Il direttore della fotografia racconta la sua vita con i grandi del cinema.
“Per me la luce sul set è quella di Dio così ho capito la vita e la morte”
GIUSEPPE ROTUNNO
ANTONIO GNOLI
Sono più di cento i film che Giuseppe Rotunno ha realizzato nell' arco di sessant' anni. Ha lavorato con i più grandi registi, predisposto e inventato le luci per "raccontare" i volti di attrici e attori famosi, diretto e misurato le profondità di campo, creato quella magia luminosa senza la quale l' arte cinematografica resterebbe un' esperienza piatta e incolore. Eppure, incontrandolo, non si ha l' impressione di un uomo troppo compreso nel proprio ruolo. È come se la sua storia - che ha contribuito a realizzare una parte fondamentale del cinema italiano - si esprima nell' immediatezza delle cose e nella semplicità delle parole. Da pochi mesi ha compiuto 90 anni. Non dimostra un' età che di solito disorienta chi ne porta il peso. Egli è un' ombra felice e tranquilla. Un' umile proiezione di una vita lunga vissuta senza accaparramenti né brame. Una vita solida che continua nell' impegno al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove insegna agli allievi a diventare direttori della fotografia. Mi accoglie nella sua casa romana con un filo di apprensione. Dice che a volte la sua memoria gira a vuoto. Ma è spiritoso quando aggiunge che se dovesse davvero ricordarsi tutto, dimenticherebbe cosa fare. Ha accanto la moglie. Più giovane di una decina di anni e ancora bella. Si conobbero sul set di Pane, amore e... regia di Dino Risi, era il 1955. Ma poi al cinema Graziolina preferì la pittura. I suoi quadri, di una leggerezza infantile, adornano una parete del salotto. Mentre su un' altra spiccano anche un paio di dipinti di Ligabue.
«Conobbi Ligabue quando con Michele Gandin giravamo un documentario sul Po. Ci incuriosì quell' uomo schivo che vagava per i paesi spingendo una carrozzina per bambini. Teneva lì le sue cose e si percepiva la sofferenza e il disagio», ricorda Rotunno.
È diverso il disagio di un artista da quello di una persona normale?
«Non saprei cosa rispondere. Di lui non sapevamo nulla. Per me era un uomo che usciva dall' umidità e dalle nebbie di quei giorni. Privo di qualunque baldanza. Solo in seguito appresi che nei suoi occhi signoreggiavano animali esotici e il mondo contadino».
E nei suoi?
«Intende i miei?».
Sì, cosa vedono gli occhi di un grande direttore della fotografia?
«Qualcosa di molto soggettivo ma al tempo stesso di altro. Che misura il desiderio del regista ma anche il proprio. È un difficile equilibrio che può rompersi in ogni momento. Come la luce di un alba o di un tramonto. Quella necessaria dura pochi attimi e solo in quelli si può realizzare la perfezione di una scena o di un fotogramma».
Che importanza riveste la luce nel suo mestiere?
«Totale. È come Dio per il credente. Dà risalto a un volto o a un ambiente. Crea un primo piano o uno sfondo. Trasmette fiducia a un attore. Senza la luce non capiremmo le emozioni che attraversano la sua recitazione. Ricordo che agli inizi della carriera ero assistente ai fuochi. Un giorno vidi sul set gli attori agitarsi. C' era un grande caos e ognuno cercava una posizione. L' unico immobile era Marcello Mastroianni, per cui andai da lui e gli dissi che forse avrebbe dovuto trovare un posto dove mettersi. Mi guardò con un' aria dolce e ironica e disse: "A Peppì, m' hai visto? Allora questa è la luce buona"».
Quando ha iniziato con il cinema?
«Mio padre morì nel 1938. Era sarto. Grazie ai miei due fratelli più grandi trovai un paio d' anni dopo un posto come aiuto elettricista a Cinecittà. Lì sentii parlare di un laboratorio di fotografia dove cercavano un garzone, mi presentai e venni assunto. Arturo Bragaglia, fratello di Carlo Ludovico e proprietario del laboratorio, nonostante fosse un tipo irascibile mi prese a ben volere. Faceva ritratti di dive. E la prima grande emozione fu vedere dal liquido dello sviluppo della pellicola apparire la faccia di Alida Valli. Poteva avere 18 anni. E quella bellezza che affiorò improvvisa da una vasca mi parve un miracolo. Peccato che il tutto durò poco».
Incombeva la guerra. Cosa le accadde?
«Speravo di restarne fuori. Ma arrivò il precetto militare. Nel frattempo ero stato buttato fuori da Cinecittà perché refrattario alle adunate fasciste. Disoccupato cercai un lavoro sul set di un film di Rossellini, L' uomo dalla croce. Fui assunto come assistente alla fotografia. Era il settembre del 1942, quando arrivò la cartolina che mi chiamava alle armi. Rossellini, che aveva molto apprezzato il mio lavoro, mi accompagnò, con la sua macchina, al pullman. Mi disse: cerca di tornare che in questo mestiere quelli bravi non sono tanti».
Un bel riconoscimento.
«Ero fiero di quelle parole. Lui non era ancora il genio riconosciuto nel mondo, ma si vedeva la stoffa, il talento, quell' estroversione che lo portava a sperimentare la realtà».
E ad averne rispetto.
«Certamente. Anche se quel rispetto, più che da lui, lo appresi negli anni della guerra da Gandin, uno dei più grandi documentaristi che l' Italia abbia avuto».
Lei va militare e non la mandano a combattere?
«Viste le competenze mi collocarono nel reparto cinematografisti e fu lì che conobbi Gandin. Ci spedirono in Grecia dove girammo scene straordinarie di un paese in cui noi occupanti eravamo sempre più alla deriva. Tanto è vero che dopo l' eccidio di Cefalonia, in cui morirono i soldati della divisione Aqui, fucilati dai tedeschi, eravamo visti con molto sospetto dai nostri alleati. Dopo varie traversie e un tentativo da parte nostra di non collaborare più con i tedeschi, ci deportarono in Germania. Gandin fu spedito in Polonia io a Dortmund a lavorare in una fabbrica d' armi. Poi nell' aprile del 1945 fui liberato dagli americani. E nel settembre giunsi finalmente a Roma».
Provò a cercare Rossellini?
«In quei giorni c' era il caos. Le comunicazioni erano praticamente impossibili. Cercai i miei parenti, in particolare una sorella, e seppi che si erano trasferiti a Ladispoli. La mia vita stava per ripartire da zero».
Con quali occasioni?
«Beh, nel 1946 cominciai a lavorare come operatore con Riccardo Freda, poi con Bolognini e Carmine Gallone; nel 1952, con Aldò direttore della fotografia, lavorai a Umberto D. ».
Aveva l' impressione che De Sica stesse realizzando qualcosa di grande?
«Non c' era quella sensazione che avrei provato con i film di Visconti o Fellini. Nessuno, credo, poteva immaginare che Umberto D. sarebbe entrato nella storia del cinema. Molti anni dopo, lavorando in America, furono diversi registi a dirmi che quello era stato il film della loro vita. Fu davvero un miracolo. Ricordo che per ottenere un certo effetto di luce giravamo tra la fine del giorno e l' alba. Zavattini aveva scritto la sceneggiatura. A volte capitava sul set con dei bigliettini, da recapitare al regista, nei quali suggeriva i tempi di una scena o cosa avrebbe dovuto fare il cane».
E De Sica come reagiva?
«Il "commendatore", così era chiamato, si incazzava ferocemente: "se ne è capace, venga lui a girare la scena!", urlava De Sica».
Accennava a Visconti e Fellini. Come sono stati i rapporti con loro?
«Visconti era esigente e meticoloso. Esattamente agli antipodi di Fellini. Aldò mi volle come aiuto sul set di Senso. Poi sfortunatamente ebbe un incidente mortale in automobile. Toccò a me finire il film e Visconti rimase molto sorpreso per certe soluzioni tecniche che adottai. Si stabilì, insomma, una stima profonda, collaudata in tanti altri suoi film.
È vero che, molto prima di Kubrick, nel Gattopardo, lei usò la luce delle candele?
«È una leggenda. E non so neanche come sia nata. Era impossibile che con la sola luce delle candele si illuminasse la scena del ballo. Perciò feci mettere un faro fuori campo sopra i candelabri. Visconti apprezzò la trovata».
Eppure, in Barry Lyndon Kubrick ci riuscì.
«Altra leggenda. La fiamma di una candela sovresposta cancella l' immagine, la imbianca. C' è un aspetto tecnico che va osservato: con quel tipo di luce il massimo che si può diaframmare è 0,1 il che significa assenza di profondità di campo. Per ottenere qualche risultato Kubrick fu costretto a fissare gli attori con delle tavole, in modo che fossero rigidi. Ma l' effetto non fu soddisfacente e so che il resto della scena richiese l' uso delle lampade. Il che non toglie che fosse un genio».
Un altro genio fu Orson Welles, so che lei ha lavorato all' Otello.
«Con Welles ci si frequentava ogni tanto. Era l' uomo più dissipativo che abbia conosciuto. A quel film, in tempi diversi, lavorammo in parecchi. Fu realizzato ovunque. Ogni volta che Welles faceva un po' di soldi, girava un pezzo di Otello. Quell' opera era diventata la sua ossessione. Sul set mi disse una sola cosa: sono abituato a una visione come a teatro, dal basso in alto. Era il contrario di Visconti che voleva la macchina da presa all' altezza dei suoi occhi».
Diceva prima che Fellini era l' esatto opposto di Visconti. In che senso?
«Luchino era per antonomasia il "conte", sul set si comportava come un aristocratico prima della rivoluzione francese: tutto doveva seguire un rituale ed essere ordinato, ineccepibile, vero. Una volta si accorse che, in una scena del Gattopardo, le rose del giardino erano di plastica. Pretese che venissero cambiate con delle rose vere. Era preda di un "verismo" meticoloso e ossessivo. Il contrario di Federico per il quale il mondo ricreato dalla sua fantasia doveva essere di cartone e di plastica. Del resto lui era il "gran bugiardo" e tutto doveva, in qualche modo, somigliargli».
Lo dice con un evidente rimpianto.
«Con Fellini legammo a tal punto che il rapporto ben presto si trasformò in amicizia. Ero il suo secondo sguardo. Abbiamo lavorato a lungo insieme, anche nel suo ultimo spot. Ci metteva la stessa grazia svagata. Poi un giorno fu ricoverato in un ospedale di Ferrara. Stava male. Volevamo con mia moglie andare a trovarlo. E ci fu tra noi un' ultima telefonata, mi disse: "Peppino, è inutile, non venire. Ci vediamo sabato mattina davanti ai cancelli di Cinecittà". Poco dopo morì».
Pensa mai alla morte?
«Con moderazione. Anzi con distrazione. Penso a quelli che non ci sono più e che hanno attraversato la mia vita. Mi piace immaginare che un giorno, tutti insieme, faremo un grande film».
Ritiene di essere stato un uomo fortunato?.
«Molto fortunato. Ho lavorato con i più grandi registi, anche americani come John Huston e Robert Altman, ho illuminato i volti delle più grandi attrici, come Marlene Dietrich e Ava Gardner, e dei grandi attori come Montgomery Clift e Jack Nicholson; per non parlare degli italiani. Sì, sono stato fortunato. Ma anche quelli che hanno lavorato con me lo sono stati. Sono un uomo soddisfatto perché ho passato gran parte della mia vita a guardare la luce e il cielo. Ancora oggi se vado in qualche albergo, la prima cosa che faccio è misurare le finestre e la loro profondità. Devono essere ampie, luminose. Devono saper accogliere il significato di un uomo che ha passato la vita a illuminare gli spazi».
La Repubblica © RIPRODUZIONE RISERVATA -
Director Federico Fellini and cinematographer Giuseppe Rotunno on the set of Amarcord
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http://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-rotunno/
http://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Rotunno
http://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Rotunno
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