mercoledì 19 novembre 2014

Ritratto di Anna Maria Guarnieri

Il 20 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Anna Maria Guarnieri






Anna Maria Guarnieri: "Il pubblico mente: ti applaude e poi fuori dal teatro ti critica"

La grande attrice: "Non mi aspettavo che mia sorella morisse. Era stata curata per un tumore. Sembrava dovesse farcela. Poi, nel giro di due giorni, tutto è precipitato. E non so ancora il perché. Nel frattempo compio 80 anni"
di ANTONIO GNOLI

SONO ormai trascorsi alcuni mesi da quando ha compiuto ottant'anni e, nello stesso periodo, è morta la sorella. Due eventi che Anna Maria Guarnieri ha vissuto con dolore, stupore e impreparazione. Svolge i suoi teoremi esistenziali con eleganza mentale, senza fronzoli.
Andando dritta alle questioni: "Non mi aspettavo che mia sorella morisse. Era stata curata per un tumore. Sembrava dovesse farcela. Poi, nel giro di due giorni, tutto è precipitato. E non so ancora il perché. Nel frattempo compio 80 anni. Gli amici mi festeggiano. Ma il cuore è triste, impreparato. Penso ai rituali che accompagnano la vita e la morte. Penso alla mia impotenza".
Seduta sul divano di casa, l'attrice bravissima e importante del nostro teatro, racconta senza reticenze un passato ricco di contrasti: delusioni e successi. Come se una lunga autoanalisi, impiegata a scardinare le resistenze, renda emotivamente meno fredda la sua partecipazione ai ricordi. È una donna, penso, senza un vero oblio.

Cos'è il passato per lei?
"Qualcosa di cui non dubito. Per lungo tempo ciò che era il mio ieri, è stato nulla per me. Di solito attribuisco alle imperfezioni della mente e ai capricci della memoria una certa svagatezza. In realtà, è solo la mia chiusura che impedisce al ricordo di fluire libero. È curioso. Ma l'accendersi del passato si accompagna a una specie di disinteresse per il presente. No, "disinteresse" non è il termine giusto. Timore, ecco. Timore che le cose precipitino in un'angoscia non desiderata".

Come si manifesta questo timore?
"È una bestia strana la paura. A me prende a teatro. Improvvisamente ho la sensazione di non ricordare più la parte, le battute, gli automatismi. È dura. Anche con questo nuovo spettacolo  -  Sinfonia d'autunno per la regia di Lavia  -  ho provato smarrimento".

So che il pubblico l'ha accolta benissimo.
"Il pubblico talvolta mente. Senti l'apoteosi degli applausi, poi esci e ascolti commenti irriguardosi. È come quando incontrandoti qualcuno ti dice: cara non sei cambiata affatto, come ti trovo bene! Ahia, penso io".

Non è, banalmente, insicurezza?
"Sono convinta di non essere convinta fino in fondo di me stessa. Al tempo stesso so che sono in grado in ogni momento di gestirmi e di decidere cosa fare. Non è dunque vera insicurezza quella che mi affligge".

E cos'è?
"È l'orrore di risentirmi, di rivedermi, di ripensarmi. Mi disapprovo, anche sapendo di valere. Qualche tempo fa mi sono imbattuta in alcuni spezzoni della Cittadella, uno sceneggiato televisivo allora di grandissimo successo".

Era la televisione degli anni Sessanta.
"Di una qualità certamente più alta di quella di oggi. Eppure rivendendomi, per un attimo, ho sentito come un morso alla pancia. Che ci faccio io lì, pensavo. E mi sono ricordata della presenza di Alberto Lupo, forse il primo grande divo televisivo".

Cosa le ha fatto rivenire alla mente?
"Che eravamo tutti e due dei fantastici ipocondriaci. Parlava delle sue malattie, più presunte che vere, con voce flautata, morbida, piaciona. L'effetto era bizzarro. Per me, che provengo da una famiglia di musicisti, riconoscere una voce è come carpirne l'anima".

La sua voce che anima ha?
"Sono un po' stonata. Sospetto che la mia anima si abbandoni alle dissimmetrie del suono. Mi piacciono le voci acute e strazianti di certi cantanti".

A proposito di musica suo padre, Antonio Guarnieri, è stato un grande direttore d'orchestra.
"Importante, sì. Ma come figlia non l'ho goduto. Era un uomo dell'Ottocento. Credo che in tutto mi abbia seriamente rivolto la parola quattro o cinque volte nella vita. L'ultima mentre era a letto, nell'imminenza della morte. Gli annunciai che avrei intrapreso la carriera di attrice. E lui, sollevandosi leggermente, mi guardò scuotendo la testa. Ti, si navagabonda, esclamò in veneto".

Quando morì suo padre?
"Nel 1952. Avevo 18 anni. Da allora mi sono trascinata un senso di colpa per non aver sofferto della sua morte. Come è possibile, mi dicevo, che non provo nulla? Mi vergognavo. Eppure era così. Temo fosse un modo per vendicarmi della sua assenza, della sua indifferenza, della sua grandezza".

E sua madre?
"Poveretta. Lo sposò che era giovanissima. C'erano 35 anni di differenza tra loro. Lui la chiamava: la bambina. La portava con sé in giro per il mondo, ai concerti, alle prime. Era la moglie del direttore. Tanto nevrastenico e sarcastico lui, quanto dolce e smarrita lei. La mamma ci contagiò".

Cosa vi trasmise?
"Il suo sistema nervoso si indebolì. E nel tempo passò a me, a mio fratello e a mia sorella un'ansia invasiva e profonda. Sentivo a volte che la terra, da un momento all'altro, dovesse cedere sotto i piedi. Ed era una sensazione che non veniva da una percezione nitida, ma da un oscuro presentimento. Da qualcosa di immotivato".

Il teatro l'ha aiutata a liberarsi dalle ansie?
"Ne ha create di nuove. Da molto giovane avrei voluto fare la maestra. Poi d'un tratto cominciò a vibrare nella mia testa non il desiderio di fare l'attrice, ma il bisogno di contrappormi in qualche modo a mio padre. Facevo il liceo e c'era lo spettro della maturità. Non mi è mai piaciuto studiare. E non ho mai avuto la fortuna di incontrare qualcuno che mi facesse amare lo studio. E pur di liberarmi da questa costrizione cominciai a frequentare non distante dalla Scala, dove il babbo faceva le prove e dirigeva, una scuola serale di recitazione".

Iniziò nel più modesto dei modi.
"Sì. Presto però passai al Piccolo di Milano. Cominciai a studiare con Strehler. Fu interessante. Poi accadde un episodio sgradevole. Mi proposero di recitare una piccola cosa in televisione. Accettai. Senza sapere che quella scelta era considerata dal Piccolo un abominio. Tanto è vero che Paolo Grassi mi espulse per illecito contatto con la televisione".

Lei come reagì?
"Ero allibita. Decisi a quel punto di andarmene a Roma per un provino. Venni presa. Debuttai con Quando la luna è blu . Alla prima assistette Silvio d'Amico. Scrisse un pezzo molto elogiativo che si concludeva così: "È nata un'attrice".

Era il 1953". Quanto deve a Strehler?
"Poco, perché breve fu il rapporto con lui nelle vesti del maestro. I suoi spettacoli sono tra i più poetici che abbia mai visto. Tutte erano innamorate di lui".

Anche lei?
"Non ho fatto in tempo".

Come lo giudica fuori dal teatro?
"Non era un santo. Aveva i vizi, la vanità e le debolezze dell'uomo di successo. Ma era un talento assoluto con una forte capacità di adattamento alle situazioni".

Cosa intende?
"Penso, per contrasto, a Peter Brook. Tutto in lui era purezza, rigore, trasparenza, sacrificio. Strehler no. Strehler doveva tuffarsi nel magma della vita, doveva sporcarsi in essa per poterne ricavare le sensazioni più forti e più autentiche".

Tra i registi ha lavorato molto con Ronconi.
"Ho sempre scelto le persone con cui lavorare. Con Ronconi è stata un'avventura incredibile. E stressante. Dovresti essere lui per restituire le cose che ti chiede. Ha un pensiero capace di spalancarti mondi nuovi. Con lui si gode e si soffre. Luca ha una mente disincarnata".

Con chi altro ha goduto e sofferto?
"Provengo dalla "Compagnia dei Giovani", diretta da Giorgio De Lullo. Un uomo severissimo. Un maestro di etica teatrale. Ore e ore a solfeggiare e a leggere i copioni, tutti insieme, su dei grandi tavoloni. Cilicio puro. Con Franco Zeffirelli  -  nel suo Romeo e Giulietta  -  scoprii la libertà e la gioia di sbagliare".

C'era anche Valli con De Lullo.
"Stavano insieme anche nella vita. Romolo è stato il maestro che mi ha cresciuta e formata intellettualmente. Fu un uomo spiritosissimo. Gli anni della "Compagnia dei Giovani" sono stati bellissimi. Eravamo una vera cricca. Facevamo tutto insieme, perfino le vacanze".

Si è mai innamorata delle persone con cui ha lavorato?
"Mi è capitato. La prima volta è successo con Enrico Maria Salerno. Un uomo molto particolare. Volatile. Affascinante. È stato il primo vero amore della mia vita. Mi ha insegnato ad andare in scena e di questo gli sarò sempre grata. Forse, se fosse stata un'altra persona, lo amerei ancora oggi".

Cos'è che non le piaceva?
"Era inaffidabile. Accecato dalla sua stessa brama. E poi aveva un carattere un po' fascista".

Anche da Albertazzi si è lasciata sedurre?
"Neanche tanto, con lui ho recitato solo Amleto. È stato un uomo capriccioso. Su ogni cosa metteva il marchio della sua vanità. Oggi, a novant'anni compiuti, è una delizia".

Citava Peter Brook. Che rapporti ha avuto con il teatro d'avanguardia?
"Non penso che Brook facesse teatro sperimentale. Lavorava molto sugli attori, liberandoli dalla tirannia del corpo e dello spazio. In questo è stato straordinario. Quanto al teatro d'avanguardia, che si faceva in Italia negli anni Sessanta e Settanta, mi sono distratta. Non lo capivo, non lo amavo. Era un pugno in faccia alla migliore tradizione. Oggi me ne pento. Oggi capisco chi è stato Carmelo Bene. Per anni, noi della "Compagnia" abbiamo riso delle sue assurdità. Oggi mi rendo conto di aver perso qualcosa di fondamentale".

Cosa prova di fronte a qualcosa che non ha fatto e che forse valeva la pena di affrontare?
"Dovrei risponderle che mi rincresce. Ma questo cosa cambia? È la vita con le sue corse, affanni, cadute e rialzate. Ci vuole intuizione. Certe volte penso che vorrei una vita senza aggettivi".

Meno complicazioni?
"Quelle non muoiono. Si può tentare di tenerle a bada".

Come fa?
"L'anno scorso, che ho lavorato un po' meno, sono andata spesso da un analista".

Perché?
"Il tarlo. Tremendo. Per anni mi svegliavo tutte le mattine con questo animaletto che ti rosicchia dentro. Smania, si agita, invade. Butti giù una pillola e lui, buono, si mette a dormire".

E non era sufficiente?
"No. Ci voleva l'intervento umano. Il disinfestatore, come lo chiamo io".

L'analista?
"Proprio lui. Sono andata e gli ho detto: mi liberi da due fobie. La paura della metropolitana e dell'aereo".

C'è riuscita?
"Solo in parte. Faccio ancora fatica a prendere l'aereo. Mi devo drogare. Spegnere ogni vitalità. E nonostante ciò, quando salgo, e sento quel rumore che sembra un grido di dolore, e penso al pezzo di ferro che resiste e non vuole alzarsi, vengo presa dal panico".

Ha paura della morte?
"Spero solo di non accorgermene. Quando accadrà vorrò essere cremata. Tornare alla terra: un prato, una pozza d'acqua. Qualunque elemento componga questa palla che chiamiamo terra. La sola cosa che mi turba è che non riesco a liberarmi dall'attaccamento agli oggetti".

È possessiva?
"Non in quel senso. Penso: io muoio e loro continueranno a vivere. Le foto, i quadri, la scrivania, la casa. Tutto questo mi sopravvivrà. E allora capisco le tombe egizie, dove ogni cosa conviveva con un'idea sacra e domestica della morte. Sarà il mio prossimo compito".

Cioè?
"Chiedere all'analista di liberarmi da questo condizionamento".

È diventata così importante questa figura?
"Una volta mia sorella mi domandò cosa cercavo in quel rapporto. Le risposi: voglio che qualcuno si occupi di me. Lo so, è una frase tremenda. Forse sciocca. Ho ripensato in questi giorni a Sinfonia d'autunno. Al dialogo drammatico tra una madre e una figlia. E la donna anziana si accorge di aver vissuto solo per la musica. Per niente altro. E allora mi chiedo: ho davvero vissuto anch'io?".

Cos'è che ancora e nonostante tutto la tormenta?
"Per lungo tempo ho pensato di non avere radici. E che il solo radicamento fosse in me stessa. Ho scoperto recentemente che queste radici esistono".

Dove sono?
"Risiedono nella consapevolezza che un padre comunque c'è stato. Anche in questo l'analisi mi ha aiutata. Ho rivisto le sue foto e ritrovato delle lettere che scriveva a mia madre parlando in tono affettuoso di me".

Cosa ha provato?
"Qualcosa che esiterei a chiamare pacificazione. Ma un senso di chiarimento e di serenità, sì. Mio padre era molto esigente. Un mago del suono. Meno mediatico di Toscanini. Non ha voluto lasciare niente ai posteri. Ha fatto cancellare quasi tutte le registrazioni. La volontà di sparizione era all'altezza del suo bisogno di perfezione. Credo di averlo frainteso. Non aver capito quanta umiltà si nascondesse nella sua superbia".

E lei oggi si sente alla sua altezza?
"Io sono solo un'attrice. Lui è stato un artista".

Nessun commento:

Posta un commento