martedì 20 ottobre 2020

Morti Enzo Mari e Lea Vergine ad un giorno di distanza

 


Enzo Mari ©Riccardo Mannelli


Morti Enzo Mari e Lea Vergine ad un giorno di distanza, il coronavirus ci ha privato di due grandi della cultura italiana.

IERI È MORTO ENZO MARI famoso designer: «Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati»

Oggi la moglie LEA VERGINE famosa critica d'arte: “L’arte non è necessaria. È il superfluo. E quello che ci serve per essere un po’ felici o meno infelici è il superfluo. Non può utilizzarla, l’arte, nella vita. ‘Arte e vita’ sì, nel senso che ti ci dedichi a quella cosa, ma non è che l’arte ti possa aiutare. Costituisce un rifugio, una difesa. In questo senso è come una benzodiazepina”


La faccia scavata e in parte coperta da una barba bianca, i capelli leggermente arruffati e lo sguardo severo e perso. Enzo Mari somiglia a Ezra Pound: «Dopo gli ottant'anni tutti i vecchi somigliano a Pound», dice con leggero sarcasmo. Siede su un divano, disegnato da lui. Gli sono accanto. Incollato da sentirne il respiro, le pause, la disperazione: "Non è un divano. È la mia nave. Ci vivo da anni. Salgo a bordo la mattina e scendo la sera. Qualche breve intervallo. Pisciare. Mangiare. Rispondere a qualche scocciatore. Dormire. Io e questo cazzo di divano siamo diventati una cosa sola. Potrei ancora progettare da qui; richiamarmi alla realtà, il solo tabernacolo al quale mi inchino. Ma so che è tutto inutile. Superata una certa soglia mentale tutto diventa inutile».

Qual è la parola meno inutile che conosce o che oggi impiegherebbe?

«È la parola "cazzate". Ormai si dicono solo cazzate. Conosce per caso discorsi seri, argomentati, convincenti in grado di spiegare il nostro presente?».

Cosa intende per «cazzate»?

«È la nostra inadempienza - morale, estetica, conoscitiva - verso il mondo. Una parola di denuncia, intendo questo. Ma non serve. È inutile, come questa città nella quale vivo».

Lei è nato a Milano?

«Sono nato nel 1932 in un ospedale di Novara. Fino all'età di tre anni ho abitato con la famiglia a Cerano. Sulla sponda del Ticino dalla parte del Piemonte. Poi ci trasferimmo a Milano».

Immagino per lavoro.

«Mio padre non sapeva fare nulla. Sopravviveva. Mia madre stagionalmente faceva la mondina. Una figura fin troppo mitizzata. Altro che belle ragazze con le cosce tornite e i seni prosperosi. Tornava, la mamma, che era uno straccio. Eravamo persone molto povere. Isolate. La sola compagnia veniva dalle zanzare. Mi hanno voluto bene, intendo i miei. Ma non ricordo un gesto di intelligenza, di generosità. Era un affetto rassegnato, il loro».

A Milano come fu l'impatto?

«Non lo ricordo. Mio padre trovò un lavoro più stabile in una bottega di barbiere. Sarebbe stato questo, in seguito, il suo mestiere. Aveva programmato un figlio ogni cinque anni. Non so cosa gli frullasse per la testa. So, che in seguito, nacquero un fratello e una sorella».

La sua adolescenza?

«Tra la guerra e il dopo. Ci fu l'occupazione nazista. La città brulicava di tedeschi e di fascisti. Il quartiere generale dei nazisti era all'Albergo Regina. Vi si era installata la Gestapo. E poi c'era San Vittore, diventato il carcere delle torture. Un altro luogo del terrore era Villa Trieste, tristemente celebre grazie alla Banda Koch».

Come visse quei mesi?

«Non furono mesi. Ma quasi due anni durissimi, dal 1943 al 1945. C'è un episodio che mi torna alla mente. Eravamo verso la fine. Scuola elementare. Quarta o quinta. Il maestro ci dà un tema: descrivete la vostra città. Consegno il foglio. L'insegnante comincia a elogiare tutti i temi, tranne il mio. Anzi, neppure mi nomina. A quel punto scoppio a piangere».

E cosa accade?

«Il maestro mi si avvicina e mi dice: non devi piangere, il tuo era il componimento più bello, ma se lo avessi elogiato, sia tu che io, avremmo rischiato la rappresaglia. Avevo raccontato la violenza della città, gli ammazzamenti cui avevo assistito. Il gioco sadico con cui le milizie fasciste legavano la corda al collo dei malcapitati e lentamente stringevano fino al soffocamento. Sui banchi di scuola alcuni compagni più grandi di me esibivano minacciosi la rivoltella».

Finita la guerra e l'occupazione?

«Milano, come Roma suppongo e altri centri, viveva in uno stato di febbrile eccitazione. Mi sentivo un estraneo».

Perché?

«Era il senso della sopravvivenza che si imponeva su tutto il resto. Ecco, mi sentivo un sopravvissuto. Non avevo strumenti per relazionarmi agli altri. Non sapevo parlare. Né ridere. Trovai un lavoretto che per un po' mi permise di guadagnare qualche soldo. Svuotavo le cantine dei condomini dalla spazzatura. Ci fu gente in passato che uccideva i chiari di luna, io uccidevo topi della stazza di un bassotto».

E la Milano culturale?

«Quale? Non avevo nessun rapporto. Intendiamoci cominciavo ad avere le mie idee in fatto di arte e di design. Mi iscrissi all'Accademia di Brera. In realtà fu un espediente per evitare il servizio militare. Giravo per gallerie, assistevo a qualche conferenza. Ma restavo sempre zitto. Silenzioso. Guardavo con disprezzo le cose del mio piccolo mondo. Cominciavo a interessarmi agli effetti della percezione visiva e al ruolo sociale che poteva rivestire il design».

Una figura importante è stata per lei Bruno Munari.

«Sì, in lui avevo individuato la persona più vicina al mio modo di concepire l'arte. Era più grande di me. Forse aveva l'età di mio padre. Andai a trovarlo. Mi disse dove raggiungerlo. Pensai che avesse uno studio. Invece lavorava a casa. Lo vidi su un divanetto con un taccuino in mano che disegnava. Gli mostrai i miei lavori. Li apprezzò. Mi incoraggiò e in seguito collaborammo ad alcuni progetti comuni».

Che anni erano?

«La seconda metà degli anni Cinquanta. Alla fine di quel decennio sia Munari che Max Bill scrissero una piccola monografia su di me. A Max estorsi un testo andando a trovarlo in Svizzera. Con Bruno il rapporto si era consolidato. Tanto che nel 1962 realizzò per la Olivetti la mostra "Arte Programmata". Fu un successo che in seguito esportammo in giro per l'Europa e a New York».

Cos'era l'«Arte Programmata»?

«L'espressione la coniò Munari, credo insieme a Giorgio Soavi, in quegli anni il punto di riferimento artistico culturale alla Olivetti. Si trattava di un lavoro sulle neoavanguardie cinetiche. Ossia quei gruppi di artisti (Gruppo N, Gruppo zero, Grav) o singoli - come Alexander Calder, Jean Tinguely, Salvatore Scarpitta - che avevano in qualche modo posto al centro l'idea della macchina come espressione del vivente».

Le macchine di fatto già occupavano la vita delle gente. Dov'era la novità?

«Munari aveva profeticamente colto proprio il senso di alienazione e di asservimento che dalle macchine si originava. E immaginò che l'artista con i suoi oggetti "cinetici" potesse riscattare questo stato di servitù. Condividevo il suo punto di vista, anche se Bruno restava un idealista e io ero un materialista».

Materialista nel senso?

«Tutto il mio lavoro è sempre partito dalla realtà. Per me il problema era chiaro: si realizzano cose per sopravvivere. Nel nostro mondo industriale non sono i sogni e le favole a guidare i progetti. È il profitto. Come rispondi al profitto? Il design italiano - indiscutibilmente grande - ha pensato che l'estetica fosse la soluzione. L'alibi. Franco Albini, Achille Castiglioni, Ettore Sottsass, Marco Zanuso - tutti di una generazione precedente alla mia - hanno guardato all'estetica. Io alla forma».

Dov'è la differenza?

«Un oggetto non deve piacere a tutti; deve servire a tutti. Indipendentemente da quello che ciascuno pensa. Dalla fede che ha. Dall'ideologia che persegue. Naturalmente è un'idea limite. Ma l'ho sempre considerata un mio precetto. Non si può sovrapporre la bellezza alle situazioni di vita. Ed è la vita che conta. Ha mai visto le case del Sud?».

A cosa allude?

«Al fatto che quasi sempre sono costruzioni mai finite. Non c'è mai un tetto, ma tondini di ferro che spuntano come lance, mattoni a nudo, scheletri di muretti. Pensano che prima o poi aggiungeranno un altro piano. Questo pensano, nel nome della vita. Fottendosene dell'estetica».

Ma come fa un artista a escludere la bellezza dal proprio orizzonte?

«Non so cosa voglia dire essere artisti. Particolarmente oggi che nell'arte si produce soprattutto merda».

Tutto il suo lavoro come lo definirebbe?

«Un tentativo di arginare la merda. Ciò che conta è la conoscenza. E questa deve basarsi sull'esperienza storica. La qualità di questo mondo è terrorizzante. Forse esagero con l'idea di purismo. Ma sono convinto che nella forma vada eliminato il superfluo per ritrovarla povera, essenziale».

C'è una forma in particolare che accetta?

«Una forma è giusta se è; non è giusta se sembra. Decenni di postmoderno hanno avvelenato l'aria, più dell'Ilva di Taranto. Un guazzabuglio di pensieri e di teste fintamente pensanti hanno liberato le forme dalla loro responsabilità. E pensare che il cervello è la macchina più potente che ci sia! Ho sempre insistito con i miei allievi: usatelo. Uscite dal conformismo. Dimenticate i libri e le pubblicazioni scolastiche. Ragionate con la vostra testa».

A proposito di libri, lei è famoso anche per avere ideato parecchie copertine.

«Famoso non saprei. Nel 1963 progettai la grafica delle prime copertine Adelphi, per la collana i classici. Poi anche per la Boringhieri e altre case editrici».

Anche qui il principio dell'essenzialità?

«Sì. Se il testo è giusto non ci sono parole più importanti di altre che vanno in qualche modo gridate o sottolineate».

Cosa legge?

«Un tempo leggevo di tutto. Oggi mi limito ai testi scientifici. Perché lì non si può barare. Non si possono sovrapporre sogni».

Lei ha un figlio scrittore: Michele Mari.

«Ho anche una figlia e diversi nipoti. E una moglie, Lea Vergine».

Comincerei da suo figlio.

«Lo vedo di rado. Anzi quasi mai».

Ha dichiarato, o scritto, che è stato un padre difficile, importante, per certi versi terrorizzante.

«Se esistesse un Dio - e non esiste - si rivelerebbe nei bambini, nella loro straordinaria purezza e intelligenza».

Cosa intende dire?

«Che alla nascita l'infanzia non è condizionata dal nostro sistema di regole e di comunicazione. Sono in disaccordo con le persone che vezzeggiano i bambini. Non gli si insegnano le parole giuste. Ho molto rispetto per loro, perché dargli delle regole?».

Insomma, la cura è una forma di indifferenza e di severità.

«Non c'è cura. C'è il carattere».

Quello di suo figlio è abbastanza franco da continuare così: «Mio padre mi ha insegnato a non curarmi degli altri, mi ha insegnato a non cercare mai di piacere agli altri. Ero un bambino depresso. Ma per lui essere soli era un titolo di merito. Mi diceva: le aquile volano da sole, i polli razzolano in compagnia e io mi bevevo quello che diceva...». Si riconosce?

«Il confronto etologico sulla natura dei diversi volatili mi pare conservi una sua verità spicciola. Vede, di mio figlio giovanissimo apprezzavo la forte capacità di autonomia rispetto al bric-à-brac delle cose che venivano raccontate. Era la riprova che i piccoli rappresentano un universo a parte».

Poi crescono, si integrano e arriva la delusione. Questo intende?

«Intendo che alla fine ciascuno è un'isola. Ogni testa è un'isola. Vorrei farle una domanda io. Anzi avrei dovuto fargliela prima di iniziare questa discussione: le piace la situazione attuale?».

No, non mi piace. Ma non invertirei i ruoli.

«Perché no. Mi giudica così vecchio da essere rincoglionito?».

Non la giudico. Al contrario, apprezzo la sua franchezza.

«Non le sembra che il mondo vada a scatafascio e che quell'antico conflitto tra padri e figli - con l'immancabile condimento del mito - sia diventato superfluo? Tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati».

Pensa che tutti possano essere creativi?

«Magari. Ma non è così. La creazione è un atto di guerra non un armistizio con la realtà».

Accennava a sua moglie.

«Ci siamo conosciuti più di mezzo secolo fa. A Napoli. Io designer, lei critico d'arte giovane e bella. Ero già sposato. Aleggiò il concubinaggio. Cinquant'anni di slanci e litigi. Che dire di più? Mia moglie è la sola persona che conosca che non avendo la mentalità da casalinga si occupa della mia sopravvivenza. Da tutti i punti di vista. Senza di lei, forse starei sotto i ponti».

È sempre così catastrofico?

«La vecchiaia restringe l'orizzonte. Il tempo che resta vola via. I vecchi sentono meglio l'avvicinarsi della tempesta. Conosce il detto: inutile incazzarsi, meglio farsene una ragione? Ecco. Dopotutto non sono così catastrofico. Quando un uomo anziano sparisce non è mai una vera tragedia. Sono qui sulla mia piccola "nave" e attendo che le cose si compiano».

(Questa intervista di ANTONIO GNOLI è stata pubblicata da Repubblica il 6 settembre 2015 con il titolo «Enzo Mari: “Non ho voluto seguire i sogni né mi sono mai sentito un artista”»)



Lea Vergine ©Massimo Jatosti



19/10/2020 È morto a Milano a 88 anni Enzo Mari che è stato uno dei più grandi designer italiani del Novecento. Nella sua carriera ha ricevuto 5 premi Compassi d'Oro, di cui l'ultimo nel 2011 alla carriera. Mari è stato l'autore di oltre 1500 oggetti realizzati soprattutto da aziende italiane. Tra i più significativi c'è il vassoio Putrella, fatto da un unico pezzo di trave da edilizia in acciaio, la sedia Delfina, la sedia Mariolina. Le sue opere sono esposte nei principali musei di arte e design del mondo, come la Galleria Nazionale d'arte moderna di Roma, il Museum of modern art di New York, il Triennale Design museum di Milano. Enzo Mari ha donato al Comune di Milano il suo archivio con la sua attività dal 1952 al 2015. 

20/10/2020 Il coronavirus, in due giorni, ha ucciso sia Enzo Mari che la moglie, Lea Vergine. Dopo la morte dell'artista, 88 anni, oggi è deceduta anche la moglie, curatrice e critica d'arte, all'età di 82 anni. Entrambi erano ricoverati all'ospedale San Raffaele di Milano per le complicazioni da coronavirus. Mari si è spento all'età di 88 anni nella mattina di lunedì 19 ottobre, mentre la moglie all'età di 82 anni è deceduta oggi. Lea Vergine, all'anagrafe Lea Buoncristiano, era nata a Napoli il 5 marzo 1936. Si era trasferita a Milano e dopo anni di convivenza aveva sposato il designer Enzo Mari: dalla loro unione è nata la figlia Meta. Studiosa dei nuovi linguaggi visivi, nel saggio «Il corpo come linguaggio» (Prearo Editore, 1974) Lea Vergine ha analizzato la nascita e l'evoluzione della Body Art, imponendosi come una delle principali studiose delle avanguardie delle azioni performative. Ha posto in rilievo (in «L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche», Mazzotta, 1980) la funzione delle donne nei fenomeni artistici della prima metà del XX secolo, apportando un contributo fondamentale sia nell'approccio critico sia nella rivalutazione dell'opera artistica femminile. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano: «Attraverso l'Arte/Pratica Politica» (Arcana, 1976); «L'arte ritrovata» (Rizzoli, 1982); «L'arte in gioco» (Garzanti, 1988); «Gli ultimi eccentrici» (Rizzoli, 1990); «L'arte in trincea. Lessico delle tendenze artistiche 1969-1990» (Skira, 1996); «Body art e storie simili. Il corpo come linguaggio» (Skira, 2000); «Ininterrotti transiti» (Rizzoli, 2001); «Quando i rifiuti diventano arte. Trash rubbish mongo» (Skira, 2006); «Parole sull'arte 1965-2007» (Il Saggiatore, 2008); «La vita, forse l'arte» (Archinto, 2014). Nel 2016 il testo autobiografico «L'arte non è faccenda di persone perbene» (Rizzoli), scritto in collaborazione con Chiara Gatti, ne ha compiutamente ricostruito il percorso umano e artistico. Lea Vergine ha curato altrettante numerose mostre, tra cui: «L'altra metà dell'avanguardia», Milano, Palazzo Reale, Roma, Palazzo delle Esposizioni, Stoccolma, Kulturhuset (1980-1981); «Arte cinetica e programmata», Milano, Palazzo Reale (1983-1984); «Geometrie dionisiache», Milano, Rotonda della Besana (1988); «Quando i rifiuti diventano arte / Trash», Musei di Trento e Rovereto (1997-1998). Nel 1991 ha curato il convegno «Arte: utopia o regressione?» a San Marino; e nel 1996 il convegno «La scena del rischio» alla Galleria Civica di Torino.







25 modi di piantare un chiodo.
Ma l'ultimo lo teniamo per noi.

Enzo Mari, 1932 - 2020.
Marco Tonus





Marianna Balducci: "Oggi diciamo addio a Enzo Mari. E io non posso che dirglielo così, piena di gratitudine."

“10 lezioni di disegno” è la raccolta delle lezioni di Enzo Mari che si concentrano sull’origine di un progetto e sui processi che si innescano attraverso la pratica del disegnare. Le 10 lezioni sono scritte a mano in corsivo e sono piene di schizzi per la necessità di individuare un linguaggio accessibile anche agli occhi di molti studenti stranieri, studenti ai quali Mari si ritrovò a parlare nella classe di Stefano Boeri (che lo aveva appunto convocato) al Politecnico di Design di Milano. Con questo “esperanto della grafite”, Mari annulla le distanze e affronta tematiche complesse utili a chi diventerà architetto, designer, ma in generale anche a chiunque voglia riscoprire il disegno come strumento consapevole di ricerca e progettazione. Successivamente, Boeri pubblicò le lezioni sul magazine “Abitare” (2007-2008), mentre la raccolta è un'edizione a cura di Rizzoli (2008).
A queste 10 lezioni avevo dedicato la mia foto-illustrazione, con l'obiettivo di ricordarmi che bisogna applicarsi, ma anche giocare, senza trascurare ogni tanto una “pausa opportuna” (dove si cela un omaggio nell’omaggio, piccolo palloncino rosso pensando a quanto devo non solo a questo autore ma anche alla sua Iela, autrice meravigliosa).

"È difficile?… è difficilissimo! Ma cos’altro? Buona fortuna!" – Enzo Mari



"La scienza è oggettiva, le sue affermazioni diventano di tutti, l'arte è soggettiva, non raggiunge mai tutti, forse con l'eccezione di quella antica."
Enzo Mari
Umberto Rigotti


Lea ed Enzo ©Gianluca Costantini per Domani


Due o tre cose che so di loro

#enzomari #leavergine #DOMANI Domani

Chi li conosceva bene, in fondo se lo aspettava che Lea Vergine e Enzo Mari sarebbero fuggiti insieme da questo mondo terreno, perché era già successo che la separazione forzata avesse rischiato di ucciderli.
Accadde qualche anno fa quando lei era in ospedale per un serio problema al cuore e lui, rimasto solo a vagare nel vuoto appartamento, si era maldestramente arrampicato come un bambino su una scala per potare il glicine del terrazzo e, come un bambino, era caduto con serie conseguenze. «Non lo si può lasciare solo», aveva maternamente detto lei quando la incontrai convalescente per parlare di una sua mostra al Mart di Rovereto dedicata al gruppo di Bloomsbury e dintorni dove con geniale scrittura visiva, aveva messo inscena di tutto: dalla foto al dipinto, dall'opera all'oggetto, dal mobilio al manoscritto ma soprattutto uno stile di vita e conoscenza che andava dalla letteratura alle dissennate unioni di quelli eccentrici letterati e artisti « per i quali il sesso era cosa seria mentre, oggi se ne parla tanto, ma seriamente se ne fa molto poco. Almeno rispetto a questi veri libertini. Ma, che vuoi anche per quello è necessaria la cultura...».
Così si chiacchierava: lei con un calice di vino bianco, io con un bicchier d'acqua.
«Davvero niente vino? Sarà che io l'acqua la uso solo per motivi igienici». E' divertente, sarcastica, Lea Vergine con la sua voce leggermente arrochita, le sue sigarette senza filtro che fuma una dopo
o l'altra nonostante il cuore malsano, padrona di casa perfetta, esempio di eleganza inconsueta e ironica. Una di quelle donne che le altre donne studiano tra ammirazione e invidia per dettagli o colori che solo lei sa abbinare, o accessori a volte old fashioned che lei sa far diventare iconici.
Dunque Enzo Mari non si poteva lasciare solo e Lea lo sapeva e lo accudiva. Lo invitava ad abbottonare il cappotto uscendo da una mostra nel freddo dell'inverno, a scacciare briciole dal gilet di lana, a non indugiare in pensieri apocalittici durante pranzi conviviali «Enzo, per favore, regala ai nostri ospiti anche una luce in fondo al tunnel!»( una volta a cena a Roma).
In quella intensa casa di Milano, ex convento in via di Sant'Agnese, luogo pieno di cose, libri, foto, opere, progetti, oggetti, regali di amici artisti, architetti, Enzo Mari e Lea Vergine erano le pagine viventi della storia dell'arte e del design del secondo Novecento.
Lui così alto, gotico, con un volto che sembrava scolpito nella pietra; lei così minuta, veloce, prensile con un perenne lampo negli occhi. Complementari nel fisico, nel lavoro e nel pensiero.
Non era esattamente un rapporto d'amore, il loro. Era quel che lei definiva " un'ossessione amorosa: «Una cosa diversa dall'amore. È proprio una dipendenza ossessiva. Non puoi stare senza una persona, al di là di ogni logica e ragionevolezza. Compresi gli inevitabili scontri e litigi» chiarì al mondo interò in occasione dell'uscita della sua autobiografia "L'arte non è una faccenda per bene" (ed.Rizzoli)
Un'ossessione nata per caso nel 1966 quando lei cercava un grafico per una sua rivista e non voleva un grafico qualunque. Fu Argan, ad indicarle Enzo Mari "E' l'uomo che fa per lei" le disse. Come sempre il grande storico aveva visto giusto.
Dunque è per seguire Mari che Lea, nata a Napoli e radicata a Roma , lasciò le Grandi Bellezze e si trasferì a Milano "La città che piace ai meridionali che credono di essere già arrivati in Svizzera", mi disse un giorno.
A quei tempi Mari aveva già passato il suo personale Rubicone. Non era più un designer era già un filosofo o meglio uno scienziato che scavava nelle radici del progetto per individuarne e rivoluzionarne l'essenza. Non si come nel 1967 abbia fatto a spiegare questa sua poetica alle Ceramiche Gabbianelli (con le quali poi firmò una decennale collaborazione) quando gli chiesero un progetto per piastrelle e lui per tutta risposta rovesciò completamente l'immagine e le ragioni della decorazione a parete, imprimendo sulle maioliche il suo credo: un misto di antica sapienza artigianale e inedito linguaggio fatto di segni e colori elementari.
«Che l'Enzo Mari tra tutti quelli che fanno questo buffo, ambiguo, incerto e scivoloso mestiere che oggi si chiama design, sia uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarlo ( questo mestiere) al suo peccato originale , di riscattarlo dalla corruzione di metterlo in qualche modo a disposizione della storia malinconica della gente che cammina per le strade piuttosto che a disposizione delle presunzioni stizzose delle aristocrazie al potere, questo si sa....», scrisse Ettore Sottsass nel 1974, ovvero negli stessi anni in cui Mari in nome di un design condiviso, democratico e socialista spediva per posta i suoi manuali di "Autoprogettazione" a chiunque lo richiedesse e volesse costruirsi da solo un letto, una sedia, un tavolo, per trasformare il mondo grazie a artigiani militanti, carpentieri rivoluzionari, operose cellule di un futuro migliore.
Non arrivò mai questo "futuro migliore", anzi accadde il contrario. In un'intervista a Hans Ulrich Obrist, Mari racconta di trovare spesso nelle aste questi mobili «che io non ho mai fatto, venduti a caro prezzo con il mio nome. Li ho visti anche esposti in una mostra come pezzi di arredo storicizzato. E Il risultato è che io alla fine passo per essere un frescone che ama il legno peloso e i chiodi irregolari».
Resta il fatto che mentre l'utopico Enzo interpretava i fermenti degli anni Settanta scardinando i luoghi comuni del progettare&produrre,; la combattiva Lea individuava nella creatività femminile una leva per ribaltare la secolare misoginia del sistema arte. Nel 1980 la mostra che si inaugura a Palazzo Reale sotto il titolo "L'altra metà dell'avanguardia" è l'approdo di un lungo processo di ricerca attraverso il quale Lea Vergine individua nel corpo e nell'esperienza femminili le radici di un nuovo linguaggio dell'arte, che lei vuole strappare dalla marginalità: «Quando mi sono posta il problema di fare una mostra di donne, l'unico criterio da tener presente era quello della qualità. Qualunque altra discriminazione sarebbe stata infamante per le artiste stesse» disse poi a Ester Cohen nel libro intervista "Schegge".
Era l'arma comune a entrambi, mai cedere, tenere alta l'asticella della qualità, nel lavoro di lui come in quello di lei. Qualità che va difesa ad ogni costo, anche al prezzo di nasconderla. Ed ecco l'ultimo gesto di Enzo Mari: donare al Comune di Milano il suo archivio di opere, disegni e prototipi con la clausola che, dopo la mostra attualmente in corso alla Triennale, ne venisse negata la vista e l'accesso per almeno quarant'anni.
«Perché con la convinzione di un bambino un po' ottimista, ipotizzo che solo fra quarant'anni una nuova generazione non degradata come quella odierna potrà farne un uso consapevole. Ho grande speranza che ci sia, nel futuro prossimo,una generazione di giovani che reagiscano e che riprendano in mano il significato profondo delle cose» dixit.
E con questo viatico ci ha salutato insieme a Lea, e insieme a Nanda Vigo, Germano Celant, Vittorio Gregotti...tutti scomparsi in poco tempo, in tempi difficili e nel buio di un malanno che ci porta via quel che resta del Novecento.


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