di Vincino
Mi chiamavano Togliatti
Autobiografia disegnata a dispense
UTET
Forse non lo sapevate, ma da piccolo Vincino odiava Togliatti. E per un motivo più che giustificato: «Siccome avevo il naso buffo e gli occhialini tondi, a scuola i compagni mi chiamavano Togliatti. “Ehi, Togliatti, prrrr!” Erano i giorni del dramma di Ungheria».
Questa è solo una delle mille, scomode rivelazioni di una vita disegnata male, anzi: peggio.
Tutto ha inizio nel 1957, quando un Vincino undicenne presta la penna al giornalino delle maestre amiche di sua madre, per una prima vignetta satirica addirittura sul Mercato Comune Europeo.
Da lì in poi, è un crescendo di azioni sconsiderate: dalle lotte politiche nella Palermo di Ciancimino alle prime rubriche per “Lotta Continua”, tra mastini napoletani e pistole; dai soggiorni in carcere («Esperienza bellissima, la consiglio a tutti») alla naja come architetto sovversivo. E poi la fondazione del famigerato “Male”, con la sua satira feroce e le finte prime pagine di “Repubblica” («Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR»), che gli vale perfino una cena al Quirinale con Sandro Pertini.
E ancora: il furto di una Panda di proprietà della Fiat, le incursioni travestito da Craxi a un comizio dello stesso, il pornofotoromanzo con Cicciolina, i viaggi a scrocco per “Avaj”, la finta epurazione dal “Foglio”, ordita insieme a Giuliano Ferrara…
Mi chiamavano Togliatti è uno sghembo manuale di satira, un flusso d’incoscienza, un’autobiografia oscena e candida, funestata dalle facce note di Andreotti, Fanfani, Agnelli, Berlusconi, Scalfari, Occhetto, ma anche ispirata a ricordi affettuosi e privati: il padre, direttore integerrimo dei cantieri navali palermitani, la famiglia e i figli, gli amici geniali morti troppo presto, come Stefano Tamburini e Andrea Pazienza.
Vincino ha deciso di vuotare il sacco perché nella vita arriva un momento in cui certe cose non riesci più a tenerle dentro, ma soprattutto perché non voleva perdere l’occasione di farci diventare tutti, dal primo all’ultimo dei lettori, complici delle sue malefatte.
Giuliano Ferrara
1 –Prefazione di Giuliano Ferrara per il Foglio a “Mi chiamavano Togliatti” di Vincino
Populista, infame, genio. Ecco perché Vincino è un grande, Giuliano Ferrara, Il Foglio, 10 luglio 2018
Vincino è un populista, un antisistema, pero conosce la storia, e un populista che si e informato. Uno dei suoi fantasmini o silhouette dice a un altro, per spiegarsi tante cose tra padri e gli: «Voi avete avuto la guerra, noi il ’68. Meglio noi».
C’e nient’altro da dire. Vincino ha sempre paura, e sempre in fuga da chi lo vuole prendere a botte, strilla in questura fino a impietosire i poliziotti che lo corcano, ne prende tante, ne da qualcuna, scherza e bi- scherza, arriva nella redazione di “Lotta Continua” e dice di levare l’argenteria dai tavoli della redazione, niente revolver, perchè e un fifone di coraggio, formato a Palermo tra i morti di mafia che non riesce a disegnare se non in pantomima, ha la faccia come il culo della satira, se ne impipa di tutto e della bella figura prima di ogni altra cosa.
Il suo completo disinteresse si rovescia nell’ironia dell’avidita, si dispera come Leporello per la sua mesata: c’e sempre il problema del compenso a Vincino, che è per di piu architetto, ma che vergogna, laureato con il minimo dei voti, e questo e un vanto, militante ma venduto, un piccolo borghese che ha strillato le sue battute, e stillato i suoi disegnini, nel “Corriere” e nel “Foglio”, da cui lo abbiamo provvidenzialmente licenziato, e anche se per burla lui si è messo paura, e se ne vanta per un quarto di secolo.
L’infamia di Vincino non ha confini, la generosita naturale non lo riscatta, la dissipazione non lo ricompone, nel suo andare dinoccolato, fumato, nel suo barbonismo principesco, nel suo sorriso diffidente e ineguale mostra di non essere una persona integra.
E questa è la sua estetica, la sua arte burlesca e malinconica, è disintegrato, tira via, non vuole si veda il minimo sforzo, si finge infernale per comporre vignette tipiche del paradiso, si batte ossessivamente per il free speech a patto che si capisca sempre bene quanto poco gliene freghi, e quando minaccia i commessi della Camera e la Nilde Jotti, tutta gente molto integra, di buttarsi di sotto se non gli fanno prendere appunti disegnati in tribuna, e chiaro il capriccio infantile, evidente la cialtroneria di cui i comunisti superintegri come il caro onorevole Pochetti, che lui chiama Pochino, lo accusano con enfasi vocale, mica in torto.
VIGNETTA VINCINO DAL FOGLIO FERRARA E LA GIORNATA DI LAVORO AL FOGLIO
Purtroppo per lui è un letterato di genio a cavallo di due secoli, se tira una riga c’e una storia, se tondeggia e colora ecco un romanzo, ma appena senti la storia vedi che è secca come una riga, appena sei nel romanzo ti catapulti nell’Ottocento, nel secolo dello stile.
Altri fanno satira, lui ha fatto stile. I suoi errori di italiano sono commoventi, un artefatto naturale che nemmeno Madame Bovary. La presa sul tempo, il suo punctum senza studium, e puro Roland Barthes.
La sua vignetta e l’archetipo vivente del clic. Il cialtrone sofisticato è stato al “Foglio” la nostra speranza, il nostro specchio, la nostra risorsa d’acqua e di alcol e di fumo. Fino a un certo punto.
Agli inizi il principe Carlo faceva l’erotomane, lui ce lo mandava molto visibilmente arrapato e con l’Union Jack, il prode caporedattore Buracchio aveva dei dubbi, lui lo degradava per fax a “redattore addetto alle vignette”, a me toccava la bella figura libertaria del direttore, sior direttore, che autorizza con sovrano sprezzo del pericolo.
A forza di cialtronate Royal Watch fece di me un autocrate liberale, che vergogna. Poi Berlusconi fece un’esplorazione politica delle sue e Vincino ne disegno sedici che ruotavano allegri e affannati nell’aria a gran velocita con la dicitura «Dura la vita dell’esplorator», il suo amore passionale per il Cav. era incantevole. Questo gran ruffiano. Rendeva grottesca pure la nostra fronda.
La grandezza di Vincino non sono i giornaloni e i giornalini a cui si e legato, sopra tutto per soldi, la sua forza e stata “Il Male” e tutti quei giornali che in questo suo memoir racconta da vantone e da ballista.
Però sono stati giornali veri, nati d’insuccesso, coronati da successo, strangolati dall’anarchia e capaci di sfondare il muro del suono e delle copie, di fare tendenza, di farci scorticare dal ridere, dal sorridere, dal piangere lacrime amare, capolavori d’arte aggressivi e surreali, oltraggiosi e immodesti, che hanno fatto il culo al protocollo della democrazia liberale molto prima del vaffanculo di Gribbels.
IL MALE DI VAURO E VINCINO LE BRIGATE CONFINDUSTRIA
Vincino in quel letame disorganizzato si muoveva come un pesce nell’acqua, tiro fuori talento d’attore, imitava Craxi, si travestiva, procedeva di falso in falso in compagnia di Sandro Parenzo, di Ugo Tognazzi e di altri gentiluomini di malaffare.
E un uomo e un autore che ama l’assurdo, l’irriverenza e la sua seconda e terza pelle, dice di aver fatto la scuoletta con “Il Becco giallo”, con “L’Asino” di Podrecca, con Scalarini, dice di amare e imitare Reiser, mostra segni di camaraderie con figuri loschi e pericolosi della sua combriccola italiana, gli Sparagna, i Vauro, gli Staino, i Saviane, l’ardente Pazienza, insomma tutti i corruttori del linguaggio politico via satira la piu distruttiva, in questo libro c’e un curriculum impeccabile e totalmente falso.
Sta con questi suoi fratelli, ed e chiaro che alla radice c’e un rapporto con suo padre, formidabile gura di manager dei cantieri navali di Palermo al centro di un sistema di potere che e stato la vera natura dell’Italia repubblicana negli anni d’oro, altro che Benito Crazzo ladro, un uomo integro no alla durezza del simbolico che Vincino amava no al punto di farne il ribaltone incarnato che si sa, sport che i gli praticano dai tempi di Edipo alla stagione di Freud e di Jung.
Ma Vincino è dei nostri? No, e his own man, fa quel che cazzo gli pare, ritira qualche vignetta se la tipografia è ferma per un suo oltraggio, obbedisce se sia il caso, in prevalenza fugge, sfugge, svicola e sta al fronte in modo sfrontato, mostra il petto e ritira la mesata.
Aristocratico, svagato, estremista, cedevole, si presenta come un lumpen, come un dannato della vignetta inscritto nel suo recinto sacro, che peraltro non ha come si sa confini, Vincino disegna sprazzi, nuvolette, ovali, tableau disordinati, concatenazioni scatenate, non vignette se non occasionalmente.
D’altra parte e lui la vignetta che conta, il suo esame di stato con la pianta dell’Ucciardone spacciata al caro Franco Berlanda come un Panopticon dell’utopia, e lui il volgare truffatore che grida Viva il duce per salvarsi il culo, che si abbassa a scrivere agli esami da professionista, dopo due prove incredibilmente disegnate, per avere la Casagit.
E lui che crede troppo negli altri, nella vita miserabile e limitata in cui siamo costretti, nell’amore e nei viaggi e nella dissimulazione, per credere anche a se stesso. Genio, talento, azione, mito sono il suo tesoro disegnato e proiettato nel nulla del mondo, e guardate come lo ha sperperato.
2 – VINCINO, IL "POVERACCIO" CHE NON HA FATTO LA STORIA MA L' HA RACCONTATA
Mario Natangelo per il “Fatto Quotidiano”
IL MALE DI VAURO E VINCINO
"Io non ricordo come ricordo questo ricordo però ricordo": così inizia l' autobiografia Mi chiamavano Togliatti di Vincino, vignettista de Il Foglio e motore (im)mobile della satira italiana dagli anni 60 a oggi.
Una vita raccontata per giornali, da L' Ora di Palermo a L' avventurista di Lotta Continua, poi Il Male, Tango, Il Foglio, Corriere della Sera e ancora altri.
Una storia di riviste senza una lira e di contratti milionari, banchetti mondani e pezze al culo, risse furiose, morte e galera. Il vignettista Vincino è uno stratega impegnato in una perenne partita a scacchi contro il potere, qualsiasi esso sia, ma la cui minaccia è sempre uguale e l' autore ce la svela con un incubo avuto ai tempi in cui raccontava a disegni il Maxi-processo di Palermo: che uno di quei mafiosi gli tagliasse le mani.
vincino 15 anni dagospia
VINCINO 15 ANNI DAGOSPIA
Non che lo uccidesse, badate bene: che gli tagliasse le mani. Si è discusso molto di cosa sia la satira, specie dopo la carneficina di Charlie Hebdo del gennaio del 2015: nell' autobiografia di Vincino c' è l' essenza della satira.
"Un altro incontro con i fascisti avviene a Gela, mentre torno a casa da solo di notte. Cinque fascisti mi attorniano: 'Rosso, di': Viva il Duce!'. E io: 'Viva il Duce!'. Me la scapolo così. Lo so, non è onorevole ma mi salvo il culo": la satira 'se la scapola', quando può, sfugge a una situazione pericolosa sfilando via la testa dal cappio. Ma nel cappio la testa ce la infila volentieri, il cappio è l' essenza della satira: senza cappio, non c' è satira.
E di quanti cappi racconta Vincino, e di quante provocazioni ritirate per scapolarsela. Accetta di tacere una volta per continuare a colpire, perché la voce non si spenga mai e le mani non siano tagliate.
Dal primo giornalino scolastico sul quale ha iniziato a pubblicare vignette (all' età di undici anni) fino a oggi. Da Gianni Riotta a Enzo Biagi passando per Eugenio Scalfari, Lucia Annunziata, Claudio Sabelli Fioretti e altri ancora, Vincino dipinge un ritratto spietato non solo della classe politica, ma anche del mondo giornalistico.
VINCINO CON VALENTINA E MICHELE AINIS
Ma sia chiaro: Vincino non è un eroe, Vincino si presenta come un poveraccio che non ha fatto la storia ma l' ha raccontata, combattuta e spesso subita. Vincino è pragmatico, senza soldi non si campa: "Non ho mai rifiutato soldi", scrive, e quando lo criticano per avere accettato un premio 'borghese' come il Premiolino (uno dei più importanti premi giornalistici italiani) e i relativi 3 milioni di lire, lui risponde con una vignetta che recita: "Lettore, se ritieni che debba rifiutare il premio, invia Tre Milioni specificando: per Vincino acciocché rifiuti il Premiolino". Vincino è un poveraccio, ma è uno che si è divertito da matti. Vincino è uno che non ha avuto pietà per nessuno e mai per se stesso. Vincino è uno che i limiti della satira "li infrangiamo tutti con convinzione e pervicacia".
Vincino ha fatto lavori per il Pci facendosi pagare dalla Lega delle cooperative (Tangentopoli, do you remember?), Vincino ha scoperto chi c' era dietro il Golpe Tejero in Spagna, Vincino ha minacciato di buttarsi di sotto - alla Camera, dinanzi a un' inferocita Nilde Iotti - perché volevano impedirgli di disegnare dal vivo. Vincino è uno che scrive "un' autobiografia disegnata a dispense - Tomo I° (abbiate fede)" sapendo benissimo che il Tomo II non ci sarà ma noi avremo fede.
Eccolo, Vincino.
Ecco la satira.
VINCINO è il VINCITORE DEL 46° PREMIO SATIRA POLITICA FORTE DEI MARMI 2018
per questo libro edito da Utet.
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Descrizione
Nel 1957 Vincenzo Gallo pubblica il suo primo disegno su un giornalino scolastico di Palermo (per intercessione delle amiche della madre): ritrae la nascita del Mercato comune europeo, con le caricature di De Gaulle, Eisenhower e i vari presidenti. E così Vincino, a soli 11 anni, pubblica la sua prima vignetta. È una autobiografia esilarante, in parte scritta in parte - ovviamente - disegnata: dall'infanzia nel dopoguerra alle prime lotte politiche nella Palermo di Ciancimino, dal ricordo affettuoso del padre direttore dei cantieri navali (un gentiluomo in un mondo già corrotto dai partiti) alle prime rubriche satiriche per il giornale di Lotta Continua. Vincino attraversa col candore che lo contraddistingue l'esplosione politica del '68 e quella creativa del '77, ci racconta di Adriano Sofri e di Andrea Pazienza, ci fa assistere alla nascita del mitico "Male", con la sua satira spietata e le finte prime pagine di "Repubblica" («Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR»), che gli valse persino una cena privata con un insospettabile fan: Sandro Pertini. E poi "Cuore", "Il clandestino" con Vauro, fino alla finta epurazione dal "Foglio" nel 2002, ordita insieme al direttore Giuliano Ferrara come ultimo grande scherzo, in tempi ancora lontani dal terrore delle fake news.
Vincino e il flusso d’incoscienza, Rivista Studio, 12 luglio 2018