Angela Lansbury pencil 2013
Jan Op De Beeck
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Interessante l’intervista all’attrice inglese che fu pubblicata da “Vanity Fair”
di Paola Jacobbi.
Prima o poi doveva succedere, però che dispiacere. Considero una delle (tante) fortune della mia vita da giornalista averla incontrata così, a casa sua, senza nemmeno un ufficio stampa a tenere il tempo. Fu un'intervista cercata con insistenza, un inseguimento durato cinque anni.
Scrissi la prima mail alla sua assistente facendo subito una gaffe. Mi riferivo a lei chiamandola Dame, dando per scontato che un’attrice inglese, così famosa da tanto tempo e in tutto il mondo, avesse già ricevuto un’onorificenza dalla corona britannica. Alla risposta della terza mail, nel mezzo di un continuo rimandare di date e luoghi, l' assistente mi segnalò garbatamente che la signora Lansbury voleva farmi sapere di non essere mai stata insignita di alcunché e che quindi non era il caso che la chiamassi Dame.
Ho chiesto scusa, ho pregato di intendere le mie parole come auspicio, ho scritto che, insomma, a mio modesto parere, la signora avrebbe meritato un riconoscimento. Altre mail, altri rinvii (loro), altre insistenze (mie), ma niente intervista.
Nel frattempo, Lansbury, che si avvicina ai 90, gira il mondo, letteralmente. Torna a recitare e riempie i teatri in Australia, a Londra, a New York. Riceve un Oscar onorario. Rilascia anche, con mio sommo dolore, un’unica intervista a Christiane Amanpour della Cnn.
Io, più o meno ogni volta che incoccio in un episodio della Signora in giallo in tivù, corro al computer e insisto, niente da fare. A un certo punto, la regina Elisabetta la fa Dame of the British Empire. Mi congratulo, scrivo con impertinenza «visto, che avevo ragione?». Silenzio. Passa un altro anno, su Internet, per poche ore, un giorno gira persino la bufala della sua morte. Io, timidamente, provo a scrivere di nuovo.
Arriva un sì.
Ecco l'intervista
E adesso sono qui, davanti alla porta di un appartamento di New York. Ho in mano un ingombrante mazzo di fiori male assortiti e Angela Lansbury apre la porta. Indossa pantaloni neri, una bella camicia stampata a disegni bianchi e neri, è leggermente truccata.
Comincio col dire che sono ammirata dal fatto che non abbia mai smesso di lavorare. In teatro, poi.
«Io amo il teatro, il mio cuore è lì. Ogni volta che, nella mia vita, qualcosa non andava bene, ci sono sempre tornata. Dopo la morte di mio marito (il produttore Peter Shaw, ndr) sono stata ferma tre anni per il dolore ma poi il teatro mi ha riportato un po’ di gioia. E, anni prima, quando scappai da Hollywood, fu il palcoscenico a farmi sentire bene di nuovo».
Lei è nata a Londra, si è trasferita negli Stati Uniti da ragazzina e, nel ’44 ha debuttato nel cinema, nel film Gaslight con Ingrid Bergman e Charles Boyer.
«Avevo 19 anni, loro erano due star ma furono gentilissimi. E, del resto, io avevo molto talento, adesso lo posso dire! Il cinema allora si faceva provando ogni scena, a volte per giorni interi. La Metro Goldwyn Mayer mi mise sotto contratto. Cominciai a guadagnare benissimo: 500 dollari a settimana per 62 settimane. Un sacco di soldi. Ma pochissima libertà».
In che senso?
«Non si poteva scegliere niente. Eravamo burattini messi in un film o nell’altro a seconda delle esigenze produttive. Ci obbligavano ad andare alle prime e ci dicevano anche con chi saremmo dovuti arrivare alla serata».
Vi fornivano anche i vestiti?
«No, quelli ce li dovevamo comprare. O, al massimo, potevamo prenderli in prestito al guardaroba dello studio. Non c’era l’interesse che c’è oggi per i vestiti addosso alle attrici. È tutto un parlare di Tizia che indossa Balenciaga e io non ho niente contro Balenciaga o altri stilisti ma vorrei anche capire se in giro ci sia gente capace di recitare o solo di indossare dei begli abiti da sera».
Le attrici di oggi guadagnano un sacco di soldi facendo pubblicità a marchi di moda e profumi.
«Anche noi facevamo i testimonial per dei prodotti, ma i soldi li prendeva lo studio. E di me, inglese, non la classica bellezza che andava di moda allora, Hollywood non sapeva che farsene. Scappai a Broadway, a fare musical. Adoravo cantare e ballare. A furia di ballare e saltare mi sono rovinata le ginocchia e le anche. È tutto finto, adesso, sono piena di protesi. Ma funzionano, ed è quel che conta».
Nei primi anni a Hollywood si sposò la prima volta, con l’attore Richard Cromwell. Lui era gay e la lasciò dopo nove mesi con un biglietto che diceva: «Non posso andare avanti così».
Una cosa del genere oggi non potrebbe più succedere.
«No, oggi una ragazza non sarebbe così ingenua ed è ormai rarissimo che i gay si nascondano dietro matrimoni di facciata. Ma io ero affascinata: era bellissimo, era un artista, era intelligente».
Ma con Peter, il suo secondo marito, è stata molto felice.
«Sì, e mi manca ogni giorno. Era tutta la mia vita, partner e complice, padre dei miei figli, un uomo attento agli altri, fin nei piccoli gesti. Era di quelli che ti aprono la portiera della macchina, capisce? Un uomo di quelli che oggi non esistono più. Conosco donne giovani che darebbero un occhio della testa per incontrarne uno».
Avete avuto due figli.
«Anthony e Deirdre, sì, ma considero mio figlio anche David, che Peter aveva avuto da un matrimonio precedente. Quando Anthony e Deirdre erano adolescenti hanno avuto problemi di droga, io e mio marito eravamo impegnatissimi con il lavoro e non ci siamo resi conto subito di che cosa stava succedendo».
E poi?
«Poi, per fortuna, abbiamo preso in mano la situazione e ci siamo dedicati a loro, fino a farli uscire dalla strada che avevano preso.L’importante è che tutto sia finito per il meglio. Deirdre ha sposato un italiano e insieme gestiscono un ristorante, Enzo e Angela».
E Anthony?
«Anthony inizialmente voleva fare l’attore ma poi ha capito di essere più bravo come regista ed è venuto a lavorare con me, mio fratello Bruce e il suo fratellastro David. Ha diretto moltissimi episodi della Signora in giallo, mio fratello li ha scritti e David li ha prodotti, seguendo le indicazioni di suo padre che è rimasto sempre nell’ombra ma che era il vero ispiratore di tutto».
Più che la signora in giallo, una famiglia in giallo!
«Sì, è stato il nostro progetto. Io avevo 58 anni, le occasioni al cinema e a teatro scarseggiavano e, con mio marito, decidemmo che era arrivato il momento della televisione. Non fu facile far passare l’idea di una serie tivù con una protagonista della mia età».
Già, ma poi 264 episodi e un successo che neanche abbiamo bisogno di spiegare. Ma lei che rapporto ha con Jessica Fletcher? «So benissimo che sarà nella prima riga del mio necrologio, quando morirò. L’anno scorso, a Londra, ogni sera, quando uscivo da teatro per andare a casa, c’erano decine di persone ad aspettarmi. Italiani, spagnoli, francesi, turchi… Erano tutti lì per Jessica. Mi sono sentita una rockstar, il che alla mia età è un po’ ridicolo. Preferirei essere conosciuta per il mio lavoro a teatro o al cinema? Forse. Ma così è la vita!».
Lei viene da una famiglia di politici, suo nonno è stato leader del Labour Party e anche suo padre è stato un attivista di sinistra. A lei interessa la politica?
«No, forse proprio perché vengo da quella famiglia lì me ne sono sempre disinteressata».
Le piace il presente, l’epoca in cui viviamo?
«Mi piacerebbe dirle di sì, per civetteria, per sembrare giovane, ma non posso. Non mi interessano i film di fantascienza che vanno di moda e non capisco niente delle nuove forme di comunicazione. Francamente, anche fossi in grado di maneggiarle, le pare che alla mia età, possa mettermi a twittare?».
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