosa che riguarda l'individuo, non l'istituzione".

Che fine ha fatto Paolo?
"Vive a Cuba, ogni tanto ci sentiamo".

Cosa prova per lui?
"Ho sentito fastidio e perfino rabbia nei suoi riguardi. Da qualche tempo sto pensando di essere stato poco generoso nei riguardi di una persona che è comunque mio figlio".

Poco generoso?
"Capisco che può sembrare inopportuno. Ma ho come avuto la sensazione di aver davanti un uomo profondamente infelice. E mi viene il dubbio di non averne tenuto conto a sufficienza".

Lei sa che le infelicità sono di molti tipi. A quale si riferisce?
"Prima che accadesse quello che è accaduto, Paolo era divorato da un'ossessione di purezza. Voleva nella sua faziosità redimere il mondo. Si può essere più infelici, intendo mentalmente? E poi, quando il mondo è esploso nella sua tragedia, l'infelicità era nel rendersi conto del male fatto, ma non riuscire a tirarlo fuori. A dargli una forma comunicabile. Dai molti scontri che abbiamo avuto credo di non avere mai captato questo suo malessere di fondo ".

Ne ha parlato con lui?
"No, ed è una cosa che mi addolora e considero questo silenzio un mio torto. La realtà delle persone che conosciamo è quasi sempre più complessa di quello che pensiamo. Anche il legame più compromesso chiede a volte di essere compreso. Non è al perdono che penso ma a una forma di compassione. È qualcosa che mi ha fatto capire mia figlia Lia. E in fondo era il rimprovero di mia moglie quando era in vita".

Di cosa l'accusava?
"Non erano accuse. È che l'affetto materno è profondamente diverso dal modo di ragionare di un padre".

Le capita di pensare alle vittime del terrorismo?
"Certo, per lungo tempo non ho dormito la notte. E provavo sconforto e desolazione per quello che era accaduto ".

Ha parlato dell'infelicità di un figlio. E quella del padre?
"Non sono felice. Perché dovrei esserlo? Non ne ho motivo. C'è anche chi dice: ti è andata bene. Hai fatto quello che hai voluto. È vero, sono stato anche un uomo fortunato. Ma adesso che la maratona si sta per concludere sento di arrivare stremato al traguardo. Sono un uomo ricco di contraddizioni, come vede".

Come vive questi novant'anni così vicini?
"Male, nonostante feste e celebrazioni".

Perché?
"In questi ultimi anni c'è stato il crollo fisiologico".

Si sente prigioniero della vecchiaia?
"Non è un carcere piacevole. Ho peggiorato la salute, la memoria. Fatico a muovermi e la vita è sempre più piena di ombre".

Teme la morte?
"Al contrario. Le dirò una cosa che la sconcerterà. Spero di morire entro la fine di quest'anno. Me ne voglio andare. Non è un proclama. Le dico solo la verità. Solo quello che sento".

E se ciò come mi auguro non accadesse?
"Spero di morire ma non ho preso la decisione di farlo. Non farei nulla per accelerarne il corso. Mia figlia Lia mi dice: papà, molla tutto, vieni a vivere a Roma. Anche qui hai tanti amici, tanti ricordi. E io le dico: è troppo tardi. E penso davvero che sia cominciato il conto alla rovescia".


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Nota

Metto il link dell' intervista rilasciata, trentanni dopo l'assassinio di Walter Tobagi, dalla moglie per capire meglio lo strazio per il figlio, di cui parla Morandini nell'intervista sopra.
http://www.navecorsara.it/wp/2010/06/01/stella-tobagi-l%E2%80%99assassino-di-walter-mi-porto-una-scatola-di-cioccolatini/

venerdì 8 agosto 2014

Ritratto di Umberto Veronesi

Il 22 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
ad Umberto Veronesi 



Umberto Veronesi: "Non c'è nulla di buono nel dolore, bisogna combatterlo senza tregua"

Il chirurgo italiano, ex ministro e senatore della repubblica italiana, è specializzato nella cura dei tumori al seno e ideatore della tecnica della quadrantectomia
di ANTONIO GNOLI

VADO a trovare Umberto Veronesi ben consapevole di trovarmi di fronte a un uomo che ha speso molto delle sue energie e della sua intelligenza per una guerra di lunga durata contro il cancro. Quella parola, "cancro",  -  per decenni invisa, nascosta, condannata o rimossa  -  oggi sembra fare meno paura. Mentre con un taxi mi faccio portare all'Istituto europeo di oncologia di Milano, penso a una interpretazione che Susan Sontag, morta di cancro giusto dieci anni fa, aveva dato della malattia definendola "il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa". Cittadinanza? La Sontag immaginò che la malattia fosse come entrare in un altro paese, in un'altra identità: nel regno dello star male. E in fondo è questa la ragione profonda del timore che proviamo ogni qualvolta ci si trovi in un luogo sconosciuto segnato dalla sofferenza e dal dolore estremo.

Veronesi siede nel proprio studio come rinfrancato. È appena uscito da una fastidiosa caduta. Se ci sono conseguenze non si vedono: ha un'aria elegante e rilassata, come in un primo giorno di festa, quando tutto appare sotto una luce migliore. E quel luogo dove mi riceve, costruito con le intenzioni di farne uno spazio a misura umana, dà l'impressione che quella guerra si possa anche vincere: "Lei non può immaginare cosa fosse all'inizio: si combatteva in un trucido campo di battaglia, in un lazzaretto dell'infelicità umana, in un luogo considerato dai più
senza ritorno".

Intende dire che la medicina non contemplava la guarigione?

giovedì 24 luglio 2014

Ritratto di Arturo Schwarz

L' 08 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
ad Arturo Schwarz 


Arturo Schwarz: "A novant'anni sono avido di vita mi sento più trotskista che mai"

Dalla creazione in Egitto di una sezione della Quarta Internazionale, che gli costò le torture, all'arrivo in Italia, dove divenne gallerista e grande collezionista del movimento surrealista
di ANTONIO GNOLI

CHE cos'è che mi assilla durante tutta la conversazione con questo signore che alterna la memoria precisa dei fatti con i piccoli spazi regalati all'oblio? Sono qui, nella sua casa milanese a due piani (forse tre considerando la parte sotterranea), in mezzo ai 40 mila volumi e alle opere d'arte che con sincretica abilità ha messo insieme lungo il corso di una vita. Sono qui, seduto davanti ad Arturo Schwarz che mi fissa attraverso le spesse lenti e chiede domande esatte, precise, circostanziate. E mentre chiede si accarezza la barba. Detesta la vaghezza.

Ha accanto la nuova compagna. Si chiama Linda. Apprendo che stanno insieme da sei anni e che si sono sposati da poco. Il vecchio maschio alpha sorride alla donna bionda. Premurosa e taciturna, lei lo guarda senza frenesia. Si nota la grande differenza di età. Ma invece di sorprendermi mi fa pensare a due corpi finiti, per caso e forse felicemente, nella stessa orbita. Che cos'è che mi assilla allora? È l'idea che la natura si possa forzare? Cambiarne le leggi? Stravolgerle? Sarebbe comunque troppo. Eccessivo. E allora cos'è? È il fatto che non riesco a capire quanta percentuale "levantina" si nasconda in quest'uomo dalle dichiarate ascendenze egiziane: "Sì, sono nato ad Alessandria d'Egitto e la mia vita è stata una grande avventura", dice con l'aria di chi stia fornendo una biografia dai tratti romanzeschi.

Il nome Schwarz farebbe pensare a origini tedesche.
"Mio padre era di Düsseldorf. Ebreo, sposò un'ebrea milanese: Margherita Vitta, figlia di un colonnello italiano che andò di stanza in Egitto. Fu lì che si conobbero".

Cosa faceva suo padre?
"Era un chimico. Attraverso dei processi di liofilizzazione, inventò un sistema di conservazione del cibo. Fu la nostra fortuna con il governo egiziano".

Com'era Alessandria?
"Popolosa, strana, dal sapore cosmopolita; abitata da commercianti greci, italiani, armeni; da finanzieri libanesi e da diplomatici inglesi e francesi. Ricordo il vociare dei venditori d'acqua e l'intenso profumo dei narghilè. Mio padre mi iscrisse al "Victoria College". Feci le scuole e l'università francese e inglese: la Sorbonne aveva laggiù un suo distaccamento. Come Oxford, del resto".

E cosa ha studiato?
"Filosofia e scienze naturali. In seguito aprii una libreria. Ma la vera passione in quegli anni giovanili fu la politica. Creai una sezione egiziana della Quarta Internazionale ".

Quella fondata da Trotsky nel 1938?
"Sì. E oggi compiuti i novant'anni mi sento più trotskista che mai. Allora, a causa della mia attività politica, fui arrestato e condannato all'impiccagione".
Che anno era?
"Gennaio 1947. Lo ricordo come fosse ieri. Mi prelevarono la mattina presto. Fui trascinato in prigione. L'accusa era sovversione. Mi sbatterono nei sotterranei. Una cella asfissiante, piccola e come unici compagni topi e scarafaggi. Mi rasarono a zero. Mi torturarono strappandomi le unghie dei piedi. Sopraggiunse una cancrena per cui persi l'alluce del piede destro. Infine fui trasferito nel campo di internamento di Abukir".
Come ha fatto a salvarsi?
"Due anni di prigionia in attesa che si eseguisse la sentenza. Prevista per il 15 maggio del 1949. In corso c'era la guerra arabo-israeliana. Che ebbe varie fasi. Nel febbraio del 1949, giunse l'armistizio tra Egitto e Israele. Nel mutato clima fui liberato in aprile".
I suoi genitori?
"Mia madre era morta da tempo. I miei divorziarono che avevo cinque anni. Per un po' stetti con lei, una donna rancorosa. Cominciò a maltrattarmi: rivedeva in me piccolo quello che un giorno era stato suo marito. Alla fine mio padre riuscì ad ottenere l'affidamento. La mamma morì nel 1939. La Germania dilatava i suoi deliranti sogni di guerra e io non sapevo più chi fossi".
In che senso?
"Non avevo più un'identità. Nel 1933, come ebreo, persi la cittadinanza tedesca. Presi quella di mia madre. Fu cancellata nel 1939. Ero dunque un apolide. Finita la guerra accettai di riprendermi la cittadinanza italiana. Per cui, quando si trattò di espellermi dall'Egitto, fui mandato in Italia".
Dove?
"Con il piroscafo arrivai a Genova e poi, con il foglio di via, finalmente a Milano. Non avevo soldi, né vestiti, ero solo. Sapevo che per sopravvivere avrei dovuto trovarmi al più presto un lavoro. Feci la sola cosa che avevo già fatto ad Alessandria: misi in piedi una libreria con annessa una piccola casa editrice. La Banca Commerciale, grazie a un cugino che era un funzionario, mi concesse un fido. Che poi mi fu tolto".
Perché?
"Sospetto che ci fosse lo zampino di Togliatti. Pubblicavo i libri di Trotsky e il Pci non amava certo quella figura che era stata fatta assassinare da Stalin. L'anno in cui morì per mano di un sicario avrei dovuto incontrarlo a Coyoacán in Messico dove viveva. Era il 1940. Avrei affrontato un lungo viaggio per mare. Con tutti i rischi della guerra. Ma non feci in tempo. Mi restò un suo biglietto da visita che avrebbe dovuto funzionare da lasciapassare. Deve essere da qualche parte. Conservato come una reliquia".
Mi fa venire in mente le sue considerevoli collezioni?
"Odio la parola collezionismo. Tutto quello che ho raccolto non è stato fatto nel nome della proprietà privata, ma per amore verso l'arte, in particolare verso il surrealismo, che ha segnato la mia vita".
Come è nata la passione surrealista?
"Tutto avvenne dopo aver letto il Manifesto di André Breton. Nei primi anni Quaranta gli inviai le mie poesie. La risposta arrivò sei mesi dopo. Tenga conto che l'Atlantico era infestato dagli U-Boot tedeschi. Mi rispose incoraggiandomi. Da allora decisi di far parte del gruppo surrealista".
Con quali effetti?
"Per me unici. Ero felice di stare in contatto con artisti straordinariamente liberi e onesti".
Onesti?
"Intendo intellettualmente. Breton fu descritto cola me una specie di dittatore che imponeva le sue scelte culturali. Non è vero. L'ho conosciuto bene. Era di una dolcezza e di un'ironia uniche. E poi Duchamp, che incontrai nel 1954. Chi meglio di lui ha interpretato lo spirito dei tempi? E Yves Tanguy? Semplicemente strepitoso. E Max Ernst? Lo conobbi a Parigi. Grande. Ma non ho avuto molta simpatia per lui. Gli rimprovero di aver tradito Breton".
Nelle sue mani, si dice, siano passati parecchi capolavori di quel periodo.
"È vero. Li ho avuti, tenuti appesi, venduti e donati. Duchamp, Man Ray, Masson, Tzara, Dalí, Ernst, Pollock che non era un surrealista, ma proveniva da quel mondo".
Perché dice "donati"?
"Perché circa un migliaio delle mie opere sono finite in quattro grandi musei internazionali".
Cosa ha chiesto in cambio?
"Che le opere fossero catalogate, documentate, accompagnate da una dignità scientifica. È il solo modo per far sopravvivere l'arte".
Tra i musei che cita è compresa anche l'Italia?
"Dopo molte complicazioni burocratiche un consistente nucleo delle mie opere dada e surrealiste sono
finite alla Galleria d'Arte Moderna di Roma".
Complicazioni in che senso?
"Non fu per niente facile. Si giunse al paradosso che ero io che dovevo giustificare il lascito e non lo Stato quello di fornire le garanzie per la gestione. La cosa più comica accadde con la mia biblioteca di testi dada e surrealisti che era compresa nella donazione. E che gli specialisti consideravano un pezzo unico. Fu rifiutata perché qualcuno allora insinuò che era robaccia pornografica! Il Getty Museum aveva offerto due milioni di dollari. Alla fine la donai a Israele".
Mi faccia capire meglio questo atteggiamento del "donare".
"Cos'è che non va?".
Lei è un gallerista. Ha trattato opere. Le ha comprate e vendute. Voglio dire: non sto di fronte a una classica figura di mecenate.
"Ma un uomo è tante cose assieme. E non c'è contraddizione tra un'attività mercantile e il bisogno di trasmettere un patrimonio, per quanto piccolo, senza smembrarlo. C'è  -  come dire?  -  una volontà spirituale che reagisce al puro dominio del denaro. Non sarei ancora un trotskista e un surrealista se non pensassi questo".
Se non pensasse che la proprietà è un furto?
"Ecco, leggiamo Proudhon e soprattutto Stirner, ma anche la Cabala e l'Alchimia che ho studiato a fondo ".
Cosa c'entrano queste ultime?
"I primi scritti alchemici distinguevano chiaramente l'oro come metallo dall'oro spirituale o "filosofale". Nelle esegesi talmudiche vengono presi in considerazione sette diversi tipi di oro. In molti testi alchemici Dio stesso è paragonato all'"oro dell'alto". Siamo in pieno antimaterialismo".
La frequentazione dei testi sacri come la relaziona con il buon Dio?
"Dio è un'ipotesi culturale. Sono ateo da sempre. Con gli anni invece di indebolirsi questa posizione si è rafforzata".
Davvero?
"Eh, già. Certe volte mi chiedo come qualcuno abbia potuto creare un mondo così di merda. Se ci fosse un Dio che avesse realizzato tutto questo, sarebbe un sadico".
In fondo in un mondo così non le è andata poi tanto male.
"Forse perché tutta la mia vita si è svolta sotto il segno dell'amore".
È una parola impegnativa e anche un po' scivolosa.
"Non me ne frega niente che sia scivolosa. Mi riferisco alle persone che ho amato e che amo".
A chi per esempio?
"Penso alla mia prima moglie: Vera. L'ho amata in maniera totale. E quando è morta, vent'anni fa di tumore, la mia vita ne uscì sconvolta".
Che cos'è un uomo cui viene sottratta una delle ragioni principali della sua esistenza?
"È un essere finito. Posso solo dirle che a un certo punto quel disagio è talmente cresciuto in me da togliermi ogni ragione di vivere. Ero una ridicola mosca senza più ali che si dibatteva freneticamente".
Ha pensato al suicidio?
"Più volte. Ho pensato di farla finita anche prima di incontrare lei, Linda, che ora vede sedermi accanto. Ero stanco. Con problemi fisici seri dopo un'operazione alla schiena andata di schifo. Linda mi ha salvato. Mi ha dato un'altra chance".
Cosa la spaventa della morte?
"Non ne ho paura. Sono avido di vita. Lo sono più ora che ho superato i 90 anni che quando ne avevo 30. Ma so che arriverà il momento in cui sarò nuovamente stanco di vivere. Non so se avrò ancora la forza di ribellarmi. Tutte le ribellioni, però, sono sacre".
Anche quelle contro la natura?
"È difficile ribellarsi alla natura. In questo mi sento molto spinoziano. Quando verrà la mia ora me ne andrò spero senza troppo protestare".
Si percepisce in lei tutto e il contrario di tutto.
"Non capisco se lo intende come un segno di ricchezza o di ambiguità".
Forse entrambi.
"L'uomo è un coacervo di sentimenti contraddittori. Ha un lato sublime e accanto uno deteriore. È generoso e vile; disinteressato ed egoista. È la vita. Prendiamola per il verso giusto. Spero solo di non aver fatto troppe cazzate. Alla fine ciò che avrò dato e anche quello che riceverò. Poi, come tutti, lentamente sbiadirò, senza lasciare traccia".
Lei ha scritto una settantina tra testi di saggistica e di poesia. Mai un libro di memorie. Rientra nella convinzione che tanto tutto è destinato a finire?
"Non lo so, sinceramente. E poi: ho cose più interessanti da fare che mettermi a scrivere le mie memorie. Se qualcosa resterà di me, e dubito fortemente, sarà attraverso i gesti concreti. Non nelle parole".
Cosa vorrebbe indietro che oggi non ha più?
"Non mi manca nulla. Non soffro di nostalgia. Ho perfino conservato intatte le mie radici ebraiche".
Come le definirebbe queste radici?
"Sono la linfa di tutto. E quel tutto ha assunto per me la forma del desiderio di conoscenza e di fratellanza. Nel Tanàkh  -  cioè nel Vecchio Testamento  -  si dice, ancor prima che nei Vangeli, una cosa fondamentale: ama il prossimo come te stesso e non fare male a nessuno. È il fondamento della nostra etica civile. Non ne vedo altri".
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI
 

domenica 13 luglio 2014

Ritratto di Carla Vasio

Il 1 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
 a  Carla Vasio





Carla Vasio: "Ho fatto la guerra del Gruppo '63, ora vivo per dimenticare tutto"

La scrittrice, saggista, storica dell'arte e poetessa italiana, nata a Venezia nel 1932 e poi trasferitasi a Roma, in occasione del cinquantenario della nascita del movimento ha pubblicato il libro di memorie Vita privata di una cultura (Nottetempo, 2013) che ne ripercorre la storia
di ANTONIO GNOLI  

E poi c'era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo '63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: "Eravamo nati a un giorno di distanza l'uno dall'altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l'immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno", ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

Ma quello che non capisco è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo '63 non si parla mai. Guardo la Vasio  -  una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura , Nottetempo)  -  e mi aspetto una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: "Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana".

Erano maschilisti incalliti?
"Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale".

C'è una foto in cui ballate avvinghiati.
"Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo".

Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
"Adorabile nevrotico. Fu un'amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali".

A cosa si riferisce?
"Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un'angoscia terribile".

E Manganelli?
"Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all'ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi".

Ma il Gruppo '63 non amava Pasolini.
"Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri".

La racconta come fosse una guerra.
"E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento ".

Quanto è rimasta a Venezia?
"Fino all'adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c'era Rossana Rossanda".

E com'era
"Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze".

Frivoli?
"Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l'uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso".

Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
"Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane".

Come fu il dopoguerra a Roma?
"Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l'università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un'idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò".

Cosa intende per esoterico?
"Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall'Ashram di Aurobindo".

Il santone indiano?
"Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l'India. Si incamminò verso l'India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma".

E qui cosa accadde?
"Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po' tutti quando, all'inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down".

E lei in tutto questo che c'entrava?
"Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso".

Quale?
"A Roma si era formata una enclave di junghiani".

Lo dice come fosse una setta.
"In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona".

Chi era?
"Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista".

E cosa decise?
"Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso "romanzo storico", scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino".

Cosa le disse Calvino?
"Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni".

Che anno era?
"Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l'ultimo sussulto lo ebbe con l'estate dei poeti nel luglio del 1979".

Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
"Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c'era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie".

E cosa accadde?
"Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l'evento poté finalmente decollare".

Fu un canto del cigno.
"Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci".

Come reagì la Pivano?
"Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C'era nell'aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell'estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone".

Al quale in seguito ha dedicato un libro.
"Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell'Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito".

Lasciando qualche trauma?
"No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere".??Chi per esempio??"La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo '63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l'oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l'inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi".

Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
"Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all'arte di dimenticare".

Curioso per una donna che ricorda tutto.
"Sono d'accordo, ma considero quell'arte suprema".??Perché??"Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un'immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C'è la dea Maat che sta sulla soglia dell'aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no".

E come conosce l'anima dei defunti?
"Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull'altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell'aldilà".

Lei crede nell'aldilà?
"Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita".

sabato 24 maggio 2014

Ritratto di Giulio Questi

Il 27 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Giulio Questi



Giulio Questi: "Tra la Resistenza e i film western, la mia vita è un'eterna incompiuta"

Dai racconti di una guerra partigiana senza miti agli incontri con Vittorini e Fenoglio, Visconti e Rosi. Le tante avventure di uno scrittore, attore e regista

di ANTONIO GNOLI 

 Un'intera giovinezza si lasciò spazzare via nei due anni terribili della Resistenza. È così che immagino l'esperienza del partigiano Giulio Questi: "La mia memoria mi inquieta perché non è dolce né arrendevole. Mi stordisce come un pugno violento. E non posso farci niente", dice di sé e dei suoi ricordi. Questi ha scritto tra i più bei racconti che abbia letto sulla Resistenza. Poi, nella vita, ha fatto altro: documentari, film. Forse a un certo punto, negli anni in cui visse a Cartagena, ha perfino sognato di essere Gabo: "C'era Macondo. Tutti inseguivano Macondo meno Gabo. L'America Latina è grande e io ero piccolo e indaffarato. Mi chiamavano il vagabondo dei Caraibi".

È ancora bello. La barba bianca, l'occhio salivoso ma vispo lo restituiscono come un Ulisse, la cui lunga astuzia lo ha portato a superare in marzo la soglia dei novant'anni. "Ora scricchiola il mio tempo", dice. "Anche perché non ci sono più inesorabili profondità da raggiungere. Saggezze da esibire. Sono stato audace e sconsiderato. Mi guardo intorno, qui nella mia camera tra le cose che ho raccolto, e sento che tutta la vita che ho percorso la rifarei interamente. Cazzate comprese. Posso offrirle un whisky?". Mentre parla accarezza un grande bicchiere: "C'è dentro un terzo di irlandese, il resto è ghiaccio e acqua. Un beverone che mi tira via la tristezza. E non ubriaca. Imparai a berlo da Orson Welles".

Lo ha conosciuto?
"Lo vidi in due occasioni. Una a Taormina. La prima volta a Madrid. In un bar. Era seduto al bancone e sorseggiava il suo beverone. Lo riconobbi. Imponente. Solitario. Non gli chiesi niente. E lui non disse nulla. Gli sedetti accanto. Studiai le sue mosse. Ascoltavo il gorgoglio del whisky scendere nell'enorme cavità della sua gola. Uno spettacolo di primitiva grandezza".

E lei che ci faceva a Madrid?
"Aspettavo l'arrivo del produttore per il mio film. Un western. Non c'erano soldi. Solo promesse e cambiali. Erano gli anni Sessanta. Ma potevano benissimo essere i Quaranta, i Trenta e giù giù fino alla mia data di nascita. Sempre lo stesso assillo di denaro".

Famiglia povera?
"Normale. Venivo da una grande famiglia contadina che dai campi del bergamasco si evolse verso la città. Mia nonna aveva generato 19 figli. Gliene restarono 10. Negli ultimi tempi era sempre a letto. La pelle era del colore blu: i capelli, il volto, le mani. Una gonfia nuvola di carne blu deposta sul letto. Il cuore, sfiancato dalle gravidanze, le aveva provocato quella tinta di morte".

Che effetto le faceva?
"Ero incuriosito. Dal suo corpo e dalla sua vita. Quando nacqui i nonni rilevarono un forno. La mia culla fu una cesta di pane. Dormivamo al piano superiore: una scala dal forno portava a un lungo corridoio. Ricordo i topi, i gatti e i sacchi di farina. Crebbi bene. Mio padre tecnico della Westinghouse mi fece fare un buon liceo classico a Bergamo. La città era stantia. Divorata dal perbenismo e dalla Chiesa. Ero insofferente alla divisa fascista e alle preghiere del parroco. Poi giunse il 25 luglio".

La caduta del fascismo.
"Sì e in seguito ci fu il ricostituirsi dell'esercito repubblichino. Dovevo scegliere da che parte stare".

E scelse?
"A 19 anni non avevo le idee chiare. Decisi per le montagne vicino a casa. Nella Valtellina. La fame fu il primo problema. Un gruppo armato di noi scese in paese e svaligiò una banca. Comprammo cibo. Ci sentivamo euforici. Poi rapinammo un industriale milanese. Lo minacciammo di dirci dov'era la cassaforte. Ma non c'era. Alla fine arraffammo quello che vedevamo".

Non dovevate combattere i tedeschi e i fascisti?
"Certo. Ma avevamo bisogno di vettovaglie, di armi. Poi, durante una spedizione, la mia brigata si trovò circondata in un bosco. Solo io e altri due riuscimmo a rompere l'accerchiamento. I fascisti uccisero o catturarono i compagni. A quel punto restai solo. Decisi di entrare nella banda di Angelo Del Bello. Anche lì finì male".

Che accadde?
"Nel frattempo la Resistenza si era organizzata con strutture politiche e militari. Partì l'ordine che non si sarebbero tollerati atti di indisciplina o di violenza gratuita. Del Bello rifiutò di obbedire. Il comando decise l'eliminazione della banda. Lo sorpresero in una piccola frazione con tre uomini. Vennero fucilati sul posto".

E lei dov'era?
"Con il resto della banda in un paese non lontano. Ci trovarono. Qualcuno non si arrese e cadde nel conflitto a fuoco. Gli altri, me compreso, furono fermati. Decisi di entrare nella nuova brigata. Peccato che il comandante era un cattolico fanatico. In quanto antifascista e ufficiale dell'esercito, il comando gli aveva assegnato la guida di una brigata. Ma era inadatto. Mandò molti di noi al macello. Dopo una missione decisi di non rientrare".

E andò dove?
"Mi nascosi. Il comandante mi condannò alla fucilazione per diserzione. Cominciò la caccia. Passai due mesi orribili. Braccato nei boschi. Non riuscirono a prendermi. Alla fine incontrai il mitico comandante Mino. Gli raccontai la mia storia e mi accolse nelle sue file. Venni a sapere che era la Brigata Camozzi legata a Giustizia e Libertà. Mino aveva messo su una squadra autonoma: i Cacciatori delle Alpi. Fu un momento esaltante".

Lei dà della Resistenza una versione molto dura, fuori dal mito.
"La Resistenza non è stata solo Bella ciao e gli uomini non furono solo degli eroi. Accaddero cose straordinarie. Di sacrificio estremo. Ma io ho voluto raccontare il mondo che sta sotto più che quello che sta sopra".

Poi arrivò la Liberazione. Cosa fece?
"Furono giorni memorabili. Ma subito dopo ci sentimmo spersi. Eravamo stati la legge. E poi più niente. Ci tolsero le armi. La grande allegria di libertà si spense a poco a poco. Lo Stato si riorganizzò nel nome della continuità. Tornarono i vecchi prefetti. Per cosa avevamo combattuto?"

Si sentiva uno sconfitto?
"Mi sentivo come uno che doveva ricominciare da capo. Vissi per qualche mese di espedienti. Terminai gli esami all'università. Diedi la tesi di laurea su Dino Campana. Ebbi come correlatore il filosofo Antonio Banfi. Tornai a Bergamo e insieme ad altri fondammo una rivista: La cittadella. I miei articoli furono notati da Elio Vittorini. Mi offrì di scrivere per il Politecnico. E mi propose un libro di racconti da pubblicare nella sua nuova collana: I Gettoni".

La fortuna stava girando?
"Avevo realizzato alcuni documentari tra cui uno che andò al Festival di Venezia. Pensai che il cinema potesse essere la mia strada. Tanto è vero che mollai il libro e informai Vittorini".

Come reagì?
"Malissimo. Si sentì tradito. Disse che il cinema era fatto di stronzate e che mi sarei pentito. Fu una predica insieme patetica e violenta".

Ma nel cinema come pensava di affermarsi?
"Avevo una lettera di presentazione per Luchino Visconti. Mi accolse con molto garbo. Disse che avrebbe girato un nuovo film. Aveva visto un mio documentario su Acitrezza e gli era piaciuto. Promise che mi avrebbe chiamato".

E invece?
"Il film La carrozza d'oro alla fine fu realizzato da Jean Renoir. Mi ritrovai a Roma senza una seria prospettiva professionale. Fu grazie a Ettore Giannini che divenni aiuto regista in Carosello napoletano, era il 1953. In seguito ho lavorato, sempre come aiuto, con Valerio Zurlini e Francesco Rosi. Con quest'ultimo feci La sfida e gli preparai le ambientazioni in Germania per I magliari . Tornai da Amburgo con una broncopolmonite. E divenni attore per caso".

Per caso?
"Sì, durante le riprese della Dolce vita Antonioni mi presentò a Fellini. Si appassionò alla mia storia e volle darmi una parte nel suo film. Lo stesso, in seguito, accadde con Pietro Germi e il suo Signori e signore. Non amavo recitare. Non sopportavo la noia. Intere giornate ad attendere per un ciack. Meglio stare dietro la macchina da presa".

Lei ha fatto in tutto tre film.
"Il primo fu un western oggi considerato un cult: Se sei vivo spara , vi rifusi in una specie di delirio barocco la mia esperienza di partigiano durante la Resistenza".

Perché non ha mai girato un film vero sulla Resistenza?
"Il produttore Franco Cristaldi me lo propose. Mi chiese se avevo letto Fenoglio. Conoscevo Primavera di bellezza, da cui qualche anno dopo sarebbe scaturito Il partigiano Johnny . Mi disse: so che stai scrivendo sulla Resistenza. Perché non vai a capire se possiamo ricavarci un film?".

E lei andò?
"Arrivai ad Alba. Ci incontrammo in trattoria. Avevamo storie molto simili alle spalle. Simpatizzammo. Disse che stava lavorando a un racconto: Una questione privata . Sulla tovaglia di carta buttammo giù una scaletta. Poi si fece tardi. Mi disse che doveva rientrare. Ci ripromettemmo di restare in contatto".

Che anno era?
"Era il 1960. Ci scambiammo alcune lettere. Poi non ebbi risposta. Passò qualche mese. Provai a cercarlo. Qualcuno della famiglia mi disse che si era ammalato. Morì di cancro nel febbraio del 1963. La notizia mi fece male. Quella notte compresi che se ero scrittore in parte almeno lo dovevo a lui".

Perché?
"Per la sua grandezza, per la forza che esprimeva e perché quello che poteva essere solo un fantasma  -  la sua esperienza partigiana  -  divenne una cosa viva, palpitante e anticonformista".

Mentre la sua di grandezza? È come se la sua vita sia un insieme di bellissimi capitoli incompiuti
"Forse la mia grandezza è nel non essere mai stato grande".

Per questo a un certo punto mollò tutto e si rifugiò in Sud America?
"Quella stagione durò un decennio. E tutto nacque in modo curioso. Volli raggiungere la compagna che amavo: un'insabbiata".

Una cosa?
"Un'insabbiata. Aveva lavorato come costumista per Queimada . Pontecorvo girò quasi tutto il film a Cartagena e, finite le riprese, lei decise di restare laggiù. La raggiunsi per amore. Ma la verità è che Carlo Ponti mi aveva cacciato. Ruppe il contratto che mi legava a lui, mi diede dei soldi con i quali, insieme a un socio, aprii uno studio a New York. Volevamo realizzare film a basso costo. Combinai ben poco. Facevo su e giù con i Caraibi. Vennero i giorni logori. Fu allora che decisi di passare un periodo tra gli indiani della Sierra Nevada, nel Nord della Colombia, sulla punta estrema delle Ande".

E che esperienza fu?
"Oserei definirla mistica. Gli indiani di quella popolazione sono convinti di essere i regolatori dell'universo. Quelli che donano al mondo l'armonia".

E Cartagena? Glielo chiedo perché il suo ultimo racconto ha come protagonista Gabo.
"Lo vidi diverse volte. Passammo alcuni giorni assieme alle isole del Rosario. Era un uomo fantastico: una testa piena di ciocche di capelli e un naso ribelle. Occhi meravigliosi. Due supervisori. Ci aveva condannati al carcere di Macondo. Tutti allora pensammo che Macondo fosse la libertà. Il luogo dove avremmo smaltito le nostre angosce. Ma non era vero. Esisteva solo nella sua fantasia. Fu il suo colpo di genio. Ma a noi restò solo il caos".




la sequenza

martedì 6 maggio 2014

Ritratto di Giorgio Gaslini

Il 13 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Giorgio Gaslini


Giorgio Gaslini: "Ho scoperto il paradiso del jazz nell'Africa da salotto di mio padre"

Il grande maestro racconta passioni, amici e colleghi illustri: "Avevo in più l'improvvisazione"
di ANTONIO GNOLI
QUANDO finiamo la nostra conversazione nel bar Cucchi non distante dal suo studio milanese, dove tutto è cominciato, davanti a un paio di panini e una spremuta d'arancia, il nostro musico illustra il "teorema Gaslini": la fortuna non è inversamente proporzionale alla sfiga (Lapalisse ringrazierebbe); la fortuna è direttamente proporzionale alla determinazione. Se vuoi avere successo devi pedalare, anche sull'acqua, dice ironico il Gaslini mentre si tocca la cravatta Hermès. Noto i gemelli ai polsini. Vistosi senza essere un pugno nell'occhio: sembrano due piccole noci multicolori. Un misto di corallo, giada e oro. Dice il Gaslini: "Acquistati all'aeroporto di Bangkok e messi in suo onore". Penso che scherzi. Non scherza. Penso che se non avesse fatto il musicista  -  ed è davvero un grande  -  sarebbe stato un mago della televendita. "Ci vuole determinazione ", ripete. Elenca: "Quattromila concerti, 80 paesi, tremila dischi. È la mia vita in numeri!". A 84 anni Gaslini è tra le più sorprendenti scatole dei ricordi che abbia aperto.

È un dono la memoria?
"Nel mio mestiere è importante. Ma non fondamentale. Tra i miei amici Luciano Berio aveva scarsa memoria. Non ricordava neppure le partiture scritte il giorno prima. Claudio Abbado invece aveva una capacità mnemonica pazzesca".

E la sua?
"La mia è di elefante. Certe volte penso sia più un peso che un sollievo. Certe volte mi dico: se passo il tempo a ricordare cosa mi resta del futuro?".

Cosa immagina che resti?
"Incorporare il proprio passato nella memoria è un'arte difficile. Quando diventa nostalgia, solo allora il futuro muore".

C'è un ricordo al quale non rinuncerebbe?
"Beh, sono tanti. Il più sgargiante: io bambino in casa, tra gli oggetti africani che mio padre collezionava".

E cosa ha di speciale?
"Quel mondo esotico e strano, capii in seguito, fu alla base della mia formazione".

Suo padre cosa faceva?
"Era un militare. Andò in Africa alla fine degli anni Dieci. E ne subì il fascino. Divenne addetto culturale in Eritrea. Per passione mise insieme un archivio di diecimila foto. Si improvvisò etnografo, scrisse libri. L'amore che non riuscì a condividere con mia madre lo ebbe per quel continente. L'Africa fu la sua puttana. Riempì la casa milanese di strumenti musicali strani, di statuette, di tessuti dai colori bellissimi, di scudi e lance di guerrieri".

E quello divenne il suo mondo?
"Furono i miei sogni di bambino. Immaginavo mio padre - che con mio fratello vedevamo pochissimo - come l'ideatore di un mondo favoloso".

E sua madre?
"Si erano separati. Questione dolorosa. Il tribunale ci affidò a lui. Nei momenti di sconforto ho chiesto aiuto alla musica".

Come è nato il rapporto con la musica?
"C'era un pianoforte verticale in casa. A sei anni mi venne il desiderio di studiarlo. È una cosa seria? Chiese mio padre. E il giorno dopo si presentò con un'insegnante".

Da che cosa nasceva quel desiderio?
"Toccando i tasti, la prima volta, sentii una vibrazione fortissima e, poco dopo, pensai che quello strumento mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Ciò che scopriamo del mondo è quello che abbiamo già dentro".

E cosa si porta dentro?
"Una forte volontà, una grande fantasia e una piccola verità".

Una piccola verità?
"Trasforma, se puoi, la confusione in un lieve paradiso di suoni".

E lei scoprì il paradiso con il jazz?
"Fu la mia rivelazione. Influì quell'Africa da "salotto" che mio padre aveva arredato. Poi, un giorno, comprai per caso un disco di Earl Hines, che era stato pianista di Armstrong. Già suonavo e ascoltandolo scoprii che il suo stile mi corrispondeva".

Cos'era quello stile?
"Lo chiamarono il trumpet style, Hines lo aveva mutuato dalla tromba di Armstrong. Rimasi impressionato, in Italia non si suonava niente del genere".

Dove viveva?
"A Milano. Suonavo con alcune orchestre e nei locali. Si era sparsa la voce che fossi bravo. E la cosa arrivò all'orecchio di Achille Scotti, un pianista cieco, ma strepitoso, che teneva tutti i sabati un concerto alla radio. Aveva rotto con il suo partner e ne cercava uno nuovo. Feci un'audizione. Alla quinta nota mi disse ok, il posto è tuo. Per un anno lavorai alla grande. Guadagnavo bene, cominciavo ad essere famoso nell'ambiente. La guerra era alle spalle e il paese aveva un gran voglia di ricominciare a vivere. Ma sentivo in me crescere l'insoddisfazione".

Perché?
"Non mi bastava quello che avevo. Il jazz era una bellissima esperienza. Al tempo stesso avvertivo il bisogno di qualcos'altro. E lo capii il giorno in cui mi arrivò una partitura di Stan Kenton. Semplicemente rivoluzionaria: staccava le sezioni come fossero in stereofonia. Venni a sapere che aveva preso lezione da Edgard Varèse, che da Parigi era emigrato negli Stati Uniti".

Cosa le suggerì quella circostanza?
"Mi fece capire che una risposta al mio malessere potevo cercarla nello studio. Interruppi i rapporti professionali. Mi dimenticai delle band, piantai tutto e mi iscrissi al conservatorio. Avevo vent'anni. Mi inserirono al quinto anno. Mi diplomai nel 1949. Tra i maestri ho avuto Antonino Votto, che fu braccio destro di Toscanini, Carlo Maria Giulini. Per due anni ho seguito le lezioni di armonia e contrappunto di Giulio Cesare Paribeni. Il mio compagno di studi era Claudio Abbado".

Che allievo era Abbado?
"Bravissimo. All'inizio sembrava che volesse dedicarsi al concertismo pianistico, poi virò decisamente sul- la direzione d'orchestra. Claudio veniva qualche volta a casa mia e credo che il suo primo interesse per il jazz lo ebbe grazie a me. Gli facevo ascoltare i miei vecchi amori e un giorno gli diedi un disco di Friedrich Gulda dicendogli: ecco un esempio di come la musica classica si sposa con il jazz. Dopo il diploma so che si perfezionò al piano proprio con Gulda".

C'era anche Berio?
"Con Luciano ci diplomammo lo stesso giorno. Il suo saggio mi sbalordì. Era un talento della composizione. Ma non credo che la sua direzione fosse all'altezza del suo genio compositivo. La sua fortuna la creò negli Stati Uniti".
do. E quel disco è stata la mia fortuna".

Perché lì?
"Fu Cathy Berberian il tramite. All'inizio, anche lei allieva al Conservatorio Verdi, cercava un pianista e Luciano si offrì. Poi si innamorarono e si misero insieme. Si sposarono. E si trasferirono in America. L'enorme talento vocale di Cathy fu una delle molle che consentì a Luciano di sviluppare la sua musica, che tra l'altro si avvalse del sostegno non indifferente di Luigi Dallapiccola".

Come erano quei personaggi che lei ha conosciuto da giovani?
"Caratterialmente differenti. Abbado era molto discreto. Berio impetuoso. Perfino prepotente. Piuttosto avaro, forse memore di un'infanzia poco agiata. Divenni molto amico di Niccolò Castiglioni. Era l'opposto di Berio. Invaso da una timidezza che una polio, contratta da piccolo, aveva trasformato in solitudine. Fu un uomo coltissimo e pieno di gusto. E solo oggi si scopre il talento della sua scrittura compositiva".

E lei in quel bel gruppo che ruolo si ritagliò?
"Possedevo una cosa che gli altri non avevano: l'improvvisazione. Non mi ero dimenticato del jazz, volevo arricchirlo con l'esperienza che stavo facendo nella musica contemporanea".

Che poi era la musica dodecafonica."Sì, ma senza farne un feticcio. Molti miei compagni di corso, negli anni Cinquanta, andarono a Darmstadt, per proseguire la loro preparazione. Improvvisamente tutto si radicalizzò".

Darmstadt era una cittadina tedesca dove dalla fine della guerra iniziarono i corsi estivi di musica contemporanea.
"Nacque lì la "nuova musica", e il nume tutelare di quella svolta fu Webern. C'erano le più grandi promesse della musica d'Avanguardia: Stockhausen, Boulez, Berio, Maderna. Quest'ultimo, tra gli italiani, fu il più grande".

E Luigi Nono?
"Ovviamente c'era anche lui. Oggi è un classico del Novecento che sublimò l'impegno politico e civile dentro forme nuove della sua ricerca musicale".

Quando dice "impegno" intende ideologia?
"La musica di Nono è stata di un rigore assoluto. Ma il fatto che egli la destinasse alla classe operaia, come a volte mi è sembrato di capire, dimostra che in quegli anni l'ideologia era più importante o altrettanto importante della creazione artistica. Ma lei se li immagina gli operai della Mirafiori davanti a un concerto di musica elettronica? ".

Perché non seguì i suoi compagni a Darmstadt?
"Perché nonostante tutto nella mia vita c'era ancora il jazz. La mia musica non vive di pregiudizi. È colta senza essere astrusa. Scrivo per chi ascolta, non per dieci addetti ai lavori. La musica nasce come un'arte coinvolgente e il jazz trasmetteva tutto questo. Ricordo la volta in cui Duke Ellington suonò con la sua orchestra al Lirico di Milano. Alla fine del concerto Herbert von Karajan bussò al camerino di Duke. Era l'omaggio non solo a una personalità immensa ma anche al mondo del jazz".

Però non ha disdegnato la cosiddetta "musica totale".
"Non era in contraddizione. Nel 1957, suggestionato dalle lezioni di Enzo Paci sulla fenomenologia, scrissi: Tempo e relazione. Mi sia frutto le mie competenze nel contemporaneo".

In che modo aveva conosciuto Paci?
"Insegnava all'università di Milano, era un grande studioso di Husserl. A quel tempo avevo letto alcuni testi del filosofo tedesco senza capirci un accidente. E fu così che frequentai il corso di Paci. Mi si dischiuse un mondo. E quel disco è stata la mia fortuna".

Perché?
"La vita a volte è curiosa. Lavoravo alla casa discografica "La Voce del Padrone", un giorno venne Nicola Arigliano nella mia stanza: ti presento un grande attore, disse. E fece entrare Marcello Mastroianni. Bellissimo. Timido. Perfino impacciato. Conversammo e alla fine gli regalai il disco che era appena uscito e che era sul mio tavolo. Lui ringraziò. Io avvertii: guardi è musica d'avanguardia. E lui con un sorriso: siamo stati tutti avanguardisti".

Poi che accadde?
"Qualche tempo dopo ricevetti una telefonata da Michelangelo Antonioni. Stava girando La notte e cercava qualcuno che gli scrivesse la musica. Marcello gli aveva passato il mio disco. Gli era piaciuto. Mi convocò per le nove di sera. Direttamente sul set. All'aperto. Voleva che con il mio quartetto suonassi nel giardino. Mi disse semplicemente: lei deve farmi un pezzo così. Così come? Gli chiesi. Così, e se ne andò. Marcello insieme a Monica Vitti e a Jean Moreau, ridevano. Hai capito? Lo devi fare così".

E lo fece così come?
"Come mi poteva venire seguendo l'estro dell'improvvisazione. Non sapevo che quel film sarebbe stato un capolavoro e che la mia musica avrebbe vinto il Nastro d'Argento".

Le si aprì anche una carriera di compositore per il cinema.
"Ho composto musiche per 42 film".

Anche quella celebre per Profondo rosso di Dario Argento.
"Fu un'impresa lavorare con Dario Argento. Anche se prima di Profondo rosso avevo fatto con lui quattro telefilm e Le cinque giornate".

Perché fu un'impresa lavorare con lui?
"Perché era indiscutibilmente bravo, ma anche nevrotico".

Con Antonioni non ha più lavorato?
"No. Era un uomo misterioso. Remoto. Non si congratulò neppure per il mio Nastro d'Argento. Lo rincontrai vent'anni dopo in un aeroporto. Vidi un signore alto ed elegante spingere un carrello. Maestro! Esclamai. Lui si voltò. Ah è lei Gaslini. Mi afferrò un braccio e disse: che bella musica ha scritto per La notte. E se ne andò".

Lo ha più rivisto?
"Fui invitato per la festa dei suoi novant'anni. C'era tanta gente. Era venuto perfino Rostropovich. Antonioni era su una sedia a rotelle. Senza più la parola. Mi avvicinai. Nella confusione generale sembrava una statua. Gli dissi qualche parola affettuosa. Sfiorandogli le mani. Mi rispose, o così a me sembrò, con il semplice movimento

Non sembra facile alla commozione. Ma avverto un'incrinatura nella voce.
"È stato un grande artista. E la vita ha voluto che lo incontrassi. Probabilmente senza di lui non avrei mai intrapreso la parte di carriera che ha riguardato il cinema".

Chi è Gaslini oggi?
"Un signore anziano. Pienamente autonomo. Che dipinge e compone. Viaggio molto meno. Sono fiero di quello che ho realizzato. Orgoglioso di aver fatto inserire una cattedra di jazz nei maggiori conservatori italiani. E soprattutto di aver tolto al jazz quella patina di maledettismo che l'ha spesso ricoperto. Dimenticando che i suoni vengono prima delle persone".




giorgio gaslini quartet - blues all'alba from Michelangelo Antonioni's La Notte (1961)
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Giorgio Gaslini dell'84 a Domenica IN
by Arcangelo Carrera

lunedì 14 aprile 2014

Ritratto di Eugenio Scalfari

Il 6 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli per festeggiare i 90 anni
di Eugenio Scalfari



"Fra tutti gli animali l'uomo è il solo 

che conosce l'invecchiamento 
e scoprendo la morte fa di tutto per allontanarla, 
attraverso il ricordo"





Scalfari: "Ho inseguito l'ideale di perfezione, ma la verità è che danziamo sul caos"

Il fondatore di "Repubblica" compie oggi novant'anni. Ci confessa ricordi, paure, desideri. E affronta nuove sfide intellettuali
di ANTONIO GNOLI
I dati anagrafici sono la sola cosa che non possiamo travisare: "Sono nato il 6 aprile del 1924". Oggi compie novant'anni. Ragguardevole età che Eugenio Scalfari soppesa con affetto e disincanto: "Non c'è modo di chiedersi quanto tempo ci resta. Bisogna vivere come se fosse sempre l'ultimo giorno pieno", aggiunge. Osservo le mani venate di azzurro e l'ampia poltrona che avvolge il corpo magro. La mansarda dove sostiamo, all'ultimo piano di un attico non distante dal Pantheon, è carica di libri. È un pomeriggio romano. Lieve. Che si smorza nel sole barocco: "Vorrei che tu vedessi la terrazza. Le città osservate dall'alto sono come gli amori visti da lontano, hanno meno difetti". Mi viene da pensare che in quelle parole si nasconda un lato romantico. Una moltitudine di emozioni. Mi sorprende l'energia. E la pienezza dei giorni di cui parla: "Vivono di una densità diversa rispetto al passato e sono trafitti da pensieri ulteriori", precisa, con un velo di sorriso.

LO SPECIALE I 90 anni di Eugenio Scalfari

Quali pensieri?
"Intorno alle condizioni del tuo corpo. Lentezza, fragilità e quella sensazione che il tempo non lavori più a tuo favore".

Ma non necessariamente contro.
"No, infatti. Siamo animali simbolici e desideranti: costruiamo mondi, relazioni. Viviamo di immaginazione e di futuro. Ma c'è sempre un limite: un segno ineludibile. Un calcio in faccia alla realtà. Ho letto, da qualche parte, che l'esistenza della morte ci obbliga a non essere perfetti".

Hai mai teso alla perfezione?

"È un'ideale. O almeno così per lungo tempo l'ho pensata. La verità è che danziamo dentro il caos".

Cercando un senso e un ordine?
"Cercando, certo. Ma dubito che la perfezione sia di questo mondo".

Le tue incursioni nel cristianesimo e nella fede farebbero pensare a un bisogno di chiarezza ulteriore.

"Fa parte del bagaglio di un buon laico interrogarsi sulle grandi questioni che sono teologiche ma anche filosofiche. Resto un non credente".

E questo papa?
"Questo papa cosa?".

Così diverso.
"È la Chiesa che ti sorprende".

Monarchia seria.
"Le istituzioni vere, forti, collaudate sanno forse reagire meglio alla crisi dei tempi".

Cosa ti sorprende?
"L'assoluta singolarità. Sembra un uomo estraneo a ogni gesto ieratico".

Ed è un bene?
"La forma è importante. Ma lui ha ridato sostanza al gesto. Con semplicità. Qualche tempo fa ero ricoverato per una polmonite. Verso la fine della mia degenza mi annunciano una sua telefonata: c'è il papa in linea, mi dice l'infermiera. Non so come l'abbia saputo. Prendo la chiamata. Mi chiede: come sta? Rispondo: molto meglio. Lei non ha risposto, replica. Avverte dolori? Ha la tosse? Come si sente? No, no, sto bene, dico io, apprensivo. Allora auguri. E mette giù il telefono".

Sbrigativo ma efficace.
"È la naturalezza della sua parola e del comportamento che mi colpiscono. Insieme alla dolcezza e alla partecipazione all'altro".

È stato così con qualche altro papa?
"Non ne ho conosciuti molti. Ma li ho criticati quasi tutti. In particolare Pio XII. Ora che mi ci fai pensare ricordo un'udienza pubblica cui fui ammesso con mia madre. Avevo quattordici anni. Poco dopo ci saremmo trasferiti da Roma a Sanremo".

Che anno era?

"Il 1938. Mio padre fu chiamato a dirigere il Casinò della città. Era avvocato. Ma gli piacevano le donne e un po' le carte. Io fui iscritto al liceo Cassini. Arrivando dal Mamiani temevo che non mi sarei adattato facilmente".

Alludi a un certo provincialismo.
"I piccoli centri sono così. Mi avevano soprannominato "Napoli". Agli occhi della classe incarnavo il meridionale. Tra l'altro non ero mai stato a Napoli".

Una forma di razzismo?
"Blando, goliardico. Ma anche fastidioso. Smisero alla fine del primo trimestre. Nel frattempo si era formato un gruppo di studenti animato dagli stessi interessi culturali. Nella classe c'era Italo Calvino. Diventammo compagni di banco. Entrambi ci mettemmo a capo di questo gruppo. Ne sollecitammo gli aspetti più originali, le curiosità più riposte, le letture meno convenzionali. Italo disse che tutto quello che ci stava capitando accadeva nel nome di Atena, la dea dell'intelligenza e della Polis".

Il mondo greco contro quello romano vagheggiato dal fascismo?
"Eravamo studenti e non c'era un contrasto così netto. Ma ci sembrava di aver costruito una cultura parallela e autonoma rispetto a quella sviluppata dal fascismo".

Ma tu eri fascista?
"Convinto, e quando nell'inverno del 1943 il vicesegretario del partito Carlo Sforza mi cacciò dai Guf caddi, per alcuni giorni, in una specie di depressione".

Non riesco a immaginarti affranto.
"Era accaduto tutto in un attimo. Sforza mi contestò violentemente alcuni articoli che avevo scritto per Roma fascista. Mi strappò le mostrine e mentre mi sollevava da terra tenendomi per il bavero della divisa gli guardavo atterrito i polsi delle mani: tanto grandi da sembrare le cosce di un uomo. Ad ogni modo fu così che cominciai a rendermi conto che un'altra società era possibile. E che gli anni del liceo e le amicizie strette allora non erano passati invano".

Come spieghi quel mondo parallelo di interessi e letture che poco avevano a che fare con il fascismo?

"Negli ultimi anni in cui ho diretto Repubblica e in quelli successivi ho molto intensificato la mia ricerca letteraria, filosofica e religiosa. All'inizio qualcuno si sorprendeva di questi miei interessi in un certo senso lontani dal giornalismo. Dimenticando così che le mie prime letture furono ampiamente letterarie e filosofiche. Ricordo la mia prima lettura al liceo: Il discorso sul metodo di Cartesio. La chiarezza espositiva del testo, unita all'idea che il pensiero ha bisogno di regole, mi formò nel profondo. Tanto è vero che il mio approdo successivo all'Illuminismo non sarebbe stato così convinto senza Cartesio".

In questi anni il tuo entusiasmo per il secolo dei Lumi si è un po' raffreddato. Hai spinto in primo piano figure come Montaigne che relativizza la ragione, o come Nietzsche che la distrugge. Sei giunto alla conclusione che il mondo non era solo progresso e felicità?
"Sai, non è che gli illuministi, a parte qualche incallito materialista, fossero tutti beatamente rivolti alle sorti progressive della ragione. Diderot era ben conscio delle trasformazioni e della crisi del proprio secolo. E lo stesso Voltaire non fu da meno. Per non parlare della sensibilità protoromantica di Rousseau".

Insomma non fu solo il secolo dell'ottimismo?
"È così. Poi, sai, nell'intraprendere il lungo viaggio nella modernità, ero consapevole che il quadro mentale che si delinea da Montaigne in poi è mosso, frastagliato, insidioso e perfino contraddittorio. Accennavi a Nietzsche. Non mi sento nicciano. Ma so anche che se vuoi occuparti di filosofia - ossia di una delle forme supreme dei modi del pensare - non puoi prescinderne".

In che senso?
"Con lui si conclude la lunga epoca della modernità. Non è un fatto trascurabile. Mi colpiva che Nietzsche - nei primi giorni della sua follia, quando gli amici lo andavano a trovare a Torino - avesse accanto al letto gli Essais di Montaigne. Cioè la riflessione con cui ha inizio il viaggio nella modernità".

Perché sostieni che quel viaggio si conclude con Nietzsche?
"Perché dopo di lui non si può più pensare e scrivere di filosofia in modo sistematico. Non esiste più un centro da cui si irradia tutto il resto. La perdita della centralità dell'uomo comporta l'infinita moltiplicazione dei centri".

Quindi ciascuno diventa centrale a se stesso?
"Gottfried Benn - che fu un ufficiale medico ma soprattutto un saggista di talento - fa un'osservazione interessante: ho capito perché Nietzsche scrive per aforismi. Chi non vede più connessione può procedere solo per episodi. E noi, aggiungo io, presi singolarmente siamo degli episodi. Io sono il centro della mia periferia che è, a sua volta, la mia circonferenza. Nietzsche comprese che i grandi sistemi filosofici erano tramontati".

Tutto questo non crea smarrimento?
"Cambia il quadro mentale, si modificano i punti di riferimento. Non puoi più oggi metterti a scrivere Il discorso sul metodo come fece Cartesio. Sarebbe ridicolo".

Devi mettere in gioco te stesso?
"Devi farlo: ogni riflessione che riguarda il mondo ti interpella in prima persona. E non solo perché Freud ha scoperto l'inconscio, ma perché la vita - la tua vita e quella degli altri - si è letteralmente scomposta. Lo capì benissimo Rilke quando scrisse il primo grande romanzo dell'ultima modernità: I quaderni di Malte Laurids Brigge".

Un romanzo sovrastato dall'idea della morte e del ricordo.

"Fra tutti gli animali l'uomo è il solo che conosce l'invecchiamento e scoprendo la morte fa di tutto per allontanarla, attraverso il ricordo".

Lasciare di sé una traccia?
"Per questo leggiamo Omero da tremila anni e Shakespeare da cinquecento. Ma anche il ciabattino del vicolo accanto vuole fare delle belle scarpe, non solo per lasciar prosperare la sua bottega ma perché così forse sarà ricordato".

È un trauma così forte essere dimenticati?

"In qualunque forma si presenti non amiamo l'abbandono. L'oblio esiste. E la traccia serve a combatterlo, a rinviarlo. Quello che abbiamo fatto di importante desideriamo che resti".

Sei molto narciso?
"L'ho anche scritto".

E vanitoso?
"È un sentimento che mi infastidisce. I nostri tempi sono dominati dalla vanità, come trastullo infantile. Ma essa è anche la forma più ridicola dell'ambizione. Che invece, entro certi limiti, è un tratto sano e importante del carattere".

Importante per il successo?

"Più che per il successo tout court, per il modo in cui lo persegui e lo ottieni. E soprattutto in vista di cosa".

Il potere ha bisogno della saggezza?

"Senza un po' di saggezza si finisce dritti nella tragedia scespiriana".

E il tuo potere come lo giudichi?
"Noto in me una forte componente "paterna". Capisco che la definizione è insolita. Ma credo mi corrisponda. Del resto, è il tratto del narciso: consapevole che solo amando gli altri può essere a sua volta amato".

La tua vita è stata governata dal "due"?
"Che cosa intendi?".

È un numero che ricorre spesso: due sono i giornali che hai fondato e diretto, due figlie, due mogli, due le grandi esperienze culturali che hai condotto. Mi fermo qui.

"Molte delle cose che elenchi sono legate al caso. Però è vero, sento che un "doppio" c'è in me. Mi piace immaginarlo legato ai desideri. Essi misurano la mia vitalità".

Ma anche le tue contraddizioni?
"Indubbiamente. Si può desiderare il bene del prossimo e avere cupidigia di potere, di femmine, di ricchezza. Non è il mio caso per fortuna".

E i tuoi desideri come sono?
"I desideri sono la sola cosa che la vecchiaia non ridimensiona. Per quanto mi riguarda sono stato un uomo plurimo e i miei desideri notevoli e spesso contraddittori. Ho dovuto conciliarli tra dolori e felicità".

Il desiderio allontana la morte?

"Per il fatto stesso di impegnare il futuro l'allontana. Ma anche quello che realizzi ti distanzia da essa".

È la società con i suoi meccanismi celebrativi?

"La festa e i riconoscimenti appartengono alla nostra antropologia. Perfino i miei novant'anni non sfuggono a questo impianto".

Non temi la monumentalizzazione?
"Dici l'eccesso di retorica?".

Sì.
"Certe cose mi imbarazzano e la pomposità, francamente, non mi piace. Ma non vorrei neppure che tutto si risolva in una malinconica ballata. Se è vero che uno dei modi per esorcizzare la morte è, come ti dicevo, nella traccia che lasci, questa la trovi anche quando si celebra un anno tondo e importante come i novanta".

Ti fa paura la morte?
"No, temo la sofferenza. Ma so che la morte è il nostro orizzonte. Ogni vera storia umana dovrebbe cominciare da qui, dalla fine".

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Ritratto di  Luciana Castellina


lunedì 7 aprile 2014

James Ellroy

Il 05 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Sabrina Champenois
a James Ellroy




James Ellroy: "Chiedetemi
se sono felice"

La politica, l'alcol, gli scandali. Intervista all'autore di una nuova "Tetralogia di Los Angeles"
di SABRINA CHAMPENOIS

Con Perfidia, primo volume di una nuova Tetralogia di Los Angeles, lo scrittore americano torna a immergersi nella storia degli Stati Uniti. L'occasione si è presentata il weekend scorso al decimo festival "Quaisdupolar" di Lione, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di due capitoli del suo prossimo libro, Perfidia. Il teaser assolve perfettamente il suo compito: questa quarantina di pagine, che si apre con il 6 dicembre 1941 e una serie di violenze carnali nei quartieri ovest di Los Angeles e si conclude con l'omicidio o il suicidio di una famiglia nella comunità giapponese, dà l'idea di un Ellroy più affilato di una spada.

"Sono riversi sulla schiena. Sbudellati. Completamente sventrati. Gli intestini fuoriescono loro dall'addome e si spargono sul pavimento. Sono gli uni accanto agli altri, tutti e quattro: padre, madre, figlia, figlio. Si direbbe che sono stati disposti in questo ordine. Accanto a ciascuno di loro c'è una sciabola insanguinata". Il poliziotto in prima linea è Dudley Smith, personaggio emblematico del Dipartimento di polizia di Los Angeles e dell'opera di Ellroy.

Le piace questa campagna promozionale, non è così?
"Sì, mi piace soprattutto incontrare i miei lettori. Le interviste possono innervosirmi. Proprio adesso, per esempio, me la sono presa con un giornalista. Ho avuto l'impressione che mi mancasse di rispetto. Beh, la mia ex moglie Helen Knode, la mia più cara amica, anche lei scrittrice, mi ha detto: "Resta calmo e rifiutati di parlare di politica"".

E lei obbedisce?
"Certo! Perché, fosse per me, io amerei la bagarre. In effetti non serve a niente. La politica non ha niente a che vedere con questo libro".

Lei però dice che ormai è diventato un romanziere storico. Ebbene, la storia non nasce forse dalla politica?
"A me va benissimo parlare di politica ai tempi della Seconda guerra mondiale. Ma non di politica contemporanea ".

Lei vota?
"Sì". ( Fa lo sguardo da "non-mi chieda per chi", grrr...)

Ci parli di Perfidia, il primo tassello della sua nuova Tetralogia di Los Angeles.
( Di nuovo rilassato) "È ambientata a Los Angeles e riprende alcuni personaggi della prima, ma negli anni della Seconda guerra mondiale. Voglio che questi undici libri costituiscano alla fine la realizzazione di una storia popolare dell'America. Si tratta anche di amplificarne l'effetto sui miei lettori, nel momento in cui mi trovo nella terza fase della mia vita".

Come fa ogni volta a riprendere i contatti con i suoi personaggi? Come si ritrova?
"I libri sono incisi nella mia memoria e a me piacciono le epopee. I libri epici, i film epici, la musica sinfonica... Mi piace la sfida di creare qualcosa di immenso. Sapendo che l'ho creato, anni fa, so che se posso immaginare qualcosa allora posso crearlo. Perfidiaè un libro voluminoso, di 650 pagine, che uscirà in inglese questo autunno. Evoca un episodio molto noto negli Stati Uniti e soprattutto a Los Angeles. Questo grande porto conteneva una notevole comunità di giapponesi d'origine o di americani di origine giapponese. All'improvviso, la città è stata considerata un luogo molto propizio al sabotaggio e molti sono stati internati, senza alcuna certezza che fossero colpevoli. Si è trattato di un caso di isteria dovuta alla guerra, mescolata all'isteria razziale".

Ha dunque intenzione di rendere giustizia?
"No. Non ho alcuna motivazione morale per farlo, si tratta soltanto di una parte della storia di Los Angeles. Fu un errore, e voglio spiegarlo. Voglio spiegare l'atmosfera dell'epoca, il clima avvelenato".

Sarebbe una cantonata considerarla un inconsolabile, un idealista deluso?
"Io sono un grande idealista. Ma inconsolabile no. Sono un uomo felice. Felicissimo".

Non è in collera con l'America?
"Ah, no! Provo simpatia per gli Stati Uniti e penso che siano una forza del bene. Ma penso anche che ci sono state alcune menzogne. Mi rende felice scrivere, perfino scrivere di menzogne. Non sono di certo un giustiziere!".

Dato che lei utilizza spesso termini in slang, come "negri", "gialli", "mori" alcuni giungono alla conclusione che lei è un bianco razzista e suprematista. Che cosa risponde?
"Niente. Io non rispondo a questo genere di domande. Che la gente pensi pure quello che vuole. I miei personaggi sono profondamente americani e America ha sempre fatto rima con diversità. La diversità non è una questione di colore della pelle, di orientamento sessuale, di origine etnica. È una questione di volontà individuale, di idee nelle quali si crede, di come si ha un'influenza diretta sul corso delle cose".

Scrivere è ancora piacevole per lei?
"Lo è sempre di più. Perché sono nel periodo creativo più fecondo della mia vita".

Ha forse intenzione di scrivere il suo nome nella Storia?
"Voglio riscrivere e ricreare la storia umana segreta della storia degli Stati Uniti, della storia di Los Angeles, e racchiudere le storie personali negli eventi pubblici, fondere i due".

La scrittura è per lei una cappella nella quale rifugiarsi? È l'unica?
"Sono cristiano, credente e praticante".

Perché?
"Basta. Fermiamoci qui, se non le spiace".

L'estratto di Perfidia è preceduto da Extorsion, romanzo breve su Freddy Otash, la star del giornale scandalistico Confidential. Le piace Otash?
"Ah no! Otash è divertente, attraente, ma è un essere umano crudele. Divulga i segreti della gente per arrecarle danno. Niente è più personale, intimo, e rivelatore della vera natura delle persone della sessualità, e io sono un voyeur, un guardone, mi piacciono i segreti, il fango, la merda. Ma non li utilizzerei mai per ferire ".

Lei è stato un alcolizzato e un tossicomane. Come ne è uscito, con la scrittura?
"No, grazie a Dio. Dio è entrato nella mia vita, e io sono tornato 'pulito'. La scrittura è venuta dopo".

Segue la cronaca?
"Me ne parlano gli amici. E poi spalanco gli occhi e le orecchie, e questo mi basta per supplire alle mie lacune. Stiamo vivendo una crisi spirituale profonda, la gente ormai è alla ricerca dell'istante, non dell'eternità, e prova il bisogno di riempirsi ad libitum di informazioni, di immagini... Non è neanche più capace, quando è in automobile, di fermarsi al semaforo rosso e di aspettare con pazienza, senza fare nulla, standosene semplicemente lì... Tutti sono assorbiti e immersi nei loro cellulari, i loro tablet. È pazzesco! Mi è capitato più volte che ci mancasse un pelo a essere travolto. Io ho bisogno di tempo per rimuginare. Rimugino molto. Sono un perverso. Sono un voyeur. Sono uno sciacaaaallo! Lo dico in riferimento a Lo sciacallo, illibro di Frederick Forsyth sull'attentato di Petit-Clermand, che di recente ho riletto... De Gaulle, l'Oas, l'Algeria, i parà, e lo sciacallo: questo genere di cose fa di un libro un buon libro ".



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