martedì 25 settembre 2018

Vincino



Vincino, pseudonimo di Vincenzo Gallo (Palermo, 30 maggio 1946 – Roma, 21 agosto 2018[1), è stato un vignettista e giornalista italiano.

E' già passato un mese, ma rimane sempre nei ricordi...

Vincino in una scatola di matite, alla sua ultima festa
Abbiamo accompagnato Vincino nel Tempietto egizio del Verano per salutarlo tra i ricordi, i sorrisi e le lacrime




l'ultimo disegno : comunque sarò il prossimo James Bond... (di sicuro...)
©Vincino


Ciao Vincino amico mio!
© Vauro



Ciao Vincino, ora scherza pure coi santi
Luca Sommi

Allampanato, dinoccolato, un elegantissimo, letterato hippie che ti guardava storto da quelle lenti fondo di bottiglia – montate su Persol da sole, modello Steve McQueen – tanto da far diventare gli occhi minuscoli, ma non lo sguardo. Quello era lungo, lunghissimo, anarchico e indipendente, da artista, quale lui era. Vincino, al secolo Vincenzo Gallo, era molto più di un vignettista, di un disegnatore satirico, era un fine antropologo, uno che smascherava i vizi dei potenti (ma anche dei deboli) facendone sintesi in tre schizzi storti, irresistibili e irriverenti. Ieri se ne è andato, dopo una brutta bestia di malattia, a 72 anni, e dopo una carriera meravigliosa, mai al servizio di nessuno. Anzi, a volte sembrava, per vezzo, godere nel disegnare su giornali apparentemente a lui lontani – ergo conservatori, ordinari, filo-tutto purché quel tutto fosse potente. Ma in realtà tutto e tutti erano distanti da lui, che era vasto, contraddittorio e geniale, un artista senza confini né recinti, se non quelli della sua lucida e stralunata fantasia.

Vincino amava i vizi, di forma e di sostanza, i suoi disegni tremolanti non facevano né troppo ridere né troppo riflettere – queste sono cose comuni: le sue istantanee erano un pugno nello stomaco, spesso un anagramma, un’anamorfosi della vignetta. Tracimavano di cultura, erano allucinogene, piccoli trattati colorati che prendevano il senso comune di lato, mai frontalmente. A volte erano incomprensibili – a volte addirittura la didascalia lo era – però arrivavano al centro di dove dovevano arrivare, cuore o cervello che fosse. D’altronde l’arte mica deve illustrare, bensì mostrare ciò che è invisibile agli occhi, e lui in questo era ineffabile.

Nato a Palermo, ma uomo di mondo, si laurea in architettura ma non fa l’architetto, figuriamoci, lui che, come detto, aveva un’idiosincrasia genetica per le righe diritte – il rapporto pavimento-parete deve sempre essere di 90 gradi, ammoniva Le Corbusier: appunto, non roba per uno che volava tra sghiribizzi e lazzi come un uccello fluorescente e indomabile. Nel ’68 è vicino ai movimenti studenteschi e operai, poi arriva Lotta Continua e l’inserto satirico “L’avventurista”. È il primo di una lunga sfilza: “Il clandestino” con L’Espresso, “Tango” con l’Unità, “Boxer” sul Manifesto, poi “Cuore” e tanti altri – ha diretto “Ottovolante”, quotidiano di satira che durò poco più di una settimana, geniale, insieme ad altri giganti come Roland Topor, Andrea Pazienza o Guido Buzzelli – fino alle lunghe collaborazioni con Corriere della Sera prima e Il Foglio poi. Ma il suo capolavoro assoluto fu “Il Male”, fatto, tra gli altri, con il suo inseparabile sodale, fratello di matita, Vauro Senesi. Quella combriccola ne fece di cotte e di crude durante i cinque anni di vita del giornale: la più memorabile e riconoscibile fu la finta prima pagina di Repubblica che titolava “Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR”. Roba impensabile oggi, da fustigazione pubblica. Nel 2011 sempre insieme a Vauro rimanda in edicola “Il Male”, durò poco ma fu bellissimo, basti pensare che la redazione la piazzarono nella sede storica della Democrazia Cristiana in piazza del Gesù – roba da far rivoltare nella bara più di un notabile.

Michele Santoro, uno che di televisione capisce davvero, lo aveva mandato in video, insieme a Vauro, come inviato nell’ultima edizione di “Servizio Pubblico”. Risultato? Due meravigliosi Totò e Peppino surrealisti e d’avanguardia, in moto-sidecar, sfreccianti a raccontare con taglio “cinico e baro” il costume degli italiani di oggi e di domani: capolavoro.

Vincino in gioventù provò anche l’ebbrezza del carcere “esperienza bellissima, che consiglio a tutti”, poi il pornofotoromanzo con Cicciolina fino alle incursioni ai comizi di Craxi, camuffato da Craxi. Il situazionismo era per lui una regola, l’irriverenza il suo dogma. La sua vasta cultura non era mai citazione, mai parafrasi, ma sempre sostanza metabolizzata e poi rivomitata a modo suo, coi suoi disegni, con le sue aspirazioni e i suoi progetti sghembi ma fantastici. Era un illuminista e un surrealista insieme, amava i libri e l’uso fiero della ragione, ma per poi distorcerli, piegarli con un segno eretico. In lui c’era Voltaire e c’era Bunuel, frullati insieme, un ibrido un po’ sornione e unico nel suo genere. Un Candide a spasso per la sua personalissima e moderna Westfalia a sfregiare i vari Pangloss di turno. Però Vincino era più sornione, zero moralista, molto esistenzialista, quasi disincantato e non amava né i santoni né i santini, di qualunque colore fossero. Si arrampicava sugli specchi come nessuno, dissimulava l’evidenza come tutti e sognava di sfondare porte aperte – provaci tu, se sei capace, a sfondare una porta aperta! diceva Carmelo Bene. Perché solo i veri artisti possono ambire a tanto, e non tutti hanno lo spirito per capire certe cose, solo le persone belle. Come Diderot, su quella panchina del Palais Royal, che intima al nipote di Rameau che “uno sciocco sarà più facilmente incline alla malvagità che un uomo di spirito”. Ciao Vincio, lassù non esagerare.




così vincino, così lontano (cit.)
© Mauro Biani

Un situazionista della satira col pennarello sempre in tasca
Vincino. Addio al disegnatore che nelle sue vignette ha raccontato con ironia l’Italia sin dai tempi del «Male»
Mauro Biani
Non ero pronto al coccodrillo per Vincino. Un pazzo immortale. Il pennarello nel taschino della camicia, sempre. I disegni espressività. «Qui c’è un fax?». Pure quando lo avevo invitato a un ennesimo incontro sulla satira (uff) ma era solo il 2011, un’eternità fa. È il destino di chi fa (almeno) una vignetta al giorno: ansia giornaliera da tematica (milioni per chi non è allineante) e ricerca di un fax (lui), gli altri di una connessione. Era connesso e sconnesso. Ok.
Che poi alla fine fu un bell’incontro. Una tavolata di esordienti, più o meno. Flaviano (ora fumettista di punta della Marvel), io, Vincino, Antonella Marrone (giornalista di «Liberazione»), Gianpiero Caldarella (Pizzino ed Emme), Makkox, Giuliano Cangiano, grande illustratore.

La discussione, organizzata da «Mamma!» la rivista inventata da Carlo Gubitosa e da me che come sottotitolo aveva: «Se ci leggi è giornalismo, se ci quereli è satira». Un tentativo sperimentale di libertà totale di satira e giornalismo grafico, in un momento storico in cui inserti e riviste di satira non esistevano praticamente più.
E Vincino ne sapeva più di tutti, dal «Male», per me forse l’unica vera pubblicazione satirica insieme al diversissimo (come diversa era la società degli anni ’90) successivo «Cuore», al siciliano «Pizzino», di venticinque anni dopo.

I vignettisti, e anche lui, sono solitari, gelosi dei propri luoghi di pubblicazione, individualisti. Ma Vincenzo amava anche il gruppo, la pubblicazione indipendente, pure se poi indipendente lo era comunque su qualsivoglia pezzo di carta o di web lo ospitasse.
E quindi si discettava: dove va la satira? E dove andava, e che satira (?). Le satire vanno poi dove vogliono, ed è talmente inutile cercare recinti di «purezza (boh) satirica». Fa quello che vuole e Vincino pure. Unico problema spesso è farsi pagare (ora di più) e su questo ci ha anche insegnato a non svendere (troppo) «l’arte». Poi, se gli chiedevo una vignetta (come è capitato per «il manifesto») la dava anche gratis, comunicandomi comunque l’iban, che non si sa mai.

E, infatti, partecipò anche a «Mamma!» gratis, ché l’unica cosa che poteva fare anche per sostenere chi ci provava, senza editori, senza padroni.
I suoi disegni erano brutti come è brutto Chagall. Lui riderebbe chiedendo se ho fumato. Ma i suoi espressivi omini e donnine e politici, spiegavano svolazzanti, e qua e là, già tutto, anche senza quelle decine di parole che facevano spesso somigliare un suo lavoro a un minifumetto piuttosto che a una vignetta.

Concordo con quello che mi ha scritto a caldo il mio compare su «Mamma!» Carlo Gubitosa: «L’eredità culturale che ci lascia Vincino non è solo quella del vignettista. Lo ricordo con affetto come giornalista politico (il primo a entrare a palazzo con la matita e non con la penna), come sincero e appassionato militante radicale, come situazionista irriducibile fino all’ultimo, quando ha messo lo storico busto in marmo di Andreotti realizzato dal ’Male’ in quella Piazza del Gesù che un tempo era della Dc e poi è stata espugnata dalla redazione del ’Male’ di Vauro e Vincino per una bella stagione di satira, e lo ricordo con affetto come artista, fantasista, ragazzino che guardava la politica divertito senza mai smettere di farle pernacchie ai vestiti finti degli imperatori».

E a proposito di vignette sui quotidiani, una volta mi scrisse una cosuccia impegnativa e gradassa (oltre a individualisti siamo piuttosto gradassi, forse per farci forza e coprire i santi dubbi che ci pigliano prima di realizzare un lavoro che sembra definitivo): «Io credo che l’unico spazio di verità dentro un giornale sia il quadratino della vignetta, cioè su trenta, cinquanta pagine l’unico spazio di verità sia il piccolo quadratino e sia responsabilità nostra quindi ogni volta pensare con la nostra testa e le nostre matite».
E adesso Vincino dove vai? Non era questo a cui si pensava quando dicevamo: «Non c’è ricambio nemmeno nella satira».




46° Premio Satira Politica di Forte dei Marmi: premiazione di Vincino per il libro autobiografico "Mi chiamavano Togliatti....", 7 luglio 2018




© Riccardo Mannelli


Addio al vignettista Vincino, l'omaggio di Ellekappa



Difficile per me spiegare a parole, o anche a disegni, chi fosse per me #Vincino. "Noi abbiamo un compito, raccontare il mondo a disegni", diceva sempre. Era un amico, ha creduto in me, mai bollito, uno dei pochi fuoriclasse della satira in Italia. Ciao maestro.
Dario Campagna


© Altan, Ellekappa, Sergio Staino


© Makkox



Un ricordo di Vincino (Sottovoce)
È morto Vincino, nelle sue vignette mezzo secolo di storia d'Italia


Tutto Vincino - Il Foglio

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