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giovedì 1 febbraio 2024

Ritratto di Lorenzo Mattotti

 


LORENZO MATTOTTI

Lorenzo Mattotti, artista dall’opera sensibile e poliedrica, nonché uno dei più autorevoli rappresentanti internazionali dell’illustrazione contemporanea. 

su Robinson di Repubblica

Di Riccardo Mannelli




Mattotti, Lorenzo. - Illustratore e fumettista italiano (n. Brescia 1954). Tra i più  interessanti illustratori contemporanei, ha ottenuto ampi consensi di pubblico e critica fin dagli anni Settanta, con lavori quali le illustrazioni per Huckleberry Finn (1976) e storie come Alice broom broom (con F. Ontani, 1977) e Incidenti (1979), pubblicata sul supplemento della rivista Alter alter come le successive 


Il signor Spartaco (1982) e Fuochi (1984). Disegnatore dal tratto apparentemente ingenuo, abile manipolatore del colore - che coniuga nella sua intensità con una purezza di tratto e una complessità di contenuti – e del bianco e nero che privilegia per estremizzare emozioni e sentimenti, M. è stato collaboratore delle riviste Frigidaire, Linus e il Corriere dei piccoli, e nel 1983 ha cofondato a Bologna, con altri artisti dell’avanguardia tra cui G. Carpinteri, Igort e M. Jori, il gruppo Valvoline, che ha segnato una svolta nel fumetto internazionale. Instancabile sperimentatore di una varietà di mezzi comunicativi, autore di copertine di periodici quali New Yorker, Vanity Fair e Glamour,  illustratore per l’infanzia (Pinocchio, 1992), M. ha inoltre realizzato manifesti e campagne pubblicitarie, e collaborato con il cinema (disegni per Eros, 2004, per la regia di M. Antonioni, S. Soderbergh e Wong Kar-wa; animazione del Pinocchio di E. D’Alò, 2012). Fra le opere più recenti, Stigmate (1998, con C. Piersanti), Jekyll & Hyde (2002, con J. Kramsky), Il rumore della brina (2003, con J. Zentner), Eugenio (2006), Vietnam (2014), Ghirlanda (2017, con J. Kramsky), Blind (2017), entrambe nel 2018 Covers for The Newyorker e Caboto, e Città, incroci, amori e tradimenti (2022). Una pubblicazione sistematica di tutti i suoi lavori ha preso avvio dal 2012 nella collana Works con il volume Pastels/Pastelli, cui ha fatto seguito Moda/Fashion (2014). Tra le principali mostre dedicate alla sua produzione grafica vanno citate le antologiche allestite nel 1995 al Palazzo delle Esposizioni di Roma e presso il Frans Hals Museum di Haarlem, e più recentemente, l’esposizione Sconfini ospitata nel 2016 a Villa Manin di Passariano. Nel 2019 l'artista ha diretto il film di animazione La famosa invasione degli orsi in Sicilia, mentre sono del 2021 i volumi Riti, ruscelli, montagne e castelli, Guardando l'inferno e Cinema Mattotti. Da sei anni realizza per la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia il manifesto ufficiale.


Magnifying Glass di Mattotti per The New Yorker, 1999

On the Way

 2015, Lorenzo Mattotti



La famosa invasione degli Orsi in Sicilia

https://www.raiplay.it/programmi/lafamosainvasionedegliorsiinsicilia



Exposition – « L’Art de courir » par Lorenzo Mattotti

10/03/2024 à Angoulême

 https://www.angouleme-tourisme.com/fete-manifestation/exposition-lart-de-courir-par-lorenzo-mattotti/

Exposé pour la 1ère fois au Festival, Lorenzo Mattotti se saisit de l’Olympiade Culturelle – alliance artistique et sportive dans le cadre des Jeux de Paris 2024 – pour livrer une vision flamboyante et plurielle d’un art de la course en pleine mutation.





giovedì 22 dicembre 2022

Lando Buzzanca "La mia vita da merlo maschio"

Lando Buzzanca, all'anagrafe Gerlando Buzzanca (Palermo, 24 agosto 1935[1] – Roma, 18 dicembre 2022), è stato un attore e cantante italiano.

Quando ho sentito della sua morte mi sono ricordata del bellissimo ritratto che gli aveva fatto Riccardo Mannelli e così ho deciso di farvene partecipi:


LANDO BUZZANCA
su Robinson di Repubblica agosto 2019

Articolo di Antonio Gnoli e ritratto di Riccardo Manelli.

Quando ha accettato di vedermi mi ha chiesto: è sicuro di voler venire? Certo che sono sicuro, gli ho detto. E lui ha detto sarà dura. E io ho chiesto perché dovrebbe essere dura? Perché non mi ricordo quasi più un cazzo, ha detto. Brutalmente. E io ho detto: per essere uno che non ricorda un cazzo mi sembra abbastanza in sé. Beh allora proviamo.

Va bene e ho pensato che “il merlo maschio” aveva ancora tutte le penne. In effetti Lando Buzzanca, 84 anni compiuti oggi, conserva un’invidiabile forma fisica: asciutto, elegante nella sua camicia bianca aperta. Ha sandali ai piedi. È un signore curato che dimostra meno degli anni che ha. La stanza che mi accoglie è piena di libri e di tracce dei suoi film. Ci sono le immancabili foto di scena. Le donne che hanno attraversato la sua carriera. Qualche premio.

Le piace essere ricordato come una delle ultime versioni del maschio latino?

«Non mi piace, anzi no. Non me ne frega niente. Di che stavamo parlando?».

Vorrei fare una prova con lei.

«Che prova?».

Vorrei che lei mi dicesse che cosa prova in questo momento?

«Ho come la sensazione di un muro dentro la testa. Le parole ci sono ma devono arrampicarsi sul muro e scavalcarlo. A volte non ce la fanno a salire e poi a scendere».

Le parole sono importanti?

«Sono la risorsa principale in un uomo. Fino a quando sono rimasto in Sicilia parlavo solo dialetto. Mi uscivano le parole, ma non mi bastava». 

Cosa non le bastava?

«Volevo di più, volevo la lingua italiana».

In quale parte della Sicilia è nato?

«A Palermo. Presi il nome di mio nonno, Gerlando, che era un uomo straordinario. Chissà poi perché tutti i nonni hanno qualcosa di straordinario».

E suo padre?

«Un uomo comune. Non ricordo segni particolari. So che quando smisi il liceo prima della maturità, mi guardò inorridito. Non capiva quel gesto che per me era pura ribellione».

Si ribellava a cosa?

«Ai confini dentro i quali ero destinato a restare. Ero magro, prestante, agile. Non uno sportivo. Ma qualcuno che nei propri sogni si vedeva già attore».

Cosa fece?

«Lasciai Palermo e venni a Roma. Fu la fame a segnare quel periodo. Abitavo in una pensioncina vicino alla stazione. Ma poi finii i soldi e le panchine divennero letti poco accoglienti. Mi aggiravo come un disperato con le piaghe ai piedi. Avevo 17 anni e addosso un odore insopportabile. Però ero bellissimo. Seppi che in un cinema non distante dalla stazione c’erano delle donne un po’ avanti nell’età che ti pagavano».

Si scoprì gigolò.

«Non avevo soldi e non c’era lavoro. Entrai in questo cinemino loschissimo. Si accontentavano di qualche bacio furtivo. Poi una sera una donna di cinquant’anni, lo sguardo lievemente strabico, mi chiese di accompagnarla in albergo. La seguii».

Cosa accadde?

«Lei si spogliò nuda. Mi sorprese perché aveva ancora un corpo bellissimo. Sentii una specie di attrazione. Mi chiese di dormire con lei tutta la notte. Accettai. Poi fui preso da un’ansia fortissima. Pensavo: ma che sto a fare qui? Sono scappato da Palermo per ridurmi a questo? Mi rivestii e feci il gesto di salutarla. Dalla borsetta estrasse una scacciacani e me la puntò addosso. Le dissi: ma che fai? Tu devi restare qui tutta la notte, gridò. Tutta la notte!».

Si spaventò?

«Forse sì, non me lo ricordo. Tentai di calmarla. Inventai che la mattina seguente avevo degli esami all’università. Le parlai a lungo. Si convinse a lasciarmi andare. E quella fu l’ultima volta che feci il gigolò»

Al cinema come arrivò?

«Feci tre anni di scuola di recitazione, una scuola americana che da anni non c’è più. Proprio gli americani stavano preparando il film Ben-Hur riuscii a farmi prendere per una particina. Interpretavo il ruolo di uno schiavo e dovevo chiedere da bere a Charlton Heston. Furono 4 giorni di lavorazione a 15 mila lire a giornata. Mi sembrava di essere diventato ricco».

Lo è diventato quando giunse a recitare ruoli importanti. Chi le offrì la prima occasione?

«Fu Pietro Germi che nel 1961 mi diede una parte secondaria in Divorzio all’italiana. Gli piacque il mio modo un po’ stralunato di recitare. Interpretavo il ruolo del fidanzato e poi marito della sorella del barone Fefè interpretato da Mastroianni. L’anno dopo feci I giorni contati di Elio Petri, ricordo un grandissimo Salvo Randone. Poi nuovamente Germi mi volle per Sedotta e abbandonata e infine mi offrì una parte per Signore e signori. Ma ero impegnato e gli dissi no a malincuore. Il film ebbe un successo straordinario, ottenendo perfino il Grand Prix a Cannes e quella fu la sola volta che mi pentii per un rifiuto».

Com’era Germi sul set?

«Non sprecava molte parole, a volte era duro e curava maniacalmente i dettagli. Mi dispiace che alla sua bravura non sia corrisposta l’attenzione della critica. Fu bollato come un regista di destra. Liquidato come un uomo d’ordine. Non c’era accusa peggiore negli anni sessanta per un artista».

Anche lei è stato considerato un uomo di destra.

«È vero, dicevano che i miei film incoraggiavano il peggiore sessismo. Poi quando, non tanti anni fa, ho interpretato il ruolo di un padre il cui figlio è gay, da destra hanno cominciato a dire che ero diventato di sinistra. La verità è che ho avuto la fortuna di poter scegliere». 

E lei scelse “Il merlo maschio”, 1970.

«Le femministe insorsero senza capire che quel film era la tomba del machismo. Pasquale Festa Campanile aveva preso spunto da un racconto di Luciano Bianciardi. Mica l’ultimo arrivato».

La sua partner era Laura Antonelli.

«Fu scelta all’ultimo momento. Non sapevo nulla di lei. All’inizio ero contrariato, poi si dimostrò una grande professionista. Il merlo maschio ebbe un successo clamoroso in Francia e so che Jean-Paul Belmondo si innamorò di Laura vedendo quel film».

Cosa pensa del suo declino?

Terribile. Vidi le sue ultime foto, imbruttita in una maniera che non si poteva immaginare. Della donna bellissima che aveva avuto un ruolo nel Merlo maschio non c’era più traccia».

Quel film le ha lasciato appiccicata la fama di maschio latino.

«A me le donne sono sempre piaciute e non mi sono quasi mai tirato indietro. Però quando mi proposero la commedia sexy all’italiana ho rifiutato e sono passato a fare televisione e poi teatro».

Perché? In fondo l’erotismo pecoreccio di quegli anni divenne un fenomeno molto popolare. Un genere come gli spaghetti western.

«Ma erano commediole insulse. Le inquadrature di tette e culi superavano di gran lunga quelle del resto del corpo».

Eppure da lì uscirono attori come Lino Banfi.

«Mica parliamo di Lawrence Olivier. E poi Banfi si sarebbe imposto a prescindere».

So di un suo Don Giovanni tanto per restare in tema.

«Feci nel 1967 il film Don Giovanni in Sicilia per la regia di Lattuada. Poi, molto più tardi, portai a teatro la commedia di Molière. Tre anni in giro per l’Italia. Quello fu un momento di grande consapevolezza».

Che intende?

«Non lo so, non mi vengono le parole».

Pensava di essere maturato come artista?

«Esatto».

È diventato un attore completo.

«Mi hanno chiamato anche per ruoli drammatici e credo di non aver mai sfigurato».

Quanti film ha fatto?

«Più di novanta, non ho il conto preciso».

Quante donne ha avuto?

«Ci risiamo. Comunque tante, ma una sola ha contato veramente».

Chi?

«Mia moglie, siamo stati insieme per più di cinquant’anni. Non mi ricordo, scusa, quando è morta. Aspetta, aveva 73 anni. Ha sofferto molto e mi sono sentito un verme per tutti i tradimenti, le bugie, le implorazioni. Veniva da una famiglia ricca. Di gioiellieri. Suo padre le disse che aveva sposato un morto di fame. Forse era vero. Forse non doveva. Ma lei se ne è fregata».

Ho letto che da questa storia ne uscì con un tentativo di suicidio.

«Ma non è vero. Lo hanno scritto, ma non è vero. Stavo male, questo sì. Ma sono tutte minchiate. C’ho pensato. Ma sono tornato indietro. Non mi ricordo la dinamica. Ma sono tornato indietro. Come arretrare e poi uscire da un brutto sogno».

Torna mai in Sicilia?

«Tutto quello che ho dentro mi viene da lì. Ma non ci torno. Mi piace stare a Roma. Nonostante i topi, le buche, la mondezza è ancora la città che amo di più».

Ama anche qualcos’altro?

«Se è alle donne che pensi, ho una relazione con una che ha 40 anni meno di me. Le dico, lascia stare. Non vedi come sono ridotto? Non c’è verso. Si ostina a pensarmi come a una persona fondamentale».

Forse lo è.

«Forse la sposo, si chiama Francesca».

Fa ancora cinema?

«No, non sono in condizioni e poi, dico la verità, mi fanno proposte indecenti. Però c’è una cosa che se ci riesco mi piacerebbe dirti».

Quale cosa?

«Mi presento una mattina da Francesca e lei è davanti a me vestita da sposa. Io le dico: ti ho portato dei fiori. Lei mi guarda e con disappunto nota che sono vestito male. Poi dice: ma lo sai che dobbiamo sposarci e i testimoni sono nell’altra stanza che attendono? Io tiro fuori un foglietto dalla tasca dei pantaloni, lo leggo e le dico: qui non c’è scritto che dovevamo sposarci».

È un sogno?

«Non lo so più. Forse è un sogno, forse è la scena di un film che mi piacerebbe girare e interpretare».

Sogna spesso?

«Non molto, ma quando sogno in genere sono i personaggi che ho interpretato. È come se mi fossero restati attaccati addosso. Io ho una mia teoria sugli attori».

Quale?

«O ti cali nel personaggio fino a diventarlo interamente; oppure reciti una parte e allora sei un semplice attore».

Le viene in mente un esempio?

«Marcello Mastroianni era personaggio. Era come se non recitasse. In Divorzio all’italiana era veramente il barone Fefè. Vittorio Gassman fu più attore, con l’eccezione di due film in cui fu personaggio: Il sorpasso e Profumo di donna. Le piace la mia teoria?».

È stato più attore o personaggio?

«Io spero più personaggio, anche se non spetta a me dirlo».

Com’è una sua giornata?

«Non lo so, non ci penso. Però stamane mi sono alzato con la paura di doverti incontrare. Dal 2017 è come se nel mio cervello avessi innestato la retromarcia o il freno tirato. Non lo so. Mi prescrivono farmaci. Dicono: servono per la memoria. Ma quale memoria? Il futuro non mi spaventa. Il passato sì. Non riesco più a starci bene. È come un abito troppo stretto. Se morissi sarei contento, che cazzo mi significa più questa vita? Francesca è convinta che arriverò a cento anni. Ma a che mi serve, non è più vita è solo una stronzata».




Lando Buzzanca, l'istrione della commedia che non riuscì a farsi amare dalla critica
di Alberto Crespi per Repubblica

L’attore è morto a Roma a 87 anni. L’esordio con i maestri, i film sexy e un’etichetta, culturale e ideologica, che si portò dietro tutta la vita
Sgombriamo il campo da ogni equivoco: Lando Buzzanca, morto a Roma all’età di 87 anni, è stato un ottimo attore. E per alcuni anni – soprattutto per un decennio, gli anni 70 – è stato un divo, capace di raggiungere una popolarità tutt’altro che univoca. Era il divo dei film sexy, grazie a pellicole firmate da registi come Marco Vicario (Homo eroticus) e Pasquale Festa Campanile (Il merlo maschio) delle quali, poi, parleremo. Ma era anche un divo televisivo, quindi per famiglie, capace di tener testa a una vedette assoluta come Delia Scala in una commedia musicale (Signore e signora) che nell’inverno del 1970 fece ascolti pazzeschi sul primo canale della Rai. E la sua immagine di “homo eroticus” era talmente forte che venne intitolato Lando uno di quei fumetti scollacciati che venivano letti praticamente solo nelle caserme.
Anni dopo, Buzzanca aveva un rapporto ambivalente con questo passato così complesso. Era orgoglioso del successo che aveva ottenuto, e al tempo stesso sembrava volersene distaccare accettando ruoli lontanissimi dal proprio cliché, come quello di un anziano omosessuale nel film Chi salverà le rose? di Cesare Furesi, del 2017. Si lamentava spesso e volentieri di un presunto ostracismo esercitato nei suoi confronti “dalla sinistra”, e al tempo stesso parlava quasi con ironia della sua militanza in Alleanza Nazionale (raccontava che quando Gianfranco Fini gli aveva proposto di candidarsi alle elezioni, gli avesse chiesto quanto guadagnasse un deputato e avesse quindi rifiutato ridendo, perché quei soldi “io li guadagno in una settimana”).
E pensare che una delle prime cose importanti, al cinema, l’aveva fatta con Luchino Visconti, noto comunista: nel 1963 (a 28 anni) aveva doppiato il personaggio di Don Ciccio Tumeo, interpretato da Serge Reggiani, ne Il Gattopardo. È assolutamente vero che negli anni 70 i suoi film venivano stroncati “a prescindere”, avrebbe detto Totò, dalla critica di sinistra: da un lato sarà bene dire che molti erano veramente brutti, dall’altro è giusto rimarcare che una critica troppo attenta al cinema autoriale non si sforzò minimamente di capire alcuni dei ruoli che portarono Buzzanca alla popolarità. Proviamo a farlo adesso.
Buzzanca, al cinema, partì bene, con ruoli magari piccoli in film di grandi registi: Pietro Germi, Elio Petri, Antonio Pietrangeli, Luciano Salce, Steno, Dino Risi (appare in un episodio di I mostri). Poi apparve in ruoli “alimentari” in alcune parodie, come Ringo e Gringo contro tutti di Bruno Corbucci e Per qualche dollaro in meno di Mario Mattoli. Paradossalmente fu proprio un film d’autore, Don Giovanni in Sicilia di Alberto Lattuada (1967), a cucirgli addosso lo stereotipo del siciliano sessualmente focoso.
Al grande pubblico piacevano ovviamente gli aspetti più esteriori di quei personaggi; la critica non colse, però, quanto la messinscena del maschio italiota aggressivo nascondesse risvolti oscuri, quasi patologici. Homo eroticus è in sostanza la storia di una malattia: un uomo del Sud che ha successo fra le donne borghesi e insoddisfatte del Nord perché affetto da triorchidismo, ovvero da un numero eccessivo di testicoli. Il merlo maschio racconta di un uomo frustrato che sfrutta l’esibizionismo della moglie per fare carriera. L’uccello migratore di Steno è la storia di un insegnante meridionale completamente spaesato nella Roma della politica e della contestazione. Io e lui (di Luciano Salce, dal famoso romanzo di Moravia) è una storia in cui “lui”, l’organo sessuale maschile, porta il proprio “padrone” alla rovina. E così via. In questi film Buzzanca sarà anche un macho, ma è quasi sempre un disadattato.
L’attore, ovviamente, era tanto bravo e intelligente da saperlo benissimo. Infatti in questi film – e nei tanti film commerciali girati in quegli anni – il registro espressivo più utilizzato da Buzzanca è il grottesco, condito con abbondanti dosi di ironia. Non aveva il “fisico” del comico, ma di fatto lo era. Non lo si può assimilare né ai “colonnelli” della commedia all’italiana, né ai comici delle commedie di serie C (Bombolo, Alvaro Vitali…): di fatto frequentava un genere tutto suo, che ha contribuito ai favolosi incassi del cinema in un’epoca in cui gli italiani riempivano le sale come se non ci fosse un domani.
Successivamente, al cinema e in tv, ha avuto l’occasione di mostrare il proprio talento: ad esempio comparendo in I viceré di Roberto Faenza (2007), ispirato allo stupendo romanzo di Federico De Roberto; o in serie tv di qualità come Il restauratore, andata in onda su Rai 1 dal 2012 al 2014; e come Mio figlio (prodotta da Rai Fiction nel 2005) nella quale interpreta un anziano commissario che fatica ad accettare l’omosessualità del figlio. Ruolo per il quale, per i bizzarri giri della storia, dell’opinione pubblica e del comune senso del pudore, ha ricevuto critiche da parte di diversi esponenti del centrodestra.
Lando Buzzanca sembrava destinato a non accontentare mai nessuno, a cominciare da se stesso. Solo il pubblico non l’ha mai tradito. E in fondo, questa era la sua più grande soddisfazione.


venerdì 6 novembre 2020

Gigi Proietti

 Roma perde con la scomparsa di Gigi Proietti uno dei suoi più cari figli, un grande attore di  teatro, tv e cinema.

Un piccolo omaggio : alcune vignette, caricature e l'intervista di Antonio Gnoli.

Un abbraccio alla famiglia.

GRANDE PERSONA
 di Riccardo Mannelli

Gigi Proietti: "Sono un esibizionista allegro. Volevo solo una cosa: la luna"

Antonio Gnoli (2/01/2016)


Ha iniziato suonando nei night. Poi il teatro, gli incontri con Bene, Lerici, Gassman, il cinema e la televisione. Il grande attore si racconta

Vuole un caffè? Così magari lo prendo anch'io. Che problema c'è? Chiedo. C'è che sto in regime salutista: un caffè e un sigaretta al giorno. Dice lui. Lui sarebbe Gigi Proietti che vado a trovare in una Roma costernata dal clima. Vive in fondo alla Cassia. Scorgo, in un angolo del salone dove ci accomodiamo, un contrabbasso. Chi lo suona? Lo suono io, ogni tanto. Ero il bassista col botto. Col botto? Sì col botto: bumbumbum. Non sapevo fare altro. La mano destra ancora, ancora. Ma la sinistra imprevedibile. Come se non avessi un braccio. Erano gli anni in cui suonavo in un complessino tirato su, senza pretese. Guadagni scarsi. Ma sufficienti per non pesare sui genitori che non navigavano nell'oro e immaginavano per me un futuro diverso.

Gigi di MariaGrazia Quaranta/GIO


Cosa immaginava suo padre?

"Quello che di solito hanno in testa i padri di quella generazione: studia, laureati e trova un impiego, possibilmente statale. Sa perché noi italiani abbiamo spesso tollerato la burocrazia e i suoi misfatti?"



No, mi dica.

"Perché la burocrazia era la mamma, il ventre molle e accogliente nel quale sparire e riemergere il 27 di ogni mese. Tra coloro che ce l'avevano fatta c'era la granitica convinzione che ogni cosa che accadesse fuori non li riguardava. Non credo che mio padre vivesse così lo stato delle cose. Lui pensava a una carriera onorevole".




Di cosa si occupava?

"Aveva fatto parecchi mestieri, il boscaiolo, il cameriere, prima di trovare a Roma un impiego come uomo di fiducia in un'azienda. Ho sempre ammirato la sua onestà. Era umbro, figlio di contadini. Con la mamma vennero a Roma negli anni della guerra. Sono nato nel 1940. I miei alloggiarono prima in una casa davanti al Colosseo, fummo sgombrati dalle forze dell'ordine perché l'edificio era pericolante; andammo a vivere in uno scantinato di un albergo; infine ci assegnarono un alloggio alla borgata Tufello".

Li mortacci...
Tiziano Riverso


Come vive le sue origini?

"Penso che le origini di una persona non sono la sua condanna. Ognuno di noi, se ha determinazione e un po' di fortuna, può decidere la propria strada".



Diceva della prima orchestrina.

"Ci chiamavamo "Gigi e i Soliti Ignoti". A Roma, parlo del 1960, c'erano i dancing. Io cantavo. Poi facemmo il salto di qualità: ci chiamarono a suonare nei night club. Entravamo alle sette di sera e uscivamo, disfatti, alle cinque del mattino. Mi ero anche iscritto a giurisprudenza. Non era facile affrontare insieme gli esami e il pubblico notturno".



Erano gli anni della Dolce vita.

"La Dolce vita stava finendo e già si intravedeva l'agonia di via Veneto".

Giggi
Pare de piombo er cielo dapertutto
E er sole nun accenna a sorti’ fòra
Da quanno Roma s’è svejata a lutto
E, insieme a Roma, er monno s’addolora.
Era un artista enorme, e soprattutto
Era un amico, un padre, e tanto ancora,
Una risata aperta e ammaliatora
Che er monno te pareva meno brutto.
Proprio oggi faceva er compleanno,
Che de li morti c’è la ricorrenza.
Otto decenni avrebbe festeggiato.
Come si er calendario de quest’anno
Volesse di’, co’ questa coincidenza,
Che l’urtimo gigante se n’è annato.


Chi frequentava il night?

"Allora era uno status symbol. Venivano il generone romano, un po' di malavita e parecchi turisti. Questi ultimi di solito arrivavano grazie a un'organizzazione, "Rome by Night", che li guidava. Pagavano un biglietto di ingresso che gli dava diritto a una consumazione e ad assistere a uno spettacolo di streap-teese".



Cos'altro accadeva?

"Le entreneuse tenevano compagnia ai clienti. Alcune poi si appartavano nei separé. Noi suonavamo di tutto in tutte le lingue. Usando, in realtà, un gramelot, inventato per l'occasione. L'atmosfera cominciava sonnacchiosa e poi cresceva di tono. I clienti si eccitavano, le ballerine si contorcevano, le spogliarelliste si denudavano. Ce n'era una che faceva lo spettacolino con una porta".


Una porta?

"Sì, la trovata consisteva che alla fine il pubblico vedeva lei, che si spogliava, dal buco della serratura!".

Gastone
Antonio Gallo


Meraviglioso.

"Era un altro mondo dove i fiumi di champagne erano sostituiti dai fiumi di imprecisati liquidi. Una volta un cliente, mi pare un americano, scrutò attentamente l'etichetta della bottiglia: c'era scritto grande "Rouge et Noire" e sotto, piccolo piccolo, "Fratelli Capocci, Genzano". Lo champagne lo preparavano nel retro delle cucine. Scoppiò il putiferio".


Le manca quel mondo?

"Appartiene a un periodo della mia vita. È stato fondamentale in molti sensi. In quegli anni incontrai la donna che sarebbe stata la compagna della vita: Sagitta, una svedese che faceva la guida turistica. Stiamo insieme da mezzo secolo. Non ci siamo mai sposati. Ogni tanto dico: vedi, anche se volessi, non potrei neanche divorziare. Abbiamo due figlie che adoriamo".

Gigi Proietti
Marco Martellini

Circondato da donne.

"Non è poi così male".


E il teatro?

"Ci arrivai per caso. Non ero abitato dal fuoco sacro, semmai dal fuoco fatuo. Avevo fatto dei provini. Ma non è che avessi una cultura teatrale. Feci piccole cose. Erano gli anni in cui a Roma c'erano le famose cantine e si faceva molta avanguardia. Restai folgorato da Carmelo Bene che recitava in Caligola di Albert Camus. Carmelo curò anche la regia e i costumi. Lo guardai con ammirazione. Aveva solo tre anni più di me. Ma era come se tra di noi ci fossero secoli di distanza".


Cosa la colpiva?

"Penso che la sua grande capacità innovativa si nascondesse nelle pieghe della tradizione. Me lo presentò Roberto Lerici, altro personaggio straordinario, e diventammo amici da subito. Mi propose di lavorare a uno spettacolo che poi non si fece. Ripiegò sulla Cena delle beffe , mi offrì il ruolo di coprotagonista e accettai felice di poter lavorare con quel mostro sacro".

Ciao grande Gigi, adesso facce ride da lassù!
 By Chenzo, www.chenzoart.it #gigiproietti #gigi #Proietti #chenzo


Non era un uomo facile da trattare.

"Era istrionico, provocatorio ma anche geniale. Un poeta che a volte si lasciava andare alla sua vena più aggressiva. Trovo però difficile definirlo. A volte decadente. Altre ancora futuribile. Le maschere non gli mancavano. Negli ultimi anni parlava solo di Schopenhauer, di Nietzsche, degli amici francesi che lo avevano scoperto. Dissipò il suo talento in mille rivoli. Cominciò a dire Io non esisto . Si carmelobenizzò. Ma è stato un grande artista".


Accennava a Roberto Lerici, se non ricordo male aveva una casa editrice culturalmente agguerrita.

"La Lerici editore. L'aveva ereditata dalla famiglia e rilanciata assecondando i suoi gusti raffinati. Ma Roberto non era solo un intellettuale astratto o sofisticato. Possedeva un formidabile senso dello spettacolo. Tanto è vero che insieme allestimmo A me gli occhi please e prima ancora Fatti e fattacci .


Come spiega il successo clamoroso di "A me gli occhi, please"?

"Non lo spiego, non sarei in grado di farlo. Esordimmo a Sulmona e poi arrivammo a Roma, un po' per caso. Nei due anni che lo tenemmo in cartellone fu visto da mezzo milione di persone. Perché? Boh. Piaceva la contaminazione dei generi, il comico e il drammatico che si alternavano e poi era come se quella grande tenda, dove si svolgeva lo spettacolo, fosse diventata una sorta di isola felice. Eravamo alla metà degli anni Settanta. Anni orribili, segnati dai morti e dal fanatismo, non così diversi da quelli odierni. Allora, la gente trovò rifugio in quel teatro. Nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo successo. Forse l'unico a crederci davvero fu Lerici. Aveva visto lungo".

Giannelli

Divenne così un attore affermato.

"Il primo successo lo ottenni con Alleluja, brava gente ".


Poi ci fu Petrolini.

"Arrivò più tardi. Mi incapricciai di questo attore immenso. Non era solo comico. Era inquietante. Tutti dicono che parlava a raffica. No. Era il Dio della pausa. Riempiva il silenzio con le sue smorfie".


Che cos'è il tempo comico?

"Glielo spiego così: se uno racconta una barzelletta e sbaglia il tempo della battuta finale, la barzelletta non ha più senso. La pausa non è silenzio, è una forma di pienezza. Guida il ritmo dell'attore. Guai sbagliarla. Una sera recitavo Il Dio Kurt di Alberto Moravia. Il teatro era un po' malmesso. Pioveva. A un certo punto nel bel mezzo di una pausa sentiamo: toc, toc, toc. Era una goccia d'acqua che batteva su un banchetto. Sfalsò tutti i nostri tempi".


Cosa accadde?

"Immaginando la scena in cui il nazista si sarebbe seduto sul banchetto e la goccia che gli avrebbe martellato la testa, cominciammo a ridere furiosamente. Toc, toc, toc. Lo spettacolo ne risentì. Il pubblico non capiva che cosa stesse accadendo. Si alzò un brusio. Lì capii che il tempo della pausa è un tempo di convenzione, di complicità con il pubblico. Se non lo cogli si interrompe la magia".

Lupini


Cosa vuol dire magia?

"Sostengo spesso che il teatro si fa tra il falso e il finto. La magia è trovare il vero che vi è nascosto".


E il cinema?

"Cerca il verosimile. Dopotutto, veniamo dalla grande stagione neorealista".


Lei ha girato parecchi film e alcuni di grande successo. Ma il pubblico non l'ha mai identificata nell'attore cinematografico.

"E forse è stato un bene. Mi annoierei a fare un solo mestiere. E poi ti devi divertire. Ho lavorato a un paio di film con Tinto Brass. Feci il protagonista insieme a Tina Aumont ne L'urlo , film che rimase in censura per nove anni".

Se ne è andato un GRANDE del Teatro Italiano 😢 E adesso come glielo dico a mia madre?!
Vanessi

Un film erotico?

"No, no. C'era qualche scenetta di nudi, i figli dei fiori, quelle robe lì. Brass ce l'aveva con quegli attori che definiva esibizionisti tristi. A lui piaceva il sesso come gioia. Come dargli torto? E poi, ogni artista ha le proprie ossessioni".


Le sue quali sono?

"Non sono un artista, forse sono soltanto un esibizionista allegro. Però c'è una cosa che mi ha ossessionato per anni. È una battuta di Carmelo nel Caligola : "Io voglio solo la luna"".


Come dire: prendere l'impossibile o il meglio dalla vita?

"Ma forse anche il peggio chi lo sa. Carmelo venne a Roma convinto di fare il tenore. Divenne un'altra cosa. Forse più grande. Certamente diversa. Ho capito che la mia luna era un'idea di teatro che fosse una specie di comunità. Qualcosa che il cinema non ti può dare".

Mike Comics

Neppure la televisione?

"Neanche quella. Sono riconoscente alla Tv che mi ha regalato un successo incredibile e anche inaspettato. Dicevano: bravo Proietti, ma non buca lo schermo. E invece ha visto, no?".


Come vive il grande successo?

"La prima volta mi sconvolse. In anni in cui non ero così convinto che la popolarità fosse un bene, arrivò la notorietà con Alleluja, brava gente . Poi ho capito che molto dipende da come sei fatto. E mi sono reso conto che non ho i desideri di una star che insegue solo quello. Il successo deve essere il risultato del tuo lavoro e quando lo ottieni devi essere responsabile per ciò che dici e fai".

Rattristato dalla scomparsa di un grande mattatore del palco. Mi emozionava la sua bravura. Ricordandolo..... sempre a modo mio.
Pierpaolo Perazzolli


Parola di Mandrake?

"Parola".


Si aspettava che "Febbre da cavallo" diventasse un film cult?

"Per niente. All'inizio venne considerato un prodotto dozzinale. La verità è che Steno è stato un grande. Pubblico e critica scoprirono la leggerezza, l'ironia, la comicità di quel film".

OMAGGIO A GIGI PROIETTI
Mario Bochicchio

Era una serie di meravigliosi sketch.

"La comicità dello sketch si fonda su alcuni schemi essenziali. Per esempio ne La figlia del cassamortaro prevale l'elemento dell'ingiustizia. La ragazza non riesce a fidanzarsi perché il padre costruisce bare; oppure ne La signora delle camelie c'è il suggeritore che non è in grado di suggerire; o ne La sposa e la cavalla la storia si basa su un equivoco. Ricordo che con Gassman improvvisammo uno sketch sul set di A Wedding di Robert Altman. Cazzeggiammo liberamente. Fu esilarante, come riconobbe lo stesso regista che conservò integralmente la scena. Con Vittorio passammo insieme un mese sul lago Michgan".


Gassman fu un altro compagno di strada.

"Straordinario e pieno di vita. Ho il rimpianto di non aver mai lavorato a teatro con lui. Anche se l'occasione ci fu con Otello . Avrei dovuto interpretare Jago. Mi tirai indietro. Convinto che dal confronto uno dei due avrebbe perso. Scatenando le invidie dell'altro. Peccato".

"Potrei esserti amico in un minuto, ma se nun sai ride mi allontano. Chi non sa ridere mi insospettisce".
Addio Gigi Proietti
Rigotti


So che Eduardo De Filippo le offrì di lavorare con lui.

"In quel momento ero impegnato. Eduardo era venuto a sentirmi in A me gli occhi, please. Poi bussò in camerino, che era una roulotte. Aveva il volto segnato, da due righe profonde e inconfondibili. Mi strinse la mano e disse "bravo!" Era il 1977. Era vecchio ma emanava ancora un fascino straordinario".


E la sua vecchiaia?

"Cerco di darle una logica, ma è quasi impossibile. Faccio un mestiere che abitua a pensare alla propria fisicità. Ma non è più quella di una volta. Ora dirigo il Globe Theatre di Roma. Per ora sono riuscito a non recitarvi. Ogni tanto mi dico: Gigi, nun te preoccupà, tanto una parte da vecchio per te c'è sempre".



Gigi Proietti - Er Cavaliere Nero
Mauro Biani



martedì 20 ottobre 2020

Morti Enzo Mari e Lea Vergine ad un giorno di distanza

 


Enzo Mari ©Riccardo Mannelli


Morti Enzo Mari e Lea Vergine ad un giorno di distanza, il coronavirus ci ha privato di due grandi della cultura italiana.

IERI È MORTO ENZO MARI famoso designer: «Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati»

Oggi la moglie LEA VERGINE famosa critica d'arte: “L’arte non è necessaria. È il superfluo. E quello che ci serve per essere un po’ felici o meno infelici è il superfluo. Non può utilizzarla, l’arte, nella vita. ‘Arte e vita’ sì, nel senso che ti ci dedichi a quella cosa, ma non è che l’arte ti possa aiutare. Costituisce un rifugio, una difesa. In questo senso è come una benzodiazepina”

venerdì 31 luglio 2020

Compie 100 anni Franca Valeri

Auguri per i primi 100 anni
© GIO / Mariagrazia Quaranta



Nasce a Milano Franca Norsa, in arte Franca Valeri, in omaggio al poeta francese Paul Valéry. Attrice, sceneggiatrice, autrice e regista, è negli anni Cinquanta, dai microfoni della radio, “la signorina snob”. Caustica osservatrice del mondo, regala al pubblico una variegata galleria di ritratti di donne contemporanee. Dalla Cesira, manicure milanese vagamente razzista e permalosa, condannata a perenni fallimenti sentimentali, alla Sora Cecioni, romana sempre al telefono con mammà.


TANTISSIMI AUGURI FRANCA! 💝💖💛💙



Non è bella ma...
Marianna Balducci


31/7/1920: di Franca Valeri ne nasce una ogni 99 anni.
Piero Tonin



Tanti auguri a Franca Valeri, pseudonimo di Franca Maria Norsa, attrice e sceneggiatrice italiana, di teatro e di cinema, nota per la sua lunga carriera di interprete caratterista in campo sia cinematografico sia teatrale. Grande appassionata di opera lirica, si è dedicata spesso alla regia operistica.
Oggi compie 100 anni, è nata a Milano il 31 luglio 1920.
Carrera Arcangelo


Auguri a Franca Valeri !
Pierpaolo Perazzolli


©Riccardo Mannelli





Franca Valeri: "Nel ricordo la mente si rigenera e ci dimostra che siamo vivi"
Attrice, sceneggiatrice e scrittrice, ha firmato anche la regia di alcune opere liriche: "La nostalgia è una sorella che a una vecchia cocciuta come me fa da badante. Adesso mi piace molto ricordare. Sto lavorando a un nuovo libro. Vorrei intitolarlo 'Il secolo della noia'. Ogni tanto mi chiedo se risorgeremo da tutto questo tedio. Non ho una risposta, ma ci sto seriamente pensando"

I gatti sono stati la sua vita. Come lo furono Vittorio Caprioli e Maurizio Rinaldi. Ma non sarebbe giusto tralasciare la cosa più importante che Franca Valeri ha avuto in sorte: il teatro. Potrà sembrarvi una frase enfatica. Ma cosa c'è di enfatico in un amore dichiarato con intelligenza e sommessa ironia? Riproposto ora in un piccolo libro per Einaudi - La stanza dei gatti - dove il teatro è rappresentato come un vecchio signore, magari un po' stanco ma al tempo stesso intramontabile. Guardo questa donna ormai fragile, percepisco la fatica che accompagna le parole e i pensieri lucidi strappati a una infermità che indossa con tranquillità; penso alle luci del palcoscenico che hanno illuminato la sua lunga vita. La piccola casa in cui vive è accogliente: i gatti sono nella loro stanza; il cane Aroldo - un nome, dice, di ascendenze verdiane - ronfa tranquillamente sul divano: " è un Cavalier King Charles, sa quei cani immancabili nei quadri di corte? Ne ho cinque, gli altri quattro a Trevignano in campagna, e poi ci sono cani di altre razze, li salvo e li accudisco. Fanno parte della mia vita che è stata lunga e, devo riconoscere, fortunata".

Quanto fortunata?
"Parecchio, sospetto. Lo sono stata per tutte quelle occasioni che si sono presentate senza che le determinassi. Poi, oltre alla fortuna, c'è il talento senza il quale in un mestiere come il mio non si va da nessuna parte".

Il talento ha una definizione?
" Possiamo sostituirlo con bravura, creatività, istinto e, nei casi più rari, genialità. Ma alla fine è una condizione inconoscibile. Come la grazia che si va a posare dove vuole".

E lei come ha scoperto di averlo?
"Non l'ho scoperto, nel senso che non è una condizione a parte o che si aggiunge alla psiche. Recitando avvertivo l'estrema naturalezza con cui la voce accompagnava il corpo e la gestualità di quest'ultimo. Sentire tutto questo equivale all'ascolto del suono delle campane la domenica mattina".

Come fosse un richiamo religioso?
"Più che religioso parlerei di sacro. Sono convinta che l'origine del teatro si collochi in quell'indefinibile momento. Senza sacralità non si capirebbero i riti che vestono il teatro e la crudeltà che lo segna. Non era Antonin Artaud che parlava di teatro della crudeltà?".

È a quello che si riferisce?
"Intendo crudeltà non come sadismo ma necessità: se sei posseduto da quel demone non puoi fare altro che sottometterti alla sua forza. Sono convinta che il teatro sia il modo più importante che sia stato offerto a chi crede di avere qualcosa da dire".

Più importante della letteratura?
"Altrettanto importante, ma certamente collocabile prima della letteratura".

Lei recita ancora?
"Non più. Sono caduta, qui in casa, il 21 ottobre dello scorso anno. Rottura di cinque costole e una riabilitazione lenta e parziale. Devo stare ferma. Non mi lamento. Se c'è una cosa che mi dà enormemente fastidio è il piagnisteo dei vecchi. Lasciamo le lacrime ai giovani. Loro hanno diritto di piangere con quello che gli sta capitando. Noi no".

Non trova che ci sia un eccesso di retorica sui giovani?
"Forse, ma dopotutto se non hanno un futuro, la domanda è: chi glielo ha rubato? Mi piacciono i giovani, mi circondo delle loro  attenzioni. Racconto loro cose che non sanno, che neppure immaginano siano mai esistite. Mi sento una specie di portabandiera del passato".

Com'era da giovane?
"Spiritosa. Ma lo ero anche da bambina. Già allora pensavo di voler recitare. Cioè, volevo rendere il mio pensiero qualcosa di esprimibile agli altri. Non ho mai avuto dubbi su questa vocazione. Ma è stato difficile darle una voce e un corpo".

Perché?
" Sono nata alla fine della Prima guerra mondiale. Esattamente nel 1920. Poi arrivò il fascismo che scambiò la vita delle persone per un teatro permanente e mediocre. Dovetti attendere il dopoguerra. E fu davvero un bel periodo: un'epoca certo dura ma felice".

I suoi come reagirono a quella voglia di fare teatro?
"Mio padre reagì male. Oltretutto, aggiunse con una certa ironia, non c'erano precedenti in famiglia. Gli feci notare che non era del tutto vero: una lontana cugina, Fanny Norsa, che era vissuta in Inghilterra, aveva calcato il palcoscenico come ballerina. La verità è che a mio padre sembrava impossibile che io avessi le qualità per recitare. Poi ebbe modo di ricredersi".

Quando?
"Una sera venne a teatro a sentirmi. Notò che la gente mi seguiva divertendosi e applaudendo. Il giorno dopo mi disse che aveva riposto molte ambizioni su di me e che dopo avermi visto attrice aveva avuto la certezza che non sarei fallita".

Cosa faceva suo padre?
"Era ingegnere, fu un importante dirigente della Breda. Allontanato dal posto di lavoro per ragioni razziali".

Foste perseguitati?
"Ce la siamo sempre cavata. Alcuni amici fidati aiutarono mio padre, mia madre, mio fratello e me a riparare in Svizzera. Anche in quell'occasione fui fortunata, mi venne risparmiato il dolore atroce delle tante famiglie ebree disperse, distrutte e annientate. Finita la guerra tornammo in Italia".

Cominciò allora la sua carriera?
"Avevo recitato, ma niente di impegnativo. Divenni amica di Vittorio Caprioli che aveva già maturato qualche esperienza teatrale. Era simpatico, brillante, fantasioso. Ci dicemmo che era venuto il momento di trovarci un lavoro e passammo in rassegna gli attori che avrebbero potuto aiutarci. La scelta cadde su Sergio Tofano".

Quello del "Signor Bonaventura"?
"Aveva creato una maschera che divenne popolarissima sul Corriere dei piccoli. Alla fine, dopo parecchi assalti, Vittorio lo convinse a fare compagnia con noi e uno dei primi spettacoli che allestimmo fu proprio Bonaventura. Ricordo che uno dei ruoli che interpretai fu il cane bassotto, il che vista la mia passione per gli animali mi sembrò gravido di conseguenze".

Con Caprioli vi sposaste.
"Il nostro matrimonio durò un po' meno di quindici anni e poi ci siamo separati, andando ciascuno per la propria strada. Lui con le sue storie io con le mie. Senza rancori né complicazioni. Anche perché trovai un nuovo compagno, Maurizio Rinaldi, un musicista che seppe appagare l'altra mia grande passione: l'opera".

Erano molto diversi?
"Direi di sì, ma erano uguali in fatto di tradimenti. Specialisti in adulterio".

Ne ha sofferto?
" Non più di tanto, la gelosia passava rapidamente e poi cosa vuole gli uomini sono dannatamente esibizionisti".

Non ritiene che Caprioli sia stato un grande attore ma sottovalutato?
"Più che sottovalutato incompreso. Aveva una istintiva profondità nell'interpretare certi personaggi, rara in quel mondo. Oltretutto è stato un bravissimo regista di cinema. Ci sono almeno tre suoi film che reputo bellissimi".

Mi viene in mente "Splendori e miserie di Madame Royale".
" Magnifico, una storia di travestitismo tra il grottesco e il dolente senza eguali. Con un Ugo Tognazzi insuperabile nella parte di Madame Royale. Dati i tempi non era semplice affrontare le problematiche di quel mondo".

Era la prima volta credo che in Italia si rappresentavano delle drag queen.
"Il film uscì nel 1970, oltre che regista Vittorio era anche uno degli interpreti di questa stravagante comunità omosessuale: si era dato il nome piuttosto pittoresco di " Bambola di Pechino". Ma il suo film, cult anche per i più giovani, è Parigi o cara dove io interpretavo il ruolo di una svagata prostituta sui cui tratti avrei ricamato il personaggio della Sora Cecioni".

La mitica Cecioni che esordiva al telefono con " Pronto mammà".
" Già, il personaggio fu ispirato da una mia donna di servizio, oggi guai se le chiami così, Renata. Una bella cinquantenne, vedova, prosperosa, con ossigenatura e permanente fatta in casa. Fu lei il mio modello. Ancora oggi la penso con affetto e gratitudine. Ma so che quel mondo non esiste più".

Come definirebbe la comicità?
"Certamente è un istinto. Poi c'è la gioia di divertire il pubblico con qualcosa di tuo. C'è gente che incontro o che mi scrive per ringraziarmi di quel poco o tanto che le ho donato".

Lei ha lavorato tantissimo con Alberto Sordi. Cosa conserva di quel rapporto?
" Se non ricordo male, credo di aver fatto sette film con lui. Mai uno screzio, una insofferenza, una caduta di stile. Certamente fu un comico di straordinario talento. L'ho amato molto meno quando si mise in testa di fare la regia dei propri film. Aveva un tale potere sul pubblico che tutto gli era permesso e perdonato. Ma ho lavorato anche con Totò: davvero unico. La sua comicità si fondeva con i tempi della tradizione del teatro napoletano. In privato era molto diverso, come afflitto da una seriosa malinconia. E poi c'è De Sica che per me è stato un idolo. Oltre che recitare sapeva far recitare e questo non è da tutti".

Ha lavorato anche con Eduardo De Filippo?
" Presi parte a Questi fantasmi, ma a me piaceva soprattutto Peppino ".

Ha mai capito perché litigarono?
" Rivalità, incomprensione, stanchezza. Chi lo sa. Il nostro è un mestiere che può molto innervosire. Comunque, senza togliere l'aura ai due fratelli, ritengo che la più straordinaria dei tre fosse Titina. E loro lo sapevano".

Le accade di rivedere i suoi vecchi film?
"Non ho molto piacere a rivederli. Poi, se qualcuno insiste, capita che torni sui luoghi del delitto e finisce che mi ci appassiono. Siamo deboli, umani e un po' vanitosi, no?".

Prima si accennava alla gelosia che è un tratto ricorrente tra coloro che recitano in teatro.
"Sono sempre stata immune da questo sentimento. Anzi, ho cercato spesso di voler bene e farmi voler bene. Noto, con soddisfazione, che invecchiando il mio giudizio conta per le altre, per quelle attrici che sono agli inizi o nel pieno della loro attività".

Si sente vecchia?
"Lo sono, è un fatto. Le leggi della natura comprendono la decadenza. Ma il punto è come frani. O, se vuole, come si protegge la propria dignità di donna e di artista".

In questo nuovo libro si definisce una "donna sola".
"Ho avuto una carriera quasi sempre solitaria, fatta più di monologhi che di incontri. Quanto al privato, la mia vita mi ha riservato il destino di essere lasciata sola. Soprattutto affettivamente. Quando perdi i genitori, gli uomini che hai amato, gli amici che non ci sono più, la solitudine diventa una condizione imprescindibile. Però non ho mai avuto la sensazione di essere abbandonata".

Vuole dire che non le pesa?
" So che esistono persone per le quali la solitudine è come una mazzata sulla fronte. Non fanno che lamentarsene. Io posso stare sola sia perché non ho perso il senso dell'amicizia, sia perché continuo a scrivere. Mi duole soltanto non poter più leggere".

C'è un libro che è stato fondamentale per la sua crescita?
"Ce ne sono diversi. Ma per forza di cose il libro della mia vita è stato la Recherche. Lo lessi tutto durante la guerra, diciamo nel mio esilio dorato in Svizzera. Mi entusiasmò, per la lingua francese che esprimeva e per quel senso straordinario che Marcel Proust attribuì al tempo del ricordo".

Cosa intende dire?
" Quella lettura tra le tante cose mi ha anche insegnato il valore del tempo. Mi ha educato a ricordare. Molte cose della nostra vita ci sfuggono e a volte le ritroviamo improvvisamente. Ma dobbiamo essere pronti a carpirle. Mi piace molto in questa fase della mia vita ricordare. A volte quando non prendo sonno, o mi sveglio improvvisamente, comincio delle lunghe "passeggiate" notturne".

È come liberare la propria mente.
"La mente si rigenera nel ricordo e ci dimostra che siamo ancora vivi".

Lo dice con una punta di nostalgia.
"È una sorella che a una vecchia cocciuta come me fa da badante. Però non bisogna cercare la pietà che è quasi sempre falsa o inutile ".

Accennava allo scrivere.
"Sto lavorando a un nuovo libro. Vorrei intitolarlo: Il secolo della noia ".

Quale secolo?
"Quello in cui siamo entrati. Aspettavamo il Duemila con la speranza che avremmo visto realizzate cose straordinarie. E tutto lo straordinario che c'è stato vomitato addosso è solo qualcosa di ripugnante. Ci resta questa noia. Noia per il progresso ostinato, per le banalità televisive, per le cattive notizie, per i ciarlatani della politica che hanno scambiato il Parlamento per un teatro, ma non sanno nulla del vero teatro. Ogni tanto mi chiedo: risorgeremo da tutto questo tedio? Non ho una risposta, ma ci sto seriamente pensando".


Il Diario della Signorina Snob
di Franca Valeri

giovedì 30 luglio 2020

Ritratto di Gianrico Tedeschi



GIANRICO TEDESCHI
DI RICCARDO MANNELLI

Gianrico Tedeschi, 100 anni di vita e di teatro, l'attore che li aveva compiuti  il 20 aprile scorso è stato un grande testimone del Novecento, da un palco all'altro,  e uno dei nostri grandi protagonisti in scena per oltre settant'anni. 
Ha iniziato a recitare in un campo di prigionia nazista poi ha avuto una carriera dedicata al teatro lavorando con Strehler, Ronconi, Visconti. È stato protagonista in tv di sceneggiati, varietà, compreso Carosello.
Ripropongo una vecchia intervista del 2013 dove ci racconta momenti significativi della sua vita e che conclude dicendo di avere un sogno : «Sì, un piccolo sogno. C' è un romanzo che mi ha divertito: Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, di uno scrittore svedese. Ecco, se avessi le forze ne farei una riduzione teatrale. Benaugurante, non trova?».
.... che direi si è avverato.



GIANRICO TEDESCHI
la faccia più beffarda del teatro italiano. Quando ti è di fronte sembra che rida. E quando ride davvero sospetti che ti prenda in giro.
 A 93 anni Gianrico Tedeschi dice che la sua giornata è tempestata di vuoti di memoria: «È come calpestare una gruviera mentre fai la gimkana tra i suoi buchi. Ogni tanto per distrazione ci finisci dentro. E non ti ricordi neppure come si chiamava tua madre. A proposito perché lei è qui? Scherzo, lo so, lo so. L' incontro con il vecchio leone, l' uomo dei mille palcoscenici, dei cofanetti di biscotti e delle minestre concentrate; il sopravvissuto alla crisi del teatro, del cinema, di Carosello».
 Ride, come un vecchio spensierato che non si prende sul serio e che ha lenito gli acciacchi con il farmaco dell' ironia. Di solito vive sul lago d' Orta, non lontano da Novara, con la moglie e attrice Marianella Laslzo, ma ci incontriamo nella casa di una delle due figlie a pochi chilometri da Roma: in un comprensorio simile all' Olgiata, però meno aggressivo e pretenzioso.
 «Nonostante i tempi, sono un vecchio abbastanza felice; glielo dico perché a volte ricordando il passato mi scappa qualche lacrima e non vorrei essere frainteso. Le mie figlie mi danno gioia. Una è sociologa, l' altra fa l' attrice. Non avrei voluto che Sveva intraprendesse la mia carriera. Ma è andata così. Bisogna seguire l' istinto o la ragione? Non l' ho mai capito fino in fondo».
 Perché non le piace che sua figlia faccia teatro?
 «Perché è dura. Perché se ti dedichi solo a questo mestiere oggi non ce la fai a vivere con serenità. Io ho faticato e mi sono divertito. Loro, intendo quelli che hanno iniziato solo ieri, che faranno?».
 Ogni generazione ha le sue tragedie. La sua quali ha vissuto?
 «Dovrei dirle la guerra. E credo sarei nel giusto. Ma poi mi chiedo non sono forse diventato quello che sono grazie anche a ciò che mi è accaduto in quegli anni terribili?». 
Quali anni? 
«Dal 1943 al ' 45. Prima di allora mi sembrava di stare in un altro mondo. Certo, non facile, indurito dalle difficoltà. Ma niente era davvero insormontabile. È solo quando le fauci del tempo si spalancano che la tua vita improvvisamente è messa a repentaglio». 
Dove più alto è il pericolo lì cresce anche la salvezza.
«Si fa presto a dire la salvezza, quando la vita è scossa, traumatizzata, messa in discussione. A me è andata bene e ringrazio il teatro, quella passione che mi è servita durante gli anni della prigionia trascorsi in vari campo di concentramento». 
Passione nata come?
«Eravamo bambini, io il più piccolo di tre fratelli, quando mio padre ci portava tutte le domeniche ad assistere a una rappresentazione. Nei primi anni fu una tortura. Mi annoiavo, volevo fuggire da quello spazio che mi sembrava opprimente e tornare ai miei giochi. Non c' era verso di scappare. Poi, verso i tredici anni, ho cominciato a capire e a lasciarmi andare a quelle recite. Mi incuriosivo ai gesti degli attori, alle voci. Una volta papà mi portò al dal Verme di Milano a vedere Ermete Zacconi. Recitava ne Gli spettri di Ibsen. Fu una cosa strana. Mi impressionò il verismo. Allora decisi che il teatro sarebbe entrato nella mia vita. Mio padre aveva involontariamente gettato il seme».
 Cosa faceva nella vita? 
 «Era commesso nel più grande negozio di colori di Milano. Venivano tanti artisti a servirsi. Si sentiva gratificato da quel mondo del quale era solo uno spettatore. Attento e disponibile. Diceva: pensa, cosa sarebbero i pittori senza di noi, senza un pubblico che li ammiri e li segua. Fu un uomo umile e operoso. E quando partii per la guerra, lui che era un antifascista convinto, mi disse: non devi niente a questo paese, comportati con onore, ma torna a casa».
 Dove la spedirono? 
«In Grecia, avevo il grado di sottotenente. Ci mandarono a combattere contro la resistenza greca. Restammo lì, nella parte Nord, dal 1941 al ' 43. Sembravamo tanti disperati, soprattutto quando apprendemmo della disfatta del fascismo, della fuga ignominiosa del Re. I tedeschi ci catturarono e ci spedirono in Germania. Fui destinato al Benjaminovo, un campo non lontano da Varsavia. E lì che ho cominciato a fare teatro». 
E i tedeschi glielo consentirono? 
«Non era un campo di sterminio, e per quanto fosse duro avevamo piccole possibilità di movimento. Agevolate dal fatto che i tedeschi volevano che aderissimo alla Repubblica di Salò. Cosa che ci guardammo bene dal fare. Tra i prigionieri c' erano Giovanni Guareschi, ricordo che ogni tanto faceva il giro delle baracche con la fisarmonica; Alessandro Natta, che sarebbe diventato segretario del Pci; Giuseppe Lazzati, futuro rettore della Cattolica e perfino quel meraviglioso caricaturista di Novello. Avevamo con noi dei libri. Li mettemmo tutti assieme creando una piccola biblioteca. Fu lì che pescai un paio di commedie di Pirandello: EnricoIV e Il piacere dell' onestà. Mi venne l' idea che potevamo allestire una recita nel campo. Imparammo le parti, ci procurammo perfino dei vestiti da donna e alla fine debuttammo davanti a tutti i prigionieri. Fu un successo incredibile. Decisi così che avrei fatto l' attore».
Come pensa sia stata la sua carriera? 
«Non ho mai avuto il piglio del mattatore. E per quanto mi sforzi nel cercarli, non vedo in me tracce di narcisismo né di istinti prevaricanti. Detesto la retorica sul grande attore. Le frasi ovvie: come desiderare di morire sul palcoscenico. Il teatro è vita, eros, artificio, ma soprattutto fatica e dedizione. Ho cercato, sempre, di essere all'altezza di queste convinzioni, poco scolastiche».
 Ha fatto l' Accademia? 
«Subito dopo la guerra, con Strehler e Grassi. Ma siccome a Milano non c' erano in quel momento sbocchi immediati, feci anche l' Accademia nazionale a Roma. Mi bocciarono. E dovetti ripresentarmi. Anni dopo Silvio D' Amico, che era il direttore, mi disse che quella bocciatura fu un errore di trascrizione di una segretaria. Non so se fosse vero. O se semplicemente voleva riparare un torto, o qualcosa che a me allora parve così». 
Cos' è fallire per un attore? 
«Per alcuni è una tragedia. Per me è un chiedersi dove hai sbagliato. Se il pubblico non ti segue o ti volta le spalle una ragione c' è. Quando insieme ad Anna Magnani facemmo Chi è di scena?, la gente, ancora abituata alla rivista, non capì. Una sera, prima dello spettacolo Anna si presentò sul palcoscenico e disse: "aho, gente mia, noi stamo a dà er mejo. Voi datece na mano: applaudite!". Era una donna carismatica, schietta. Pochi mesi dopo, se non ricordo male, prese anche l' Oscar per La rosa tatuata ». 
Il talento cos' è?
 «È un dono, se ce l' hai lo devi conservare. Il buon Dio non te lo dà una seconda volta. Chi ne aveva tantissimo e lo ha dissipato fu Walter Chiari. Ha buttato via tutto. Ma non ho mai incontrato un uomo più generoso di lui. Lavorammo insieme con Franca Valeri che era l' opposto di lui. Meticolosa, perfetta come la lancetta di un cronometro. Colta e sofisticata. Aveva innalzato il pettegolezzo all'arte dell' intrattenimento». 
A proposito di colto e sofisticato so che ha interpretato il ruolo che fu di Rex Harrison in My Fair Lady. 
«Era il 1964. Il regista, un americano mi pare, durante il provino disse: canti qualcosa. Cantai ' O sole mio. Rimase estasiato. Interpretai il ruolo di Higgins, il professore di fonetica. Fu un successo. A Milano, alla fine della prima, venne Ingrid Bergman a congratularsi in camerino. Ero emozionatissimo. In seguito seppi che dopo essersi lasciata con Rossellini si era sposata con il produttore del musical. A Roma fu la volta di Rex Harrison. Elegantissimo. Bello. Autorevole. Dopo lo spettacolo finimmo in una vecchia trattoria. Cantammo gran parte della sera e giuro che non ho mai sentito uno più stonato di lui». Un attore non è mai quello che sembra?
 «Un attore deve essere ciò che sembra. Soprattutto non deve avere pensieri». 
Cosa intende?
 «Quando chiesero a John Gilguld come avesse fatto ad essere così bravo nell' interpretare Re Lear, rispose che non ne era consapevole. Non era in grado di giudicare Shakespeare, compito che lasciava ai letterati. E che sul palcoscenico la sola cosa che lo guidava erano le emozioni. Un attore non può parlare seriamente di Shakespeare o di Moliére. Però può farli propri».
 Un attore non pensa? 
«In un certo senso è così.È la sola macchina che io conosca dotata di un cuore pulsante».
 Lei ha fatto anche molto cinema. 
«Più per denaro che per passione. Un solo film da protagonista e fu un fiasco clamoroso. Per il resto ruoli secondari, piccole parti. Come l' ultima, qualche mese fa, nel film di Roberto Andò: Viva la libertà, in cui interpreto un vecchio saggio della sinistra italiana. Credo che il riferimento fosse a Vittorio Foa». 
Come vede la politica?
 «Bisogna convenire sull' idea che è un bel rebus. Mi fa venire in mente il periodo in cui in televisione partecipavo alla trasmissione di Cochi e Renato Il poeta e il contadino. Erano i primi anni Settanta. Tenevo dei monologhi surreali tipo: "La maturità democratica delle foreste incide sui dischi volanti"; "Oggi è stata fondata una casa di riposo per uomini politici"; "Tutti i grandi cervelli hanno curato i loro fegati a Chianciano". Insensatezze di questo tipo. E ho l' impressione che frasi del genere oggi non stonerebbero nel linguaggio dei nostri politici. La politica è sempre più non sense. Preferisco, lo dico sottovoce, il mio rincoglionimento».
 Ha un' età scintillante.
 «Aver superato i novanta non mi autorizza a sparare sul mondo. Il vecchio irresponsabile che dice quello che gli passa per la testa non mi piace».
 Cosa rappresenta questa età? 
«Cose belle e malinconiche. Le prime sono gli amori avuti, gli affetti coltivati, le persone cui si è fatto del bene e quelle da cui ne hai ricevuto. E poi il teatro, per tutto quello che mi ha donato. Infine giunge la constatazione che tutto questo un bel giorno finisce e allora subentra la malinconia. Mi piacerebbe rinascere per poter fare meglio tutto quello che ho fatto. Capisco che è infantile. Ma, quando mi rinchiudo nel mio studio, è la sola cosa che mi torna costantemente alla mente. Un desiderio di perfezione».
 Nient' altro? 
«Sì, un piccolo sogno. C' è un romanzo che mi ha divertito: Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, di uno scrittore svedese. Ecco, se avessi le forze ne farei una riduzione teatrale. Benaugurante, non trova?».





Approposito di grandi attori, ieri 27 luglio ci ha lasciato Gianrico Tedeschi. 
Aveva 100 anni. Riposa in Pace...


Gianrico Tedeschi (Il poeta e il contadino - 1973)