lunedì 17 novembre 2014

Ritratto di Gioacchino Lanza Tomasi

 Il 12 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Gioacchino Lanza Tomasi




Gioacchino Lanza Tomasi: "Tutti i fantasmi del Gattopardo sono qui a farmi compagnia"

Una vita accanto al padre adottivo, Tomasi di Lampedusa, che si ispirò a lui per il personaggio di Tancredi. Ma le sue vere ossessioni erano il teatro e la drammaturgia
di ANTONIO GNOLI

CAPITA , a volte, di chiedersi cosa vuol dire vivere nella vita di un altro. Abitarla, come si abita una stanza, una tana, uno spazio vuoto che si riempie degli enzimi della conoscenza. E una risposta plausibile è quella che si appella al sentimento del sacrificio o alla dedizione a una causa. Si diventa custodi di una storia, di una biografia con la quale si cresce e ci si confonde.

Quel divario iniziale che distingueva dall'altro si attenua fino, in certi casi, a sparire. Fino a non sapere se sei ancora tu o l'altro.
Colgo un pensiero che alla fine di una intensa conversazione Gioacchino Lanza Tomasi formula così: "Nel momento in cui ho avuto l'impressione di essere stato emarginato, e perfino trattato come un paria, non mi è restato che attaccarmi alla memoria. Così come ci si attacca al cannello di ossigeno. Respiro. Sopravvivo. E i ricordi vanno, con gratitudine, al principe, a lui che ha abitato parte di questo palazzo e reso a suo modo immensamente celebre e terribile questa terra. La mia terra".


Più che un pensiero mi accorgo che è una costatazione accompagnata da una punta drammatica, non priva di quella teatralità cui la Sicilia ci ha spesso abituati. La sua forza di attrazione più che nella costruzione della frase è nel timbro della voce che Lanza Tomasi imprime al suo ricordo. Una voce che pare scendere dal letto per andare lentamente ad affacciarsi al parapetto del forte sul mare di Palermo. E sembra, quella voce, evocare o richiedere la presenza del vecchio principe, con i suoi riti, le sue passeggiate, le sue stranezze.

Quando ha conosciuto Tomasi di Lampedusa?
"Nel 1953. Lo incontravo qualche volta in casa del barone Sgadari di Lo Monaco. Era un uomo sobrio, gentile, per lo più silenzioso. E per giunta povero. Nessuno, fuori da una ristretta cerchia di amici, lo conosceva".

Ne dà un'immagine insolita.
"Viveva in ristrettezze. La famiglia, un tempo gloriosa e ricchissima, si era rovinata. Fu una lenta discesa nella decadenza. Del patrimonio cospicuo gli restarono i rimasugli. Cominciai a frequentare quest'uomo che non chiedeva niente, insieme a Francesco Orlando e Francesco Agnello".

Eravate molto giovani.
"Avevamo vent'anni e pieni di curiosità. Spesso lo raggiungevamo in uno dei suoi caffè preferiti e cominciavano lunghe discussioni letterarie. A un certo punto pensò bene di darci qualche lezione di letteratura francese e inglese. Stabilì che ci saremmo visti, qui, in via Butera, due volte a settimana. Ci parlava anche delle sue predilezioni per certi autori spagnoli. Conosceva bene Gongora e Cervantes. Andava pazzo per Quevedo. Un giorno, con mia sorpresa, mi chiese se potevo dargli qualche lezione di spagnolo ".

Che lei conosceva così bene?
"Parlo molte lingue e per metà sono di origine spagnola".

Per quale metà?
"Mia madre era ispano cubana, con una storia familiare interessante. Il nonno materno, cubano, si stabilì in Spagna durante la guerra ispano americana. Fu un eccellente diplomatico e in seguito ministro degli esteri. Scrittore e uomo mordace morì nel 1933, l'anno prima che nascessi. Conobbi la sua seconda moglie, guatemalteca e di una bellezza colossale. Partorì mia madre a Costantinopoli. Passò gli ultimi anni della sua vita a Biarritz. Allora era la spiaggia dei baschi oltre che dei francesi. Era stata amica di Picasso. E quando morì percepii con chiarezza che una parte di quel mondo col quale lei si era identificata non c'era più".

E quel mondo che lei ha vissuto indirettamente l'ha ostacolata o aiutata?
"Mi ha dato gli strumenti, la sensibilità e, forse, le occasioni per affermarmi. La passione per la musica ha fatto il resto. Sono stato a lungo direttore artistico di vari teatri, tra cui l'Opera di Roma, ho diretto per quattro anni l'istituto di cultura a New York, sono stato sovrintendente al San Carlo di Napoli. Ho insegnato storia della musica presso varie università. Dopo aver fatto tanto e credo anche bene, le luci si sono spente. Senza una ragione plausibile. Senza che qualcuno abbia detto: eri uno stronzo, un illuso, meritavi di essere dimenticato".

Non è stato dimenticato.
"Mah".

Sembra di vivere in una scena del Gattopardo.
"Lampedusa nel tratteggiare il personaggio di Tancredi si ispirò in parte a me. Quella Sicilia non esiste più".

E lei è qui, ancora a parlarne.
"Sono i miei fantasmi. Ma così presenti da essere ancora veri".

Il principe l'ha adottata. Ma chi era il suo vero padre?
"Un Lanza, uno dei rami dei Branciforte. Un bell'uomo. Incline al malumore. Le sue scenate, improvvise, mi terrorizzavano. Sono stato soprattutto un figlio di madre".

Perché il principe decise di adottare lei e non gli altri due?
"Non aveva figli. Credo che nella decisione abbia pesato il giudizio della moglie: Licy".

Una donna complessa.
"A dir poco. E con dei tratti di vera originalità".

Ossia?
"Fu la prima donna in Italia a occuparsi di psicoanalisi".

Non era italiana?
"No, era di origine lettone. Si chiamava Alexandra Wolff Stomersee. Sposò il principe in seconde nozze agli inizi degli anni Trenta. Si dice che avesse conosciuto Freud. Certamente fu una delle poche persone, insieme a Weiss, Musatti e Servadio, che fonderanno la società di psicoanalisi in Italia. Per tutta la vita svolse la professione di analista".

È vero che provò a psicoanalizzare anche Lampedusa?
"Così mi disse una volta. E vi ho fatto un cenno introducendo la nuova edizione del racconto La sirena. Ma Lampedusa, che pure aveva un sincero interesse per la psicoanalisi, non si sarebbe mai sottoposto a questo rito. Oltretutto con una persona così intima come Licy".

Come fu il rapporto tra i due coniugi? Bernard Berenson, che una sera andò a cena da loro, scrisse nel diario che lui era un uomo affascinante, colto e gentile, lei una donna arrogante.
"La sua arroganza riposava sulla totale fiducia in se stessa. Lampedusa mi disse che per capirla occorreva aver letto Sant'Ignazio e Lenin".

Nel senso?
"Che la verità è quella che si decide che sia e che, in qualche maniera, si impone. Alla fine la coppia trovò equilibrio nell'evitarsi. Lui usciva la mattina e passeggiava per Palermo. Andava soprattutto al caffè Caflish e al Mazzara dove scrisse Il gattopardo. Quanto a lei: si interessava ai suoi pazienti, annotava i loro sogni, andava a letto alle quattro del mattino e si alzava a mezzogiorno".

Vite parallele.
"Si incontravano solo per la cena".

Lei citava il racconto La sirena ( edito da Feltrinelli). Nella sparizione del protagonista  -  un geniale grecista  -  c'è chi ha visto la vicenda di Ettore Majorana.
"La sua scomparsa lo aveva colpito. Tanto è vero che ambienta la vicenda nello stesso anno in cui di Majorana si perdono le tracce: il 1938".

Perché questo interesse?
"Lampedusa detestava la Sicilia ma ammirava i siciliani di genio. Ricordo il desiderio fortissimo per una mostra a Messina di Antonello. Lo portai con la mia Topolino. Fu un viaggio tormentato dalla scomodità delle strade. Impiegammo all'incirca cinque ore. Ma ne valse la pena. Restò incantato. Conversammo a lungo. E al ritorno volle fermarsi da Lucio Piccolo".

L'amico che lo conosceva meglio. Il poeta che si rivelò grande.
"Quando lo conobbi, Lucio non aveva ancora scritto poesie. Possedeva un'enorme competenza musicale. Poteva suonare Parsifal a memoria. Ma non aveva mani da pianista. Fu il suo limite. Ad ogni modo, sulla via del ritorno ci fermammo da lui. Nella villa vicino a Capo d'Orlando".

Come vi ricevette?
"Ci sembrò disorientato. Non si aspettava quella visita. Scoprimmo che la madre di Lucio stava morendo di cancro. Ci congedò rapidamente. Quasi con imbarazzo. E fu solo dopo la morte della madre che cominciò a scrivere poesie ".

C'è sempre un momento in cui irrompe qualcosa nella vita di una persona e la cambia?
"È la sola cosa di cui i siciliani fanno finta di non accorgersene. Mai stupirsi di ciò che accade".

E lei si stupì di essere stato adottato dal principe?
"Fu una decisione abbastanza sorprendente".

Chi non la prese bene fu Francesco Orlando.
"Cosa vuole che le dica? All'epoca, parliamo della metà degli anni Cinquanta, Francesco scrisse un romanzo che non piacque a Lampedusa".

Era una confessione indiretta sulla propria omosessualità nascosta.
"Nascosta? Lesse il romanzo a una decina di persone. A Palermo in quel momento non si parlava d'altro. E le assicuro che fare outing allora non era come oggi".

Cosa accadde?
"Il principe e Licy lo convocarono: tu non puoi, gli dissero, continuare a fare il masochista. Non volevano scandali. Gli suggerirono di partire. E lui si sentì vittima. Emarginato ".

E non era un po' così?
"È difficile entrare nella psicologia di un uomo che ha avuto diverse vite. Ma che, al dunque, nonostante fosse un bravo saggista, era privo di talento letterario".

Eppure, in quel romanzo, che sarebbe uscito decenni dopo con il titolo La doppia seduzione, c'è come un segreto innamoramento per un giovane, che non lo corrisponde.
"E allora?".

Non poteva essere lei quel giovane?
"Ma non credo. Le uniche persone riconoscibili erano alcune donne della vita palermitana che da buon misogino Orlando criticava".

Cosa è stata intellettualmente questa vita palermitana?
"Qualcosa di irripetibile. Grandezza e originalità sono tratti che difficilmente si riproducono. Da noi la sola cosa che sopravvive è lo scetticismo che nelle classi meno abbienti si trasforma in rassegnazione".

Lampedusa ne era consapevole?
"Totalmente e fino alla fine nutrì il suo pessimismo di amarezza e silenzio. Ricordo i suoi ultimi giorni vissuti a Roma tra la clinica Sanatrix e la casa della cognata, Olga Biancheri. Era il 1957. La fine di giugno. Si accorsero che era inoperabile. Furono giorni tristi. Di spossatezza. Sembrava volesse vivere in attesa della morte. Poi una mattina arrivò una lettera. Era Vittorini che gli scriveva. Motivando il suo rifiuto del Gattopardo. Giuseppe me la lesse. Era deluso per quella decisione. Ma non lo diede a vedere. Anzi, commentò in modo ironico il testo: come recensione non è male, disse".

In fondo la storia di quel capolavoro cominciò lì, con quella negazione.
"È vero, peccato che Lampedusa non poté vedere niente di ciò che sarebbe accaduto in seguito. La sola cosa che aggiunse fu: pubblicatelo, ma non a mie spese".

Fu un moto d'orgoglio.
"Certo, ma anche di consapevolezza della qualità del romanzo ".

Ho visto che è appena stata pubblicata una biografia per immagini in inglese che lei ha curato.
"Riscuoto più consenso fuori che in Italia".

Cosa significa vivere nella vita di un altro?
"Per quanto mi riguarda non ho avuto modo di esserne ossessionato. Lampedusa giocava con noi ragazzi come il gatto con il topo. Ho sempre avuto ben presente che eravamo animali diversi. E quando è morto, la notte del 23 luglio, a sessant'anni, la vedova cominciò a occuparsi di tutto quello che aveva lasciato. Lo fece con una certa gelosia. Non permettendo a nessun altro, neppure a me, di metterci le mani. Solo quando Licy è morta, nel 1982, ho iniziato a interessarmene".

Lo ha fatto come?
"Con pazienza e dedizione. Ma senza quella identificazione totale alla quale mi pare alludesse. La mia ossessione, se tale la si può definire, è sempre stata il teatro. La drammaturgia. Ciò che resta di una storia quando la storia è finita".

Con i personaggi che continuano a vivere, malgrado tutto.
"Malgrado tutto, sì. Certe volte, qui, in questo edificio, che fu l'ultima dimora del principe, ho l'impressione che qualcosa resti a dispetto del tempo e dell'oblio. E della morte ".

Cos'è che resta?
"Non saprei come definirla. Una forma di ammirazione e di rispetto per tutto ciò che il passato ci ha dato. Il palazzo fu edificato su delle casematte militari. Se le fondamenta sono solide, allora penso che una storia può ancora essere raccontata. Paura, apprensione, angoscia lasciano spazio a un sentimento di gratitudine. Non so se sia la bellezza o l'umano che resistono. O magari solo l'animale che è in noi. Dopotutto, siamo esseri duali".

E alla fine cos'è questo sentimento che l'accompagna?
"Penso che la storia sia un posto troppo grande per poterci vivere da soli".

http://www.amigosoperacoruna.org/el-principe-de-lampedusa-en-la-temporada/
fonte pdf

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