martedì 11 novembre 2014

Ritratto di Mario Andreose

Il 22 settembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Mario Andreose


Andreose: "Il mondo dell'editoria sta sparendo
salviamo ciò che abbiamo imparato"

Gli inizi da correttore di bozze, la gavetta e la direzione dei gruppi più importanti Il rapporto con Moravia, Mondadori e Umberto Eco. I ricordi "e qualche rimpianto" di un uomo del libro
di ANTONIO GNOLI

NEL mondo editoriale, Mario Andreose, ottant'anni compiuti da poco, appare come un'eccezione. È ancora sulla breccia, come usa dire. Lavora per la Bompiani, segue come un'ombra tutto ciò che fa Umberto Eco. Ed Eco non fa nulla senza la presenza di quest'ombra. Discreta, rarefatta, impalpabile. Frutto di un'inclinazione che ha portato Andreose ad essere sempre un passo dietro le luci della ribalta: "Ho lasciato il protagonismo fuori dalla mia vita. Faccio questo mestiere da troppo tempo  -  direi da sessant'anni  - 
per non sapere che il mondo si divide anche tra chi accende e spegne le luci e chi è destinato a stare sotto le lampadine. Ho cominciato come correttore di bozze. Sono salito fino ai vertici di diverse e importanti case editrici. Quel mondo, per come l'ho conosciuto io, sta sparendo. Non mi sorprendo e non mi metto ansia. Dico solo, proviamo a continuare a fare bene quello che abbiamo imparato. Con rigore e possibilmente senza sbraco. Ci vuole coerenza, anche con le proprie origini".

Le sue quali sono?
"Sono nato a Venezia dove ho vissuto fino a quando ormai ragazzo cresciuto decisi di trasferirmi a Milano. Pensavo al giornalismo, a Baldacci che dirigeva il Giorno , ma la mia vita prese tutt'altra direzione".

Cosa ricorda della Venezia che ha lasciato?
"La città buia e fredda della guerra. La gente andava in chiesa per proteggersi dai bombardamenti. Mi piacevano le chiese. Amavo la liturgia latina. Nella Chiesa dei Gesuati provai per la prima volta una specie di stordimento davanti a un affresco del Tiepolo. La stessa emozione credo di averla avvertita qualche anno dopo incrociando Jackson Pollock".

Dove lo vide?
"Usciva dalla casa di Peggy Guggenheim. Passavo lì per caso. Ero stato qualche giorno prima alla Biennale, la prima dopo la fine della guerra, dove la Guggenheim aveva esposto alcuni suoi capolavori. Tra cui dei Pollock. Era il 1948. Nessuno conosceva l'artista giunto per la prima volta in Europa. I suoi dipinti mi avevano turbato".

Era lontano dallo stile del Tiepolo.
"Agli occhi di un quattordicenne quell'esplosione di macchie e di colori faceva pensare alla nascita dell'universo: al caos prima della forma. Forse, se Tiepolo fosse nato due secoli dopo, avrebbe dipinto come Pollock. Chissà. Comunque lo seguii. Girovagò per le calli e io dietro. Poi si fermò a un bar. Si accomodò all'aperto. Ordinò da bere. Mi sedetti accanto senza avere il coraggio di dire nulla. Guardavo quell'uomo che fissava il bicchiere. Una figura silenziosa. Triste. Invisibile. Poi, si dileguò".

Invisibile come lei.
"No. Non esattamente. Era, come dire?, intoccabile. La mia invisibilità è una forma di discrezione che credo di avere appreso in contrasto con certi riti familiari, al quanto deprimenti".

Sta alludendo ai suoi genitori?
"Sì. È da lì che si parte sempre. Con loro c'è stato affetto. Del resto, i tempi della guerra e del dopoguerra furono difficili. Ma non ci fu mai dialogo. È come se i livelli mentali non corrispondessero. La mamma era spesso malata e mio padre, che aveva una panetteria, amava il bicchiere. Beveva sia per festeggiare, sia per scacciare un dolore. Quel clima mi diede la forza di andarmene".

Quando giunse a Milano?
"Alla fine degli anni Cinquanta. Cominciai a frequentare il bar Jamaica. Non avevo velleità artistiche. Per me quel luogo era un'agenzia di collocamento. Venni a sapere che in una casa editrice appena nata cercavano un correttore di bozze. Era Il Saggiatore. L'aveva creata Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo. Nel giro di poco tempo passai a svolgere le mansioni di redattore e poi di capo redattore".

Con chi lavorava?
"Il direttore letterario era Giacomo De Benedetti. Non può immaginare la fertilità mentale di quest'uomo che l'università aveva maltrattato".

Allude alla sua emarginazione?
"Proprio a quella. Uno studioso di prim'ordine, geniale, che soffrì nel vedersi preferire altri alla cattedra di letteratura italiana. Alla fine penso che fu la sua salvezza".

Che tipo era?
"Una persona fragile. Ricordo l'ansia che gli procurava il fatto di dover mediare tra i due gruppi che si erano formati nella casa editrice. Da un lato, c'erano i milanesi legati a Banfi, tra cui spiccavano Enzo Paci e Dino Formaggio. Dall'altro, il gruppo romano con Argan, Fedele d'Amico e Ernesto De Martino".

Si stabilì una rivalità dovuta cosa?
"Impostazioni culturali differenti. A Roma prevaleva l'ispirazione crociana. Mentre Paci  -  che tra l'altro soffriva molto la direzione di De Benedetti  -  si ispirava a Husserl e alla fenomenologia. In quel periodo De Benedetti cominciò ad andare in analisi da Ernst Bernhard".

Lo psicoanalista junghiano.
"Sì, un personaggio pittoresco e geniale della Roma degli anni Sessanta".

Pittoresco perché?
"Credeva nell'astrologia e nei tarocchi. Arrivò perfino a leggere la mano. Da lui sono andati personaggi famosi, come Fellini, e il suo prestigio, dovuto al fatto di essere stato tra gli allievi prediletti di Jung, non fu mai intaccato. Devo dire che il Saggiatore fu la prima casa editrice che aprì seriamente al pensiero junghiano".

Ma anche alle scienze sociali, alla filosofia, all'antropologia.
"Fu una straordinaria esibizione di svecchiamento culturale. In parte determinato, secondo me, da una delle ricorrenti crisi finanziarie nelle quali incappò l'Einaudi".

Parliamo di che anni?
"Primi anni Sessanta. All'Einaudi era segretario generale Luciano Foà. Straordinaria figura culturale legata a Bobi Bazlen".

E cosa accade?
"La linea culturale della casa editrice entrò in conflitto con le nuove esigenze. Foà voleva intraprendere l'edizione critica delle opere di Nietzsche. Ma le resistenze furono enormi. E non se ne fece nulla. Quando poi subentrò la crisi economica Foà decise di vendere qualche "gioiello di famiglia"".

Quali?
"Alcuni molto preziosi. Noi del Saggiatore prendemmo tra l'altro due titoli che avrebbero fatto un po' la storia della nostra casa editrice: Tristi tropici di Lévi Strauss e Il secondo sesso. Per il libro della de Beauvoir qualcuno in casa editrice storse il naso. Dissi: ma siamo matti? Abbiamo un testo straordinario tra le mani e vogliamo farcelo scappare? Alla fine decisi che l'avrei tradotto io e così fu".

E per il resto?
"Einaudi cedette i diritti di Addio alle armi, con cui Mondadori inaugurò la collana degli Oscar. Quanto a Foà lasciò l'Einaudi e diede vita con Bazlen e Calasso all'Adelphi". Alla fine la storia culturale di questo paese passa sempre dall'Einaudi.
"E infatti tutti avrebbero voluto lavorare in quella casa editrice".

È possibile un confronto tra Giulio Einaudi e Alberto Mondadori?
"Il loro peso è stato diverso. Come pure il carattere. A me Einaudi faceva pensare al padrone capriccioso. Così trattava i suoi dipendenti. Alberto sembrava più un principe rinascimentale. Generoso, in qualche modo distaccato. Ma senza essere altezzoso come l'altro. Però entrambi hanno mietuto le loro vittime".

A questo proposito Sebastiano Vassalli nello "straparlando" della scorsa settimana ha dichiarato che Pavese si suicidò probabilmente a causa di un litigio con Giulio Einaudi. Cosa ne pensa?
"Non so nulla di quel litigio. Mentre so delle delusioni d'amore di Pavese. Però una cosa è certa: Einaudi trattava Pavese come fosse un impiegato qualunque. Una volta si infuriò perché aveva usato il suo bagno privato".

Retaggi aristocratici.
"Non solo. Quando Pavese vinse il Premio Strega, la somma di un milione la incassò, per contratto, la casa editrice. Naturalmente non furono quelle meschinerie ad appannare il ruolo fondamentale che Pavese ebbe per quella casa editrice. Quanto a me restai undici anni al Saggiatore".

Perché andò via?
"Era la fine degli anni Sessanta, il mondo stava cambiando. Mi ritrovai nel bel mezzo di una crisi finanziaria. Arnoldo, papà di Alberto Mondadori, aveva detto chiaramente che non sopportava più le perdite del figlio. Nel frattempo Mario Formenton, a capo della Mondadori, mi chiese se volevo occuparmi delle coedizioni. Accettai e per otto anni ho lavorato a contatto con i grandi gruppi internazionali. Facevo soprattutto libri d'arte".

E dopo quell'esperienza?
"Un giorno mi telefonò Erich Linder, il più grande agente letterario che l'Italia abbia mai avuto. Lui stava all'editoria come Enrico Cuccia alla finanza. Mi disse che c'erano movimenti proprietari nel Gruppo Fabbri e all'Etas Kompass e mi chiese se ero interessato alla carica di direttore editoriale. Quella decisione nel 1982 mi avrebbe condotto alla Bompiani".

Il suo fondatore, Valentino Bompiani, non c'era più?
"Aveva venduto dieci anni prima. La Bompiani era la grande malata dell'editoria. Oreste Del Buono, editor per un certo periodo, mi disse: sai Mario qui il direttore editoriale ha la funzione di preparare il programma al suo successore".

Intendeva dire che non duravano a lungo?
"Esattamente. Tanto è vero che chiesi a Linder cosa ne pensava. E lui con il consueto cinismo rispose: si vede che la vogliono far fuori. Per una volta si sbagliò".

Quando lei prese la direzione era appena esploso il successo de Il nome della rosa.
"Fu incredibile. Come scoprire che una piccola potenza aveva la bomba atomica in casa".

È vero che i francesi in un primo momento respinsero il romanzo?
"È una vecchia storia. Il libro, per i legami che Eco aveva con quella casa editrice, fu dato a Seuil. Il suo direttore, François Wahl, disse che il romanzo era poco adatto, che la "balena era troppo grossa". E fu Grasset a pubblicarlo. Quando uscì il secondo romanzo Il pendolo di Foucault, Wahl inviò una lettera a Eco: Donne moi une autre chance , gli scrisse. Ma per Eco i rapporti con la Seuil potevano considerarsi definitivamente chiusi".

Cominciaste una politica aggressiva.
"Diciamo di svecchiamento. Ricordo che proposi a Elisabetta Sgarbi di prendere in mano l'ufficio stampa e poi si è visto il suo talento. Cominciai a corteggiare alcuni scrittori".

Chi in particolare?
"Sciascia, De Carlo, Tondelli. Per fare dei nomi. Con Sciascia fu complicato. Volevamo fare un'edizione completa delle sue opere. Ogni tanto ci si vedeva a pranzo. La sua lentezza era proverbiale. Altrettanto le sue intuizioni editoriali. Insomma, dopo due anni di corteggiamento, ci diede un libro e l'opportunità di raccogliere le sue opere. Festeggiammo l'evento".

Come?
"Con una cena a casa di Valentino Bompiani. Vennero Sciascia, la moglie e c'era anche Umberto Eco. Mi aspettavo una serata scintillante".

E invece?
"Un disastro. Valentino era sordo, Sciascia restò praticamente muto. Il solo conversatore brillante era Umberto. Ma Sciascia non capiva le sue battute. Imbarazzo. La mattina dopo Bompiani venne in casa editrice, come faceva di solito. Gli chiesi che impressione aveva avuto di Sciascia. Cosa le devo dire? Mi sembra silenzioso come un questore siciliano, rispose".

Perché decideste di aprire una collana di classici contemporanei? In fondo c'era già quella dei Meridiani. Una concorrenza che non potevate battere.
"Era per contrastare quella presenza. E poi avevamo saputo che volevano acquisire tutta l'opera di Moravia e non volevamo che finisse alla Mondadori".

Come è stato il suo rapporto con Moravia?
"Protettivo. Vedeva in noi, nella casa editrice, l'istituzione che doveva aiutarlo per qualunque difficoltà. Le conversazioni con lui non erano mai di routine. Si irritava per le cose che gli sfuggivano di mano".

Cioè?
"Non lo so, a me vengono in mente le difficoltà coniugali che visse negli ultimi tempi".

Era sposato con Carmen Llera.
"Sì, una ragazza piena di vita di quasi cinquant'anni più giovane. Fu una storia ricca di pettegolezzi e di maldicenze. Credo che ne soffrì. Come pure patì la decadenza fisica".

E del fatto che fosse uno scrittore più temuto che amato?
"Penso che se ne disinteressasse. Con il suo clan deteneva  -  quando questa roba contava qualcosa  -  un vero potere letterario. Non era arrogante. Aveva modi bruschi che potevano non piacere. Dopotutto la sua vita oltre che interessante è stata fortunata".

E la sua?
"Anche la mia. Mi dispiace solo di aver scontentato alcune persone. Di non essere stato esemplare e coerente come talvolta ho immaginato".

È una confessione?
"Ma no, sono stato discontinuo. Ho avuto una formazione cattolica. I sensi di colpa mi hanno accompagnato a lungo. Vincerli non è stato facile. Riunisco due volte l'anno i miei figli e i nipoti. Guardo queste generazioni e non so che futuro avranno. Mi sembra di essere in un film muto. Bello. Ma non sento le voci né musica. Solo il tempo che passa".

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