mercoledì 12 novembre 2014

Ritratto a Enzo Ragazzini

 Il 5 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Enzo Ragazzini








Ragazzini: "Io, reporter sull'isola di Wight, ai Beatles ho preferito la realtà"

Parla il fotografo che nei lontani anni Settanta era andato al seguito di Franco Basaglia per visitare i manicomi del Sudamerica: "Il mio metodo era speciale. Da A sangue freddo di Truman Capote ricavai la tecnica di montaggio. Pensai che non aveva senso andare in giro a fotografare un quartiere in modo casuale. Scelsi un personaggio. Una prostituta. Si chiamava Enzina. Fotografai tutto quello che era il suo mondo"
di ANTONIO GNOLI 

 IL NOME dirà poco. A me quasi nulla. Tranne il vago ricordo di un fotografo che nei lontani anni Settanta era andato al seguito di Franco Basaglia per visitare i manicomi del Sudamerica.
Poi un giorno Vittorio Sermonti mi chiede se ho mai conosciuto Enzo Ragazzini: "Guarda i suoi lavori: i libri, le invenzioni, lo studio dove opera. Vedrai le sorprese che ne usciranno". È sull'onda di una sincera curiosità che ho sfogliato cataloghi delle sue foto, appassionandomi alla sua storia, alle sue avventure, alla sua arte. A ottant'anni Ragazzini è ancora bello. Da giovane si era prestato a fare il modello: "Renato Fratini, un illustratore geniale che aveva creato il primo manifesto di 007, quello in cui Sean Connery appare con le braccia incrociate e la pistola in pugno, mi chiese di fargli da modello per tutta la serie di film di Mike Hammer. Fu molto divertente. Erano gli anni Sessanta. E Londra una città in totale rivoluzione".

Cosa si porta appresso di quel periodo?
"Nell'ordine ho fatto dei lavori sui Beatles, ho curato la grafica per le copertine dei libri della Penguin. Ho realizzato reportage su Eaton e sulle periferie londinesi. Erano due forme di esclusione: una dalla povertà, l'altra dalla ricchezza. Non ho mai visto classi sociali così nettamente divise. Londra sembrava costruita sui gironi dell'inferno".

Era la sua prima volta?
"Ero già stato a Londra, con Marco Zavattini, il figlio di Cesare, nel 1952. Avevamo compiuto 18 anni. A un certo punto ci raggiunse il padre. Una sera, per festeggiare i suoi cinquant'anni, lo portammo al "100 club" di Oxford Street, il tempio del rock. Guardava tutto con gli occhi affamati di un artista. Non disse una parola".

Era un mondo per lui sconosciuto.
"Totalmente. Ma non sembrava infastidito. Non notai altro. Del resto, non ero in grado allora di misurarne la grandezza. A Roma, nella sua casa dove spesso studiavo con il figlio, un giorno arrivò Charlie Chaplin. E io esclamai: ma quello è Charlot!".

E li vide assieme?
"Si infilò nel suo studio, lasciando un segretario sulla porta. Noi fummo richiamati con la preghiera di non disturbare. Non vidi né seppi altro".

Torniamo alla Londra degli anni Sessanta.
"Avevo abbandonato Roma senza convinzione. Mi ero lasciato con mia moglie. Sul piano della professione la fotografia oltre che una passione era diventata una cosa seria. Avevo dei riconoscimenti, soprattutto nella grafica. Nel 1959 avevo realizzato i murali del Palazzo dello Sport di Nervi. Ancora oggi c'è chi giudica quel lavoro con benevola attenzione. Nel 1963 insieme a Gae Aulenti collaborai alla Triennale di Milano. E a Londra, due anni dopo, trasferii le miei idee e i miei sogni".

Che clima culturale incontrò?
"C'era la "Swinging London": un fenomeno importante ma circoscritto. Direi vissuto più fuori dell'Inghilterra che dentro. Comunque la rivoluzione culturale si impose. Soprattutto nella moda e nella musica. Meno nell'arte. Nel campo della fotografia facevo sperimentazione anticipando i temi e le tecniche della "Optical Art" e perfino di Andy Warhol. Fu un periodo pazzesco. Creatività a mille. Fui chiamato a lavorare all'Expo di Montreal, aprii uno studio prestigioso a Kensington, collaborai con lo studio Pentagram, che aveva i più grandi designer del momento, divenni amico di Alan Fletcher. Da povero e senza un soldo in tasca mi ritrovai improvvisamente ricco. Fu allora che mi tornò in mente la lezione di Zavattini".

Il neorealismo?
"Diciamo l'impatto con la realtà".

Però erano anni psichedelici.
"Si facevano tutti: da John Lennon a Syd Barrett, il leader dei Pink Floyd. Ero da più di un anno a Londra quando ci fu quel clamoroso happening all'Alexandra Palace: un'orgia psichedelica che durò tutta la notte fino al mattino dopo. I Pink Floyd suonarono alle prime luci dell'alba. Fu in quella circostanza che Lennon e Yoko Ono si conobbero. Ma il mio interesse per la musica prese un'altra strada".

Quale?
"Era il lato antropologico che mi incuriosiva. Fu con queste intenzioni che nell'agosto del 1970 partii per l'isola di Wight. Lì mi resi conto che improvvisamente erano saltate le barriere sociali. Più di seicentomila giovani, di tutte le estrazioni sociali, per una settimana si radunarono ad ascoltare le band e i cantanti del momento. La star era Jimi Hendrix. Ma era un uomo stanco e deluso. Il pubblico si divise. Fu una delle sue ultime apparizioni. Suonarono anche i Doors, Miles Davis, i Moody Blues. A me interessava meno la musica e più l'umanità che quel lembo di isola in quel momento rappresentava".

E cosa fotografò?
"Dovevo scegliere: celebrare il sistema e i suoi divi o dare spazio a quel mondo anonimo di cui nessuno si occupava? Ricordo l'emozione che provai, qualche anno prima, era il 1967, quando andai in Sicilia a fotografare Danilo Dolci e la sua "marcia per la pace". Quel reportage  -  che poi divenne un libro  -  entusiasmò Federico Zeri. Per me, che avevo lasciato momentaneamente Londra, significò fare un balzo indietro di mille anni. Eppure, vedere la forza di Dolci, il modo in cui si batteva per i diritti e per la giustizia, mi sembrò dare un senso profondo al mio lavoro. E la cosa si sarebbe ripetuta, anche se in maniera diversa, con Franco Basaglia".

Basaglia lo psichiatra?
"Di lui non sapevo nulla. Il mio solo contatto con la psichiatria me lo avevano dato alla Penguin chiedendomi di realizzare la copertina di un libro di Laing. Per il resto avevo saputo che quest'uomo, ancora giovane e sospettoso, lavorando allo smantellamento degli ospedali psichiatrici aveva trovato degli spunti interessanti proprio nell'America del sud".

Perché dice sospettoso?
"Quando lo raggiunsi a San Paolo lui sapeva soltanto che arrivavo da Londra e facevo il fotografo. Basaglia, come più volte sottolineò con disprezzo, detestava la "Swinging London". Ai suoi occhi rappresentavo quel mondo. Non c'era cosa che facessi senza che non avesse da ridire. Pensai: guarda questo rompiballe. Per fortuna un suo cugino, pittore non privo di talento, che era venuto al seguito, gli spiegò chi ero, il mio lavoro e cosa avevo fatto. Si calmò. E fu straordinario, da quel momento, visitare con lui quegli istituti per matti che erano decisamente più avanzati dei nostri. Restammo un mese assieme. Fotografai tutto: favelas, città, volti e luoghi di disperazione e di gioia".

E dopo?
"Partii con l'unica donna che mi interessava del gruppo. Anche lei fotografa. Tedesca, sposata con un attore e nipote dell'attentatore di Hitler. Si chiamava Dorothea von Haeften. Partimmo insieme per il Guatemala e poi per il Messico. Basaglia divenne un ricordo. Allora pensavo che della fotografia non gli interessasse nulla e che fosse solo un uomo furiosamente ideologico. Ci sono voluti anni per capirlo e apprezzarlo. Mi torna in mente un episodio. Eravamo in una grande favela di Rio e Basaglia, tra i cani e le galline che si rincorrevano, la polvere sollevata dai bimbi, spiegava come quel mondo, così povero, era ai suoi occhi un buon esempio di comunità terapeutica. Un luogo, al di là delle difficoltà, fatto di solidarietà. Ecco, quest'uomo, compresi dopo, non si limitava a teorizzare".

E in seguito cosa accadde?
"Tornai a Londra con qualche complicazione sentimentale. Ripresi il mio lavoro. Ma era come se quella città, che avevo agognato e mitizzato, non bastasse più. Alla fine, grazie anche all'amicizia con Giorgio Soavi e al rapporto con Leonardo Sinisgalli, entrambi legati ad Adriano Olivetti, progettai qualcosa di folle: ripensare cosa fosse il mondo prima dell'ingresso del motore. Cosa restava di quella civiltà millenaria che aveva basato la sua economia del trasporto a piedi, sui carri, lungo i fiumi? Scelsi i Tropici. Alcune zone dell'India del Nord, il Nepal, il Perù, il Mali. Risaltava la distanza dall'Occidente. Il libro, che ne ricavai, ebbe un'introduzione di Goffredo Parise. Restò colpito da quella bellezza di cui erano rimaste solo delle tracce".

Quanto è importante la bellezza di una foto?
"È l'ultima delle mie preoccupazioni. Bellezza vuol dire per me intensità e testimonianza. Come quando nel 1976 fotografai il Quartiere Sanità di Napoli".

Cosa aveva di speciale?
"Il metodo era speciale. Da A sangue freddo di Truman Capote ricavai la tecnica di montaggio. Pensai che non aveva senso andare in giro a fotografare un quartiere in modo casuale. Scelsi un personaggio. Una prostituta. Si chiamava Enzina. Fotografai tutto quello che era il suo mondo".

Immagino che non fu semplice.
"No, infatti. Dovetti farmi amico Gennaro, un contrabbandiere che aveva un certo ascendente sul quartiere. Fu lui la guida".

E quale era la storia di Enzina?
"Aveva 18 anni, ma ne dimostrava di più. Il padre venditore ambulante; la madre casalinga gli aveva sfornato una decina di figli. Vivevano tutti in un basso. Enzina se ne era andata. La prima volta che la vidi, batteva accanto a un enorme pneumatico, nell'hinterland napoletano. Era una ragazza timida. Piena di fobie. Aveva paura, mi disse, di dormire da sola. Tanto è vero che condivideva il suo letto con un certo Enzino, un omosessuale soprannominato "'u ricchiuncello". Anche lui timoroso di dormire solo. Era sublime vedere queste due creature che si davano forza reciprocamente".

Che umanità fotografava?
"Dolente, misera, ma anche stravagante. Fatta di personaggi pittoreschi, come "Mimì 'o guardone" che, quando non vendeva sigarette di contrabbando, spiava le coppie in amore. Tutto era vissuto senza reticenze. Ricordo Vittoria, una lesbica che si era innamorata di Enzina. Un pomeriggio Vittoria le si presentò a casa. T'ho fatto un regalo, disse. E che mi hai regalato? Da una borsa tirò fuori una radio, con i fili strappati. Era stata appena rubata. Era questo il mondo del Rione Sanità. De Filippo ha raccontato le anime di quel mondo. Io mi sono limitato ai corpi".

Che genere di fotografo ritiene di essere?
"Non mi sento un artista. Non faccio arte. Pellegrin e Florio hanno dichiarato, in più di un'occasione, che sarei, in qualche modo, il loro maestro. Non sono maestro di niente. Mi limito a pensare che la fotografia è tecnica: lenti, obiettivi, luce. Ci vuole una notevole dose umana per realizzarla. Non la racconto, non la teorizzo. La vivo".

Cosa pensa di Roland Barthes e del suo discorso sulla fotografia?
"Ha detto molte cazzate, ma le ha dette bene. Con grazia".

È così difficile immaginare una relazione tra arte e fotografia?
"È difficile per me, non so per gli altri. Capisco che l'immagine fotografica sia entrata prepotentemente nell'arte da quando Warhol l'ha santificata. E gli altri hanno santificato Warhol".

Le piacciono i suoi lavori?
"Li detesto. Chiamavo sperimentazione ciò che lui ha definito arte".

Cos'è che non convince?
"È stato il cattivo erede di Duchamp. Il quale a sua volta era sì un discreto pittore. Ma per sua disgrazia visse nello stesso tempo di Picasso e Braque. Capì che non ce la poteva fare con quei due mostri. E siccome era un astuto giocatore di scacchi, come risposta si inventò l'orinatoio".

Una mossa geniale.
"L'hanno chiamata ready made, per me la prima bolla mediatica del Novecento. A Parigi nessuno se ne accorse. Poi nel 1913 New York consacrò Duchamp. Fu l'élite americana a impadronirsene per contrastare la pittura europea. Possibile che un "pisciatoio" potesse essere più importante di un quadro di Balla o di Boccioni?".

E Warhol in tutto questo?
"Si è autoinverato, come certe profezie. Credo sia stato un grande promoter di se stesso. Un talento della comunicazione globale. Provvisto della necessaria furbizia. Quando incontrò Basquiat, lui sì artista straordinario, seppe approfittarne facendogli fare tutto quello di cui non era stato capace".

Cos'è arte oggi?
"Da tempo l'arte ha smesso di danzare attorno al fuoco. È diventata un gesto deplorevole: freddo, calcolato, mentale. Non ho mai amato il concettuale. Prima di trasferirmi a Londra venivano spesso nel mio studio romano Festa, Angeli, Schifano. Gli si leggeva negli occhi il biasimo per la realtà. E io pensavo: ma che ci fanno qui? Con le loro velleità, ambizioni, sogni. Sono tutti morti. Non li ho amati ma neppure disprezzati. Mi sono sembrati eclatanti e inutili. Come le loro cose".

 

foto © Enzo Ragazzini dalla Home Page del suo sito

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