“Nel jazz e nella vita fare la cosa giusta non significa conoscere le regole”.
grande tromba
grande musica
grande faccia
Enrico Rava -da La Repubblica
Riccardo Mannelli
ENRICO RAVA
Antonio Gnoli
La circostanza peggiore che possa capitare a un concertista è che l' organizzatore scappi con la cassa: «È una cosa che mi fa molto incazzare e non è solo per il denaro che hai perso, ma per la buona fede tradita, per il rapporto di responsabilità che hai con gli altri componenti della band», dice Enrico Rava, uno dei massimi jazzisti contemporanei.
È strano cominciare questo incontro parlando di soldi. Con i capelli lunghi, il baffo spiovente e il casual degli indumenti, Rava sembra uscito da un fotogramma degli anni Settanta. Se non è in giro per l' Italia, o l' Europa, vive a Chiavari, dove ci incontriamo in un bar del lungo mare. Sotto, le esili spiagge sono divorate da gruppi di famigliole che si accalcano per prendere il sole.
«Secondo me, per sopperire alla mancanza di spazio inventeranno, come per le auto, il multipiano», dice ironico. È appena tornato da un concerto tenuto a Cagliari.
Com' è la vita con una band?
«Interessante. Per non annoiarmi ho diverse band. Un' orchestra di 12 elementi, un gruppo per musica più standard e poi suono in duo con Stefano Bollani. Oggi più raramente, lui è straimpegnato. È un talento vero».
Cosa vuol dire la felicità di un' intesa?
«Avere più o meno la stessa visione della musica e fiducia totale nell' altro. Sia nell' improvvisazione che nell' espressione».
L' imprevedibilità è così importante nel jazz?
«Ogni volta che suono mi aspetto una sorpresa dall' altro e da me stesso. Anche se alla mia età è sempre più difficile meravigliarsi».
Parlava di fiducia nell'altro.
«Sì, se uno della band suonando fa una svolta improvvisa, so che tutti gli altri sono pronti a saltarvi sopra. All' inizio ero molto impressionato dalla capacità di certi trombettisti o sassofonisti, come Don Cherry o Gato Barbieri, di deviare e saltare. Lo vidi fare, in modo sublime, anche a Miles Davis. Per me è "tenere in vita la musica". L' altro modo per tenerla viva è iniziare un brano tutti insieme e poi uno fa l' assolo. Una volta De André mi disse: "Bello il jazz, peccato tutti quegli assoli". Non aveva tutti i torti. A volte si eccede».
Il jazz è il più anarchico dei generi musicali?
«Anarchico è forse eccessivo. Anche nel jazz ci sono regole che vengono rispettate. Ma non possono rappresentare un ostacolo. È bene che esistano, ma poi la bravura sta nel saperle trasgredire. Poi ci sono le eccezioni. Chet Baker era musicalmente un analfabeta, leggeva malissimo le note. Ma tutto gli arrivava da dentro. Norman Mailer divideva il mondo degli artisti tra gli hip e gli square. I primi sono quelli che fanno sempre la cosa giusta e questo prescinde dal fatto se tu conosci o meno le regole».
Si chiama talento.
«Forse anche genialità. Un pezzo suonato in maniera straordinaria deve essere pieno di piccole genialità».
Come è nata la passione per il jazz?
«Grazie a una mamma diplomata in pianoforte e a un fratello, più grande, che possedeva una piccola collezione di dischi di jazz. Avevo nove anni. Da noi quella musica era roba per carbonari.
Mio padre la trovava incomprensibile».
E cosa fece, intendo suo padre?
«Dichiarò guerra. Andavo male a scuola, e non è che me ne fregava molto, ma all' ennesima bocciatura mio padre prese il trombone che mi avevano regalato e lo buttò via. Disse: o vieni a lavorare con me o ti caccio».
E lei?
«Fui tentato di andarmene, poi cominciai a lavorare nell' impresa di famiglia, una ditta di autotrasporti internazionali. Ma non potevo continuare a fare quella vita a lungo. Era un inferno. Poi, una sera venne a Torino, città nella quale vivevo, Miles Davis. Fin a quel momento lo avevo sentito sui dischi. Ma il suo concerto dal vivo fu cento volte meglio. Come si può spiegare?»
Ci provi.
«Un paragone mi viene con Dizzy Gillespie, che amo alla follia, tutto acuti e velocità. Miles invece cercava di improvvisare melodie su dei giri armonici particolari. Lo sentivo mio e fu un vero shock. Tra l' altro, oltre a suonare magnificamente aveva un suono bellissimo. E questo è il carisma, l' aura di un musicista: il suono. Nel giro di poco tempo mi procurai una tromba e mi misi a suonare sui suoi dischi. Il giorno stavo chiuso in ufficio, ed era un inferno. La sera suonicchiavo ed era la sola cosa che mi manteneva in vita».
Per quanto tempo è andato avanti così?
«Per quasi tre anni. Cominciavano a chiamarmi in giro per qualche serata. Una volta, a un piccolo concerto fuori Torino, il bassista portò un sassofonista per me sconosciuto. Era Gato Barbieri. Dalle prime note capii che era un marziano di bravura. Diventammo amici e quando si trasferì a Roma, un pomeriggio mi telefonò: se vuoi, vieni giù che proviamo insieme, mi disse».
E lei andò?
«Mollai tutto e partii immediatamente con la mia Seicento bianca. Ricordo il viaggio lungo l' Aurelia, l' ansia e infine l' incontro con Gato. Cominciammo a suonare da "Meo Patacca", il proprietario, un americano con molti agganci nel cinema, aveva una cave disponibile e noi gli proponemmo di farne una specie di jazz club».
Che anno era?
«Il 1963, eravamo ancora in piena "dolce vita". Il locale dopo un po' cominciò a funzionare alla grande. Arrivava gente famosa. Aristocratici, papponi d' alto bordo, attori e attrici come Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. Noi diventammo amici di Pepito Pignatelli. Il principe era un assiduo. Erede di una fortuna colossale, ma quasi interamente sperperata, faceva mettere tutto sul suo conto. Che personaggio! Ogni tanto suonava anche la batteria. Fu un periodo meraviglioso che durò un paio d' anni».
E poi che accadde?
«Gato entrò nel grande giro degli americani e si trasferì a New York dove il suo talento esplose. Io invece finii a Londra a suonare con Steve Lacy, uno dei più grandi sassofonisti soprani. Poi in Argentina per un anno e infine, ancora una volta chiamato da Gato, a New York. Vivemmo in cinque - Gato, la moglie, la figlia, io e la mia prima moglie - in una stanza. Le tensioni non mancavano. Poi, dopo un anno, loro tornarono a Parigi. Mentre io restai a New York per una decina d' anni».
Che città era?
«Non ti regala niente e se non ce la fai ti mangia vivo. Devi imparare a sopravvivere. Ma se hai talento, lì se ne accorgono molto prima che da noi».
Ci vuole molta disciplina interiore?
«È il modo giusto per dirlo. Ogni tanto penso al mio amico Chet Baker. Un talento inarrivabile. Ma a forza di farsi invecchiò precocemente. Restava la grandezza, ma seppellita dentro un rottame. Un giorno gli amici, tra cui Gillespie, gli regalarono una dentiera perché riprendesse a suonare. E quando avvicinò la tromba alle labbra e uscì il primo suono capii che l' anima era sempre quella. Candida, trasparente, come uscita da un grande romanzo».
A proposito di romanzi ha degli scrittori preferiti?
«Annuso quello che c' è nell' aria. In assoluto uno degli scrittori che amo è Raymond Carver. Ma quello che mi ha dato di più è Marcel Proust».
Due scrittori agli antipodi.
«È vero, uno all' inizio del Novecento e l' altro alla fine».
Per un jazzista è una stranezza amare Proust.
«È il solo scrittore che io conosca che usa la logica dell' improvvisazione jazz. Non fu la Beat Generation, come di solito si dice, a usare la "scrittura jazz", ma Proust con i suoi frammenti di memoria, i suoi rimandi improvvisi».
Si chiamano epifanie.
«Certo».
Però tutto era ricucito con una lingua poco nervosa.
«D' accordo, ma bisogna guardare sotto il tessuto della lingua per scoprire la qualità associativa, che è sempre rapida e improvvisa, appunto».
Non è più vicino Joyce al jazz?
«Secondo me no. L' Ulisse è molto meno leggibile della Recherche, nel senso proprio del capire cosa sta dicendo lo scrittore. Se a uno piace il jazz e lo ascolta con una certa attenzione vedrà che è molto leggibile e che l' improvvisazione è il risultato di tutto quello che ha ascoltato».
Non esiste improvvisazione senza ricordo?
«Assolutamente. Perfino nel free jazz che esplose negli anni Sessanta e Settanta, rompendo con la tradizione, anche lì si sentivano tutti i riferimenti al passato, anche quelli più inconsci».
Fuori dal jazz che musica ascolta?
«Tutto quello che è bello. Ho perfino fatto un progetto musicale partendo da Michael Jakcson. Mi piace la musica classica brasiliana. Il mio amico Joao Gilberto diceva: devi usare solo le note necessarie. Presi una sbandata per lui a 18 anni. Un altro che mi piaceva moltissimo era Henri Salvador. Qualche anno fa uscì con un disco pazzesco, Chambre avec vue, lui aveva ottant' anni e mi fece ben sperare per il mio futuro».
Cosa vuol dire invecchiare per un musicista come lei?
«Sa, molto dipende dallo stato fisico. Moravia diceva che la vecchiaia non esiste, esistono solo le malattie della vecchiaia. Sicuramente si perdono delle cose. C' è una parte del suonare che è molto corporea. Comunque fino a settant' anni ho avuto l' impressione di migliorare».
Ma si può davvero migliorare alla fine di una carriera così alta e prolungata come la sua?
«La carriera è una cosa, lo strumento è un' altra. Adesso sento che il rapporto con lo strumento sta peggiorando. Non puoi fare i cento metri sempre sotto i dieci secondi».
Non ha mai pensato di cambiare strumento?
«Tutti i giorni. La tromba è lo strumento più ostico che ci sia». Una sfida. «Indubbiamente».
Come quella con suo padre.
«Fu un' altra storia».
Si è più riappacificato con lui?
«Se ne andò prima che le cose per me cominciassero a funzionare alla grande. Morì pochi giorni prima dell' uscita del mio primo disco. Il vecchio era convinto che volessi fare il musicista perché non avevo voglia di lavorare e mi volevo drogare e bere. Si stupì, la volta che mi venne a trovare a New York, che avessi un appartamento e un conto in banca. Poi mi inviò una lettera: "Forse avevi ragione tu", mi scrisse. Lo capivo, anche se ci sono cose che non gli ho perdonato.
Cosa?
«Di non avere avuto fiducia in me, di non avermi nel mio cammino facilitato in niente».
Non le è andata poi così male.
«Poteva andare meglio. Chissà. A scuola l' unica materia in cui eccellevo, a parte la musica, era il disegno. L' insegnante suggerì a mio padre il liceo artistico. Roba per signorine, replicò. Voleva che facessi l' avvocato. Ma a me andava bene tutto il contrario di ciò che diceva. Ed eccomi ancora qui, a quasi 75 anni a fare concerti».
Le piace la sua vita nomade?
«Al contrario, sono abitudinario e pigro».
Avverte la fatica?
«Tantissimo. Alzarsi alle cinque e mezza, prendere un aereo, gettarsi nel traffico delle strade. Poi, arriva la sera, suoni e quello è il momento magico. Alla mia età il viaggio non è più una mitologia. Anche se un tempo lo è stato. Quando non suono me ne starei tutto il giorno in casa a leggere e suonare per me e per Lidia, mia moglie. Vado poco in spiaggia di questi tempi. Ecco com'è la mia vita».
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Foto Enrico Parodi |
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Nota : nel sito di Enrico Rava c' è un omaggio di Altan
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