#Atlantide #giornatadellamemoria #edithbruck
Per Edith.
Mauro Biani
Per #Atlantide @La7tv
per la #GiornatadellaMemoria un documentario esclusivo – presentato da Andrea Purgatori- dal titolo “Edith”. La storia della scrittrice e poetessa sopravvissuta all’olocausto e alla deportazione nei campi di concentramento #EdithBruck
Mauro Biani
Edith Bruck e la memoria: "Il nostro grido ci sopravviverà"
La poetessa non concorda con Segre: non finisce tutto con noi
Anni e anni di ricordi, racconti, diari, libri, in poche parole testimonianze: Liliana Segre avanza negli anni e con lei avanza anche un intimo timore, quello dell'oblio.
Non tanto sulle singole vite, sulle tragiche storie personali, quanto sulla capacità stessa delle nuove generazioni di tenere vivo il ricordo della Shoah, della guerra, delle vittime dell'olocausto.
Un approccio contestato da Edith Bruck, scrittrice e poetessa di origini ungheresi naturalizzata italiana, sopravvissuta all'olocausto e alla deportazione nei campi di Auschwitz, Dachau e Bergen- Belsen.
"Ho sentito Liliana quando ha detto che con noi finisce tutto, che non ha speranza che rimanga molto della memoria e mi è dispiaciuto molto sentire questa cosa. Io credo che resti qualcosa, che la nostra testimonianza, i nostri libri, i nostri versi, il nostro gridare, i nostri pianti non siano stati inutili. Non per noi, ma proprio per i giovani, per il futuro dei giovani, per un mondo minimamente migliore, sarebbe molto grave se fosse stato vano tutto quello che abbiamo detto, tutto quello che abbiamo scritto e tutto quello che è successo, se sarà dimenticato. Io spero che resti qualcosa" dice la scrittrice intervistata da Sky Tg 24.
E proprio l'intellettuale ungherese è anche al centro di un documentario esclusivo realizzato da Andrea Purgatori con 3D Produzioni in collaborazione con n La7 in occasione della Giornata della Memoria, proprio per non dimenticare gli orrori della Shoah. Si apre con Edith Bruck intenta a guardare un vecchio documentario ungherese, "A Látogatas", che in italiano significa "La visita". È lei sullo schermo, più giovane, nel 1982, tornata in Ungheria per rivedere la casa dove è nata e dove venne catturata. Attraverso queste immagini, inedite in Italia, compare il ritratto di una donna capace di continuare a vivere e amare e che non tralascia nulla della sua storia: dal Lager all'amore infinito per il poeta Nelo Risi, fino alla scrittura che le ha permesso di continuare a vivere. Tutto disegnato alla luce dell'oggi, nella casa di Via del Babuino dove abita da 62 anni, circondata dai colori e dai rumori della Roma "eterna", come la definisce Edith, quella che ormai è diventata la sua patria, "tra piazza del Popolo e piazza di Spagna".
fonte ; https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/2023/01/25/edith-bruck-e-la-memoria-il-nostro-grido-ci-sopravvivera_683e74a9-987b-461e-8c73-4a09e1fae0e4.html
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GIORNO DELLA MEMORIA 2023
Gianfranco UberGIO / Mariagrazia Quaranta
Per non dimenticare #GiornatadellaMemoria #Giornodellamemoria2023 #27gennaio
Durando
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Bambini col pigiama a righe
Giannelli
Giorno della Memoria.
Milo Manara
Giornata della Memoria 2023. Ecco il mio disegno per il 27 gennaio. "Memoria di libertà" by ©️Chenzo, www.chenzoart.it #giornatadellamemoria #Shoah #olocausto #MemoriaStorica #ebrei #disegni #vignette #27gennaio #chenzo
Lorenzo Bolzani - Chenzo.
Il Giorno della Memoria.
Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche della 60ª Armata arrivarono presso la città polacca di Auschwitz, scoprendo il vicino campo di concentramento e liberandone i superstiti. La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono per la prima volta al mondo l’orrore del genocidio nazista.
Ad Auschwitz, circa dieci giorni prima, i nazisti si erano ritirati portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono durante la marcia stessa.
L’apertura dei cancelli di #Auschwitz mostrò al mondo intero non solo molti testimoni della tragedia, ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento utilizzati in quel lager nazista. (fonte Wikipedia)
#ilgiornodellamemoria #olocausto
Tartarotti
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-AUSCHWITZ, IN POSA PER MORIRE
di Alessandro Melazzini
Il fotografo polacco Wilhelm Brasse rifiutò di battersi per Hitler e fu internato nel lager. La sua professione lo salvò, ma fu obbligato a scatti atroci. Oggi racconta l'impotenza di allora - «Una volta venne un marinaio con tatuato il paradiso. Tempo dopo vidi la sua pelle conciata, serviva per coprire un libro»
Ha guardato negli occhi la morte. L'ha fatto per cinquantamila volte. Avvene quando era giovane. Ora Wilhelm Brasse è un anziano signore dal sorriso affettuoso e i modi gentili. Mi accoglie sulla soglia della sua modesta casetta nei pressi della cittadina polacca di Zywiec. Un tempo questa era la regione della Slesia, dove ebrei, polacchi e tedeschi convivevano in un intreccio pacifico di lingue e culture sotto la dinastia degli Asburgo. Wilhelm nacque loro suddito nel dicembre di 92 anni fa. Poi venne la grande crisi del '29, il padre perse il lavoro e suo figlio non poté finire il ginnasio. La madre lo iscrisse a un corso di fotografia e senza saperlo gli salvò la vita. Nel 1939 la Germania invase la Polonia e Wilhelm dovette compiere una scelta fatale. Diventare cittadino del Terzo Reich o rimanere polacco. Optò per la sua patria e cominciarono le vessazioni. Tentò allora la fuga attraverso il confine con l'Ucraina, ma venne tradito e consegnato ai nazisti. Era la Pasqua del 1940. Passarono quattro mesi di cella, poi dai soldati tedeschi venne un'ultima possibilità. Arruolarsi nella Wehrmacht o essere trasferito in una prigione sconosciuta. Wilhelm scelse di non combattere per le armate di Hitler e nella notte un treno lo portò ad Auschwitz.
«Picchiandoci con urla selvagge i kapò e le SS ci fecero scendere, ci tolsero i vestiti e ci diedero una divisa a strisce. Da quel giorno diventai un numero, il 3444». Quando Wilhelm arrivò nel lager tutto era ancora in costruzione, ma sul piazzale dell'appello il vicecomandante Karl Fritzsch chiarì subito ai prigionieri cosa li aspettava. «Questo non è un sanatorio. Questo è un campo di concentramento. Qui un ebreo vive due settimane, un pretaccio dura un mese, gli altri prigionieri tre». Aveva detto la verità. «All'inizio venni assegnato al comando costruzione strade. Il primo giorno il kapò uccise con un bastone 4 o 5 prigionieri senza motivo. Era così violento che cercai un altro lavoro». Agli inizi nel lager era ancora possibile muoversi con una certa libertà. «Chiesero se qualcuno voleva un'occupazione leggera con cibo extra, io mi presentai subito. Venni assegnato al trasporto cadaveri. Trascinavo un carretto pieno di salme fino al crematorio. Il lavoro era facile, ma non ce la feci a resistere, cambiai ancora finendo in un comando guidato da un kapò tedesco che finalmente non urlava né picchiava».
Brasse ancora oggi ricorda tutti i nomi delle persone conosciute nel lager. Il kapò si chiamava Markus e portava un triangolo nero sulla divisa: per i nazisti era un «asociale». Perso il lavoro si era arruolato dieci anni nella legione straniera, tornato in patria venne subito arrestato. «Gli feci da traduttore, poi grazie a lui passai nelle cucine a trasportare pentoloni, infine nel febbraio del '41 superai una prova come fotografo e venni assegnato al reparto di polizia».
Da quel momento e per quattro anni Wilhelm fotografò migliaia di deportati come lui. Per ognuno tre scatti, di fronte, di lato e con il cappello. «Ma non i prigionieri con gli occhi pesti o segni di maltrattamento. Quelli dovevano tornare più tardi, anche se quasi tutti venivano uccisi prima». Talvolta accadeva per il semplice diletto di un sorvegliante sadico, come Krankenmann, il detenuto più brutale del campo, che rubava il cibo alle sue vittime dopo averle strangolate con le proprie mani. «Uccideva gli uomini come le mosche. Era grasso come un maiale e si divertiva a sedersi sui prigionieri più magri spezzando loro la colonna vertebrale». Wilhelm fu fortunato, Bernhard Walter, l'SS che comandava il suo reparto, non era un fanatico come gli altri: nelle braccia di Hitler era finito per scampare a un'esistenza da stuccatore disoccupato. Wilhelm poteva vivere al caldo, mentre vedeva i suoi compagni strisciare nella pioggia e nella neve. Ma anche la sua occupazione non lo preservò dagli orrori di Auschwitz. «Un giorno riconobbi nella fila del corridoio alcuni miei vicini di casa ebrei. Diedi loro delle sigarette e un pezzo di pane, anche se era vietato». La voce dell'anziano sopravvissuto s'incrina. «Nel mio gruppo c'era un kapò. Triangolo verde: un comune assassino, ma con lui si poteva parlare. Gli implorai che se doveva ucciderli, almeno lo facesse senza farli soffrire». Il giorno dopo erano tutti morti. «Riesce a capire cosa significa pregare qualcuno perché conceda una morte lieve?» mi chiede Brasse con le lacrime agli occhi. Cosa posso rispondere a un uomo che ha visto l'inferno? Lo prego di raccontarmi ancora.
Ogni giorno fotografava dai 50 ai 150 deportati. Se qualcuno aveva dei tatuaggi, il medico del campo li voleva ripresi nel dettaglio. «Una volta si presentò un marinaio di Danzica. Alto, muscoloso, ben formato. Sulla schiena aveva tatuato il Paradiso con Adamo, Eva e il serpente. In due colori, rosso e blu. Lo ricordo tutt'ora: davvero l'opera di un maestro. Dopo un mese un amico mi chiamò dal crematorio. E cosa vidi? In fondo a un tavolo la pelle della schiena di quello sfortunato, tesa e pronta per essere conciata. A cosa serviva, chiesi scioccato? Per rilegare un libro, fu la risposta».
Presto a Wilhelm venne ordinato di non fare più foto agli ebrei: secondo la direzione del lager non ne valeva la pena, tanto morivano sempre più in fretta. «Alla fine dell'autunno del 1941 giunsero 11mila prigionieri di guerra russi. Vennero ammazzati in maniera orribile, lasciati congelare nudi nella neve, mentre delle SS con le maschere a gas lavoravano intorno al blocco 11 per isolarlo. Quando tutto fu pronto, vi mandarono dentro i 600 soldati russi sopravvissuti, insieme a 400 malati». Fu il collaudo, perfettamente riuscito, per testare l'efficacia dello Zyklon B. Ma il crematorio di Auschwitz era troppo piccolo per tutti quei cadaveri, così nel vicino lager di Birkenau ne vennero edificati altri due, dotati di camere a gas. Stavano a poca distanza dai binari del treno, così da rendere più comodo l'assassinio di massa. Alcune SS scattarono sequenze fotografiche durante le varie tappe della soluzione finale. L'arrivo del treno, le selezioni, lo spoglio degli averi, la camera a gas, i corpi ridotti in cenere. «Venni incaricato di sviluppare le foto e ordinarle in un album: volevano tenerlo come ricordo».
Uomini, donne e bambini. Brasse doveva riprendere degli indifesi come fossero criminali. «Non dimenticherò mai questa povera ragazzina – mi dice mostrandomi la foto di un'adolescente con un foulard in testa –. Una sorvegliante le ordinò di toglierlo, ma la poveretta non capiva il tedesco. La donna s'infuriò e prese a frustarla sulla faccia. Dio mio, quale crimine poteva avere commesso quella piccolina per meritare un trattamento simile?». A parte i continui insulti, con lui i guardiani nazisti erano generalmente cortesi e talvolta in cambio di propri ritratti da spedire all'amata gli concedevano del cibo extra. Tra le SS più educate, un giovane medico che gli richiese delle riprese speciali. Foto di donne ebree nude. «Fu imbarazzante, pregai le custodi di mettere quelle povere ragazze in posa, io non volevo sfiorarle. Ma rifiutare di fotografarle non mi era concesso, pena la vita. Quando chiesi a cosa servivano quegli scatti, mi dissero: per degli esperimenti». Il dottore si chiamava Josef Mengele. «Per lui fotografai anche vari nani e dei gemelli. Ogni volta che aveva bisogno, me lo chiedeva con la massima gentilezza. Mengele fu la persona più terribile che incontrai. Krankenmann? Quello era una bestia. Ma come poteva Mengele comportarsi così educatamente con me e nello stesso tempo mandare in un sol giorno mille o duemila ebrei nelle camere a gas? Era una doppia natura. Ancora oggi quell'uomo è per me un mistero».
Altri medici gli ordinavano invece di fotografare ragazzini denutriti o l'utero estratto da donne addormentate col sedativo; per un certo periodo collaborò anche con un disegnatore impegnato a falsificare dollari. Ma la foto più incredibile scattata da Brasse ad Auschwitz ritrae una coppia di sposi. «Le nozze del mio amico Rudi Friemel. Era un meccanico bravissimo. I tedeschi avevano bisogno di lui per riparare i motori diesel e gli concedettero persino di portare i capelli lunghi. Con il permesso di Himmler nella primavera del '44 la sua fidanzata spagnola poté raggiungerlo col figlio ad Auschwitz, e qui sposarsi». Qualche mese più tardi Rudi venne preso durante un tentativo di fuga e impiccato seminudo.
Nel gennaio del 1945 le SS sentirono avvicinarsi l'Armata Rossa. Il capo ordinò a Wilhelm di bruciare tutto, ma questi riuscì a salvare molte foto perché i negativi erano ignifughi. Pochi giorni prima della liberazione lo trasportarono prima a Mauthausen, poi nel lager austriaco di Melk. «Il paesaggio era bellissimo, vicino al Danubio. Producevano cuscinetti a sfera in una fabbrica sotterranea ma io dovetti lavorare con pala e badile all'aperto. Dopo due mesi ero ridotto a pelle e ossa. Fu allora che, distrutto, maledii mia madre per avermi partorito».
Nuovamente le lacrime scorrono sul viso di questo vecchio sopravvissuto all'orrore. «Invece gli americani mi liberarono. Ancora oggi mi pento di quello che dissi contro mia mamma».
(Il Sole 24 Ore – Domenica 24 giugno 2009 n. 162)
POST SCRIPTUM di Ivano Sartori
È probabile che riusciate a leggere questo pezzo, ma non vediate qualcuna delle foto che lo corredano. La censura Facebook è tale da ignorare le verità della storia. Ed è un peccato, considerato che Mark Zuckerber discende da una famiglia di origine ebraica. Comunque vada, gli algoritmi kapò non potranno eliminare la testimonianza scritta, molto più potente di qualsiasi immagine.
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