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venerdì 24 luglio 2015

Ritratto di Ilaria Occhini

Su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Ilaria Occhini



Ilaria Occhini: "Non sarò mai pacificata, ancora balbetto la prima battuta"
L'attrice fiorentina diretta da Visconti, Risi, Ronconi, Patroni Griffi: "Luchino Visconti aveva un'estetica esibita e classica, minacciata a volte dal suo lato isterico. Quando si invaghì di Delon c'era solo lui. E Alain sentiva di essere il prescelto"

di ANTONIO GNOLI

FORSE ha perfettamente ragione Raffaele La Capria quando, rivolgendosi all'amore di quasi tutta la vita, le dice: "Ho l'impressione cara che dovrei allontanarmi. Non ascoltare quel che dici. A un estraneo si raccontano cose che è giusto non sentire". E lei, Ilaria Occhini, lo guarda con tenerezza e imbarazzo. E gli dice di restare perché le sue parole non tradiranno. È una scena di una bellezza senza rimorsi. Come tra due amanti che ritrovino la ragione profonda dello stare assieme. Sorridono. Raffaele con una leggera irrequietezza. Ilaria mostrando la tensione di un esordio: "Non mi abituerò mai a pronunciare la prima battuta. La sento tra la lingua e il palato. Come una sorsata di buon vino. La voce ne sciacqua il timbro. Cerco di modulare, ritmare, impostare. Ma ogni volta è morire". Pronuncia "morire" stringendosi le mani.

Sa una cosa?
"Cosa?".

È sorprendente questa dichiarazione di insicurezza.
"Perché?".

Da una donna bella, ammirata, fotografata, descritta, ci si aspetterebbe una presenza piena e sicura.
"Se a volte posso essere determinata, la determinazione non è il mio tratto distintivo. Non amo la prepotenza, però mi piacciono le figure forti. Di solito c'è in loro una chiarezza maggiore. Ho spesso pensato che il teatro, diversamente dal cinema, si nutre di una forza interiore, primitiva. Elementare. Di una chiarezza esistenziale che il cinema non ha. Anche se col cinema ho iniziato la mia carriera".

In che maniera?
"Cercavano una liceale per un film di Luciano Emmer. Fui segnalata al regista. Il suo aiuto, Francesco Rosi, venne appositamente a Firenze dove vivevo. Sulla terrazza di casa ci fu il provino. Andò bene. Interpretai la parte di una studentessa. Un ruolo corale in un film che descriveva bene i turbamenti e i problemi di una gioventù dopo la guerra. Era il 1953. Ricordo anche la fotografia diretta da Mario Bava, che sarebbe diventato in seguito un regista cult".

Che ricordo ha di Emmer?
"Ho spesso pensato a lui come a un grande artigiano del cinema. Sul set era un uomo spiritoso. Ma devo dire che dopo quella esperienza non pensai minimamente di dedicarmi al cinema. Però accadde un episodio che mi riportò dentro quel mondo".

Quale?
"Durante un grande ballo a Firenze, Henry Clarke mi dedicò una serie di scatti. Una mia foto finì sulla rivista Vogue con la didascalia: "La bella italiana". Robert Bresson le vide e mi fece contattare. Cercava il ruolo di protagonista per La Princesse de Clèves. Andai a trovarlo a Parigi. Emozionata di trovarmi davanti a un grande regista. Mi disse che ero adatta ma che dovevo migliorare il mio francese. Sei mesi dopo avevo un accento perfetto. Ma il film non si fece. Una questione di diritti bloccò la produzione. E Bresson rinunciò a girare il film".

Immagino la sua delusione.
"Provai dolore. Credevo in quel ruolo. Credevo nelle mie possibilità. In quei mesi, di studio, sentivo crescere progetti e certezze. Tutto andò in fumo. Che fare? Pensai che la cosa più naturale fosse di iscrivermi all'Accademia d'Arte Drammatica. Feci il provino con gli occhi chiusi tanta era forte la tensione. Ottenni l'ammissione. E così nacque la mia storia con il teatro".

Chi frequentava allora?
"Divenni amica di due persone più grandi di me: Mario Missiroli che sarebbe diventato un eccellente regista teatrale. La prima volta che lo vidi gli chiesi se conosceva i Casini. La mia famiglia era molto amica dell'editore Gherardo Casini che aveva frequentato mio nonno, Giovanni Papini. Mario mi guardò con ironia: ma certo che conosco i casini, sono un autorità in materia. E poi scoppiò in una risata. L'altro grande amico fu Luca Ronconi".

Un talento anaffettivo, si è detto di lui.
"Lo era nel senso che sapeva avere un distacco dalle cose. Ma credo che gli costasse. A un certo punto della sua vita Luca avvertì una specie di crisi creativa. Non riusciva più a scrivere. Per questo andò in analisi".

Perché le viene in mente questo episodio?
"Penso che le persone non sono mai una sola cosa. Luca, a un certo punto, cominciò a liquefarsi. Provavo pena ma anche sollievo per un amico che aveva perso sicurezza. Pensavo che fosse un'occasione per rinascere. Come del resto è poi accaduto. Ci rendiamo conto degli amici quando abbiamo la sensazione di perderli. E poi è bellissimo ritrovarli".

Si perdono per i motivi più diversi.
"È vero, anche per stanchezza. L'amicizia richiede uno sforzo, un esercizio continuo con l'altro non indifferente".

Anche in amore è così?
"In amore c'è la sopportazione del quotidiano. Qualcosa talvolta di eroico e di misterioso. Ma anche di terribile. Le piccole viltà. Il bisogno del quieto vivere. L'amore è una scuola di resistenza".

Anche una scuola di recitazione?
"In certi casi sì. In certi casi si recita a soggetto".

Come è stato il suo esordio teatrale?
"Grandioso e catastrofico allo stesso tempo".

Cioè?
"Era la fine degli anni Cinquanta e, grazie agli sceneggiati, stavo riscuotendo un successo notevole in televisione. Ero diventata famosa. Volevo fare teatro e pensai di avvicinare Visconti, che non conoscevo. Sapevo però che cercava un ruolo per un suo Goldoni. Telefonai a Paolo Stoppa che era il tramite con Luchino. Paolo era un uomo greve e cinico. Ai suoi occhi ero solo un pezzo di carne. Doveva solo stabilire se pregiata o no. Alla fine chiamò Visconti il quale, dopo avermi vista, mi scritturò. Debutto, qualche mese dopo, alla Fenice di Venezia".

Cosa accadde?
"Preparai la mia parte con grandissimo impegno. Mi sentivo perfetta. La sera della prima Luchino mi disse: sarà un esordio indimenticabile. E tale fu. Quando vidi la platea, un mare di smoking bianchi, fui presa dal panico. La voce cominciò ad andare per conto proprio. Non la controllavo. Non controllavo il respiro. Ero nel pallone. Questo fu il debutto: un disastro. Visconti restò sconcertato. Deluso".

Lei cosa provò?
"Mi sarei scavata una fossa per nascondermi. Mi sentivo ridicola, inadeguata, cretina. Ma soprattutto avvertivo un senso di vergogna per aver tradito le aspettative di chi credeva in me. Visconti fu straordinario e mi sostenne comunque. Quanto a me, per anni mi sono portata dentro questo fallimento. E ancora oggi sento come uno stordimento ogni qualvolta inizio qualcosa di teatrale".

È diverso dal cinema?
"Nel cinema c'è una meccanicità che il teatro non conosce. Il teatro è un viaggio sentimentale. Pieno di insidie e tormenti. Ronconi lo vedeva come una discesa nelle parti meno note dell'anima. Visconti come una specie di risalita. Il gioco è tutto qui: perdersi e ritrovarsi; oppure trovarsi e poi perdersi".

Chi era più bravo in questo gioco?
"Forse Visconti. Aveva un'estetica più esibita, più classica. Minacciata a volte dal suo lato isterico".

Isterico?
"Sono sensazioni. Ricordo quando Luchino si invaghì di Alain Delon. Non c'era che lui. E Delon, in qualche modo, sentiva di essere il prescelto. Un giorno, a casa di Visconti, sentii le urla di Delon contro un cameriere che aveva sbagliato nel portargli una certa cosa. Istericamente Luchino si accodò a quelle urla, rincarò l'episodio maltrattando il povero cameriere. Le ingiustizie dei grandi".

So che ha lavorato con Delon.
"In un film di produzione francese. C'era anche Jean Gabin. Non parlavano che di donne o di cibo. Ascoltarli fuori dal set faceva precipitare velocemente il loro fascino. Comunque regalai a Gabin un bel pezzo di parmigiano. Non lo so. Mi pareva che le due cose si somigliassero".

Non capisco se lei sia una donna più adirata o più sorpresa dalla vita.
"Adirata no. Sorpresa direi di sì. Per esempio ho avvertito con stupore e disapprovazione un profondo mutamento di giudizio nei riguardi di mio nonno Giovanni Papini".

Cosa intende?
"Sono stata, come nipote, la persona che negli ultimi anni gli fu più vicino. Ma ricordo perfettamente il periodo fiorentino e le persone che venivano a omaggiare il nonno. Una rincorsa. Poi finita la guerra le stesse persone cominciarono a insultarne la figura, a dire che Papini era stato un mascalzone. Come era possibile che lo stesso uomo, prima venerato, fosse stato ridotto alla stregua di un mostro? Questo non fece che alimentare le mie incertezze giovanili".

Una spiegazione era possibile.
"E quale, che il nonno era stato fascista? Tutti, tranne qualche eccezione, lo furono".

Lo si accusò di aver firmato il "manifesto della razza".
"Ma questa è una balla! Non risulta, per quello che ne so, da nessuna parte un'adesione del genere. Oltretutto nel 1939, cioè un anno dopo quel famigerato documento, il nonno scrisse un articolo sulla rivista Frontespizio contro i teorici della razza. Perché avrebbe dovuto firmare?".

Forse perché proprio quell'anno era stato eletto accademico d'Italia. Non si occupava quel posto senza una fedeltà dichiarata al fascismo.
"Intanto anche Luigi Pirandello, Guglielmo Marconi, Marinetti furono nominati accademici. Erano fascisti? Sì, lo erano. Come lo fu il nonno, ma senza nefandezze".

Anche suo padre, Barna Occhini, fu un esponente culturale del fascismo. Come furono i rapporti tra voi?
"Nonostante tutto molto affettuosi. Capivo la sua irruenza. Il suo orgoglio. Mio padre era un critico d'arte e un letterato. Aveva una propria concezione dell'onore. C'è una sua lunga lettera, che in parte lo storico Renzo De Felice pubblicò, nella quale mio padre se la prendeva con Mussolini. È una lettera del 1944. Un atto di accusa non contro il fascismo ma contro la viltà del duce. Lo accusa di essersi ritirato e di non far nulla per combattere i tedeschi che ci depredano. "Non ha niente da dire?", scrive. "Voi restate nascosto e inaccessibile in un misterioso angolino d'Italia". Questo era mio padre. E quando è morto, Antonello Trombadori che gli fu amico, nonostante fossero politicamente agli antipodi, mi disse: "Ilaria ho stimato molto tuo padre e gli ho voluto bene"".

Si parlava poc'anzi dell'amore. Una grande storia è stata quella di lei con La Capria, che è qui presente.
"Mi fa piacere che ci sia. Lui dice che la verità quando si è vecchi diventa più importante della poesia".

Cosa vuol dire?
"Che in fondo non vale la pena dipingersi migliori di quello che si è. Io, ad esempio, sono stata si dice bellissima. Non credo di esserlo più. Mi dico, cosa penserà la gente quando esco in strada dopo ore di trucco? Non è ridicolo tutto questo affannarsi?".

Com'è il vostro rapporto?
"Dudù dice che siamo come questa foto: due vecchietti che sorridono. Lui si sente pacificato. Ha buoni rapporti con le persone e il mondo".

E lei?
"Meno. Molto meno. Dudù dice che sono una "scassacazzi". Non la classica moglie adorante. Dice che non mi piace mai niente di quello che scrive. Non è vero. Gli fa comodo pensarlo. Ma non è vero. Ma dopotutto io sono un'aristocratica e lui un borghese".

C'è un racconto di suo marito molto bello e molto crudo in cui mette un po' a nudo il vostro rapporto che iniziò nel 1961.
"Fu l'anno in cui vinse lo Strega. Ci innamorammo perdutamente e perdutamente siamo stati insieme".

In questo racconto parla anche di tradimenti.
"Ognuno ha il diritto di dire quello che vuole. Di confessarsi pubblicamente. È stato un rapporto lunghissimo. Capisco le rivendicazioni. I momenti alti e bassi. Ci siamo conosciuti. Ci siamo fatti del bene e del male. E questo è tutto".

Proprio tutto?
"Non ci sono più terre selvagge da sognare. O da conquistare. Magari a questo punto uno ricorre al viatico divino. Mi colpì molto mio nonno che dopo essere stato un fervente mangiapreti si convertì profondamente. È morto facendosi leggere i Vangeli. Come uomo passò gli ultimi anni della vita afflitto da una devastante sclerosi. Il male progrediva. Fino a quando perse tutto. Gli restò solo il movimento di un dito e con quello, per comunicare, indicava le lettere dell'alfabeto. Ecco cos'è un intellettuale eroico. Non quegli stronzi che ne fecero una macchietta".

Finiamo in gloria?
"Ma no, finiamo come abbiamo cominciato. Io che prendo la parola e balbetto. Mi emoziono. Rido e piango. Ilaria, mi dico, il guaio non è essere vecchi, ma sentirsi giovani ".

domenica 14 giugno 2015

Ritratto di Giovanna Marini

Su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Giovanna Marini



Giovanna Marini: "Il mio canto libero in un mondo che non crede più alla resistenza"
La musicista, cantautrice e ricercatrice etnomusicale: "Una sera venne ospite il grande folksinger americano Peter Seeger, amato anche da Bob Dylan. Dovevo fare da traduttore ma non sapevo lo slang. Fu surreale"

di ANTONIO GNOLI

PENSO che Giovanna Marini appartenga ad una certa sinistra scomparsa. Lei è ancora qui, ma gli ideali di giustizia e uguaglianza sono volati via da un pezzo. Non si sente, per questo, una sopravvissuta. Per curiosità vado ad una sua lezione dedicata al canto contadino.

giovedì 9 aprile 2015

Ritratto di Dacia Maraini

Il 15 marzo su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Dacia Maraini




Dacia Maraini: "Ho vissuto di amori e successi, ora fuggo dal vortice delle passioni"

A tre anni era in un campo di concentramento. Per mantenersi a Roma fece la hostess. Poi scoprì la letteratura. Dall'infanzia a oggi, la scrittrice si racconta. E rivela: "L'unica strada è aiutare gli altri"


di ANTONIO GNOLI

UNA leggera quiete avvolge l'immagine di Dacia Maraini. È una donna che mi fa pensare a mille altre donne che nel tempo hanno consolidato l'idea che esistono legami, sorellanze, generosità da cui sovente il mondo maschile è escluso. Sorride. Composta. Nell'intimità di una parola attenta ma non studiata. Non esibita. Non ricercata. "Lei pensa davvero che le donne siano migliori dell'uomo? Io non lo credo. Sono state solo più bistrattate, umiliate, incarcerate in quella deriva mentale fatta di paura e sudditanza. Ma non hanno per questo prodotto nessuna vera differenza".

Ah, la differance. Mi chiedo se la nostra conversazione possa avere inizio

martedì 24 marzo 2015

Ritratto di Piero Gelli

Il 9 marzo su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Piero Gelli


Piero Gelli: "Quando Livio Garzanti zittì Pasolini capii che il divorzio era consumato"

Il direttore editoriale: "Fu una specie di chiarimento. Tutto ebbe origine da un telegramma nel quale l'intellettuale chiedeva spiegazioni su uno scrittore che la casa editrice aveva deciso di pubblicare. Il tono sembrava ultimativo: mi dica se è vero che ha preso un autore a me inviso"
Antonio Gnoli

CREDO che Piero Gelli fosse rimasto il solo, al di fuori della famiglia, a vedere ancora in vita Livio Garzanti: "Capitava che mi affacciassi. Vede questo galletto nel piatto? Si era ridotto così. Ristretto. Stranamente mitopoietico nel suo modo di volgersi al passato. Sospettavo che fosse perfino diventato buono. L'ultima volta che lo incontrai con la voce ormai spenta disse: ma lei perché ha tanti amici e io nessuno? E ho ripensato alla sua vita. Al suo carattere sgradevole, asociale, dissonante. Mi veniva in mente André Gide, un uomo animato da pulsioni contrarie".

Nel ristorante romano dove sediamo le voci e i rumori creano un sottofondo di distrazione. Gelli socchiude gli occhi e la voce, intimamente fiorentina, lancia qualche amo nel passato: "Non distante da qui c'era un tempo l'Augustea. Un giorno con Garzanti vi incontrammo Pasolini. Nessuno poteva immaginare che di lì a poco sarebbe morto".

Perché vi vedeste?

venerdì 20 marzo 2015

Ritratto di Bernardo Valli

Il 1 marzo su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Bernardo Valli






Bernardo Valli
“Niente letteratura, niente storia sono e resto un giornalista inquieto”

ANTONIO GNOLI

DOPO una conversazione durata quasi tre ore e che ci inoltra nel pieno di una sera parigina, Bernardo Valli mi invita in un ristorante non lontano da casa. Vive nel nono arrondissement. «Un tempo fu il regno dei letterati e degli artisti. La chiamavano la Nouvelle Athènes. Ci stavano stabilmente Baudelaire e Zola; ci venivano George Sand e Turgenev. Non distante c’è il liceo Condorcet dove Proust studiava. Qui offrì a una compagna un mazzolino di fiori prima di scoprire la sua omosessualità ». Valli ha buone letture. E straordinari ricordi. Non mi sorprende. I suoi articoli (una parte è uscita qualche mese fa da Mondadori) aprono a mondi narrativi costruiti con la precisione del grande meccanico. Usciamo dal ristorante che è quasi mezzanotte. Fa freddo. Un tratto di strada a piedi. Poi improvvisamente Pigalle: uno schiaffo di luci rosse. «In quarant’anni che vivo a Parigi non sono mai stato al Moulin Rouge», confessa. Penso che l’ombelico del turismo famelico non gli interessi. Non gli susciti alcuna emozione. Che “animale” ho di fronte? Sfuggente, certo. Ma anche abile nella caccia. Mansueto e duro. Capace di coprire grandi distanze ma anche di starsene tranquillo nella tana.
Non hai mai pensato di tornare in Italia?
«A volte. Alla fine la pigrizia ha avuto la meglio».
Non sembri un uomo pigro.
«La pigrizia scherma le mie esigenze. I miei rituali. Il mio lavoro che organizzo. Le mie partenze, a volte repentine. Sono appena tornato da Vilnius. Un tempo era la Gerusalemme d’Europa. Ne hanno ammazzati tanti di ebrei, allora. Circa duecentomila. Sai chi era di Vilnius?».
Un sacco di gente è di Vilnius.
«No, no. Guarda pensavo a uno scrittore. Romain Gary. L’ho conosciuto bene. Siamo stati anche amici. Come ebreo lituano era sentimentale e dotato di grande fantasia. Pensavo a lui quando ero a Vilnius. Il fantasma che mi accompagnava».
È morto suicida.
«Si tirò un colpo di pistola alla testa. Era il 1980».
L’anno prima si era suicidata la sua ex moglie Jean Seberg.
«Ho conosciuto bene anche lei. Ma non mi va di parlarne. È raro che ci si uccida per mancanza di talento. Per eccesso, forse sì».
Come Tommaso Besozzi, l’inviato speciale e grande cronista de L’Europeo.
«Tu scavi nel passato. Morì nel 1964. Gli ero stato amico. Vedevo in lui crescere l’angoscia. Farsi smisurata. Si lasciò esplodere con una bomba».
Tu hai scritto che a un certo punto della vita non riuscì più ad adeguare le parole ai fatti.
«È così. Le esigenze dello scrittore presero il sopravvento sulla realtà. Poteva rimanere per ore davanti al foglio bianco senza scrivere una parola».
A te è mai accaduto?
«Raramente, non sono un letterato».
Lo ritieni quasi un insulto.
«È il destino, nel bene e nel male, del giornalismo italiano ».
Il bello scrivere?
«Scrittura impressionista che più che guardare all’Inghilterra, come credeva Albertini, si ispirava alla Francia. Giornalismo pamphlettario. Molta denuncia e pochi dati».
Qual è la tua idea di giornalismo?
«È prima di tutto un servizio. Una cosa pratica. Informa: dagli orari delle farmacie a quello che accade in una guerra. È un lavoro artigianale. Non letterario».
È come se tu volessi allontanare una tentazione.
«Non ho mai avuto queste tentazioni. Certo, oggi è diverso. Un tempo, quando ero in Africa o in Asia, un articolo lo dettavo al telefono, se lo trovavo; o lo trasmettevo per telex. Capitava che arrivassi in un posto alle sei del pomeriggio e alle dieci di sera dettassi il pezzo. Cosa mi spingeva a fare tutto questo? La curiosità, prima di tutto. E poi, l’incoscienza. Che è una risposta all’ignoranza ».
Sembra tutto molto eccitante.
«È un’immagine sbagliata. Ho vissuto in un’epoca in cui i tempi erano maledettamente lunghi. Estenuanti. Viaggiavo spesso in solitudine. La sola cosa che alla fine facevo era leggere».
Che tipo di lettore sei?
«Calvino diceva che ci sono letture intellettuali, colte; e letture che puntano al godimento immediato. Sono un lettore che legge per piacere. Anche se a volte non mi sono tirato indietro davanti a costruzioni impegnative. In Medioriente tentai di leggere l’ Ulisse di Joyce. In Thailandia lessi tutto L’uomo senza qualità di Musil ».
Cosa ti spingeva a leggere Musil in quel mondo così remoto?
«Pensavo che il regno di Kakania non fosse poi così diverso da quello thailandese. Leggere è un modo per staccare. Riprendere fiato. Durante l’assedio di Phnom Penh, in una biblioteca abbandonata, ho riletto buona parte di Dumas. Era un modo per liberare la testa».
Forse anche di riempirla con qualcosa che sarebbe riecheggiata nei tuoi articoli.
«Qualcosa resta. Il ritmo. Certe parole. Ma, al tempo stesso, so che non c’entro niente con Stevenson o Conrad o, magari, Graham Greene. Ho sempre letto. Fin da giovane. Sono stato un cattivo studente. Ma spesso leggevo i libri che al liceo Attilio Bertolucci consigliava a mio fratello maggiore».
Hai una classifica di buoni libri?
«Ho letto spesso in maniera disordinata. Negli anni in cui ho abitato a Singapore lessi tutto Balzac e Zola. E a proposito di francesi, a Saigon feci leggere a Terzani – che amava soprattutto i libri di storia e di viaggio – Un cuore semplice di Flaubert. Venne da me con le lacrime agli occhi. Non prenderlo come un vezzo. Le letture più belle sono state per me quelle più occasionali».
Di Terzani sei stato molto amico.
«Oggi ne hanno fatto una specie di guru. È un’immagine che mi infastidisce. Quello che ho conosciuto e del quale sono stato amico era una persona dolcissima che non aveva nulla del santone. Alla fine evitavamo di parlare di ciò che ci divideva».
Cosa esattamente?
«Io restavo un cronista. Lui inseguiva le idee. Una delle ultime volte che ci vedemmo fu a Kabul nel 2001. Ebbi netta la sensazione di un uomo incalzato dalla morte e alla ricerca della verità. Sembrava spoglio, come un albero d’inverno. Dormiva a terra. Quando partii gli lasciai il mio sacco a pelo».
Della verità che idea ti sei fatto?
«Ho dato come titolo alla raccolta dei miei articoli: La verità del momento . Per un cronista non c’è altro».
È duro da accettare.
«Sì, lo è. Ho passato buona parte della vita a correggere quello che ho scritto. Le situazioni cambiano. Il mondo cambia. Ne ho dovuto prendere atto».
La “verità del momento” è una forma di ateismo.Non trovi?
«Dio c’entra poco con le verità relative».
Che ricordo hai della Fallaci che certo non si nutriva di verità relative?
«È stata un gran personaggio. Era uno spettacolo vederla nella stanza di un albergo lottare con la macchia scrivere. Intensità. Passione. A volte passava ore davanti al foglio. Cercava i fatti. Ma poi i fatti sotto il suo sguardo diventavano un’altra cosa. Per quello che ricordo, Oriana non ha mai usato il condizionale».
E tu?
"E' una pratica salutare per un cronista"
Oltre che cronista sei un viaggiatore
«Mai per il solo gusto di viaggiare. Sono stato complessivamente sette anni in Asia; diversi altri in Africa e poi l’America, l’Europa. Che dire? Sono il risultato di una carta geografica».
Cosa ti è restato?
«Tutto. Ti confesso che ho amato particolarmente l’Asia. L’ho vista distruggersi, modificarsi, cambiare volto. Macao è sparita ed è diventata una Las Vegas. La Cina che vidi la prima volta che vi entrai nel 1970 non c’è più. Il Giappone che mi affascinava per la fierezza ha vissuto il dramma di un legame sempre più incerto con la tradizione. L’India ha cambiato radicalmente i propri connotati. E nonostante ciò l’Asia continua ad affascinarmi. È difficile da capire».
Perché? Dopotutto lì c’è un pezzo della tua vita.
«La mia vita è quella di un provinciale. Un tempo la provincia era importante. Sarà per stupido sentimentalismo, mi è restata attaccata come una seconda pelle ».
Sei nato a Parma.
«Da una famiglia borghese. Mio padre era medico. Non volevo avere niente a che fare con quelle radici borghesi ».
La chiameresti inquietudine?
«Non lo so. Andai via di casa molto giovane. Ma non perché ce l’avessi con la famiglia. Eppure sono scappato. E, forse, ancora continuo a scappare».
Si può dire che la prima fuga sia stata quella più importante?
«A cosa ti riferisci?».
Ai tuoi anni giovanili trascorsi nella Legione Straniera.
«Quella fu una fase che non ha aggiunto niente alla mia vita successiva».
Non hai mai voluto parlare di quel periodo. E non credo che tu lo faccia per qualche forma di vergogna o di pudore. Né di snobismo. Del resto molta gente importante
è finita lì.
«Vuoi che non lo sappia? Anche Ernst Jünger e Curzio Malaparte. Ma cosa significa?».
Ci si andava per i più diversi motivi.
«Allora ti dico che ero un ragazzo quando scelsi la Legione. Forse perché avevo la testa piena di certe letture. Forse perché cercavo un punto estremo dove posarmi. Ci sono rimasto cinque anni. Ho disertato. Fui ripreso. Ho fatto anche una certa carriera. Ma è stata una parentesi, capisci? Non ha avuto nessun riflesso sugli eventi successivi».
Permettimi di dubitare.
«In effetti qualcosa ha lasciato. Mi ha insegnato a marciare. Ancora oggi, malgrado l’età, ho gambe forti. Mi ha dato il senso della disciplina. E un’altra cosa. L’ultima: mi ha lasciato come un senso di indignazione. Un bisogno di andare dalla parte opposta. In fondo, se sono diventato terzomondista, contrario al colonialismo, è stata una reazione a quella scelta che feci da giovane».
Quell’esperienza fu anch’essa una “verità del momento”. Ma vorrei domandarti qualcosa in merito alla caduta di Dien Bien Phu. Cioè di come i francesi persero l’Indocina. In un lungo articolo tu racconti quella battaglia e l’assedio che durò circa due mesi.I francesi avevano schierato in prima linea la Legione Straniera. Tu dove eri esattamente?
«Non c’ero».
Mi risulta il contrario.
«Perché dovrei mentirti?».
Sei come il pescatore di perle che ingoia o nasconde la perla più grossa.
«Non sono stato in quella battaglia. L’ho raccontata, è vero. Ma perché conoscevo gli ufficiali. Conoscevo quel mondo. Il luogo, la porta per il Laos. Dopo che Dien Bien Phu cadde nelle mani del comandante Giap ci fu a Sidi Bel Abbes, la cittadella dei legionari, una grande cerimonia alla quale assistetti».
Cosa vedesti?
«Vidi una grande parata in omaggio all’eroismo o meglio al coraggio con cui avevano combattuto a Dien Bien Phu. La Legione aveva resistito. Era tutta schierata davanti al Maresciallo di Francia Juin. Vidi un mondo che stava finendo, almeno per come lo avevo immaginato. Vidi i mutilati schierati in bella vista. Segno delle ferite e del sacrificio. Del prezzo che era stato pagato. Percepii il gusto per il macabro che la Legione Straniera aveva spesso esibito. E alla fine pensai che lì, in quel piccolo mondo, dove un ladro di polli poteva trasformarsi in soldato vero, si fabbricava qualche eroe e molti mitomani. Quell’anno, era il 1954, lasciai la Legione».
Sei stato definito (da Franco Contorbia che ha curato, scelto e raccolto i tuoi scritti) un “avventuriero disciplinato”. Ti riconosci?
«Come ossimoro non mi dispiace. Mi fa pensare, visto che ne abbiamo parlato, alla Legione Straniera come a un collegio di correzione. Anche se oggi è un’altra cosa».
Correzione, educazione, disciplina. Cosa ti affascina? Non sembri così succube di queste pratiche.
«Non lo sono, è vero. Mi piace pensare l’umanità divisa tra chi ha una mentalità militare e chi non ce l’ha. La prima è fatta di cose semplici: la mattina rifarsi la branda, marciare, obbedire a certe regole. Ecco, il lavoro del giornalista contempla anche questo che può sembrare il lato meno creativo».
È l’altra faccia della luna.
«I miei occhi hanno visto molto. Sono stato testimone della rivoluzione algerina nel 1958. Ho raccontato il Vietnam, Cuba, la Guerra dei sei Giorni e la rivoluzione khomeinista. Sono stato ovunque: dal Congo al Sudafrica. Ho visto facce che sembravano eroi trasformarsi in spietati dittatori. Ho vissuto pericoli e rischiato la vita, come quando nella città di Takeo fui circondato dai khmer rossi. E ogni volta era come la prima volta. Come ricominciare da capo. Perché la cronaca è un lampo. Uno squarcio che si richiude. E tu sei lì, insignificante, a chiederti se stai facendo la storia. Ma la storia è un’altra cosa».

http://it.wikipedia.org/wiki/Bernardo_Valli

venerdì 27 febbraio 2015

Omaggio a Luca Ronconi

[...]Fac­cio parte di que­gli ado­le­scenti, di classi diverse e di regioni diverse, che nel 1974 erano rima­sti inter­detti per cin­que dome­ni­che nel vedere alla tele­vi­sione di Stato, l’unica che c’era allora, in prima serata l’Orlando Furioso, tra­smesso in bianco e nero: la rein­ven­zione fil­mata dello spet­ta­colo del 1968, calato – gra­zie alla fan­ta­sia di Pier Luigi Pizzi – in una ridda di loca­lità, tra cui Santa Maria in Cosme­din a Roma, ele­vata a corte di Carlo Magno, e le sale far­ne­siane di Capra­rola. Tra gli affre­schi di Tad­deo Zuc­cari Ange­lica era inse­guita da pala­dini su cavalli gio­cat­tolo, men­tre i versi di Ario­sto erano risi­ste­mati da Edoardo San­gui­neti. E l’ippogrifo vol­teg­giava tra le carte geo­gra­fi­che dipinte dal miste­rioso Gio­vanni Anto­nio da Varese. Non c’era alcuna con­gruenza tra la civiltà delle corti padane del primo Cin­que­cento, da cui era uscito il pro­di­gio del Furioso, e il fasto rin­ser­rato e un po’ greve della reg­gia laziale: eppure il risul­tato era magico. Gli inter­preti erano una spe­cie di nazio­nale di cal­cio dei gio­vani attori ita­liani, ma non man­cava Peter Cha­tel tra un Daniel Sch­mid e un Fas­sbin­der, di cui non sup­po­nevo allora nean­che l’esistenza. E sì che Peter Cha­tel era il pro­ta­go­ni­sta, pro­prio nel 1974, del Diritto del più forte. Ogni pun­tata ter­mi­nava con dei titoli di coda in cui si mostra­vano i risvolti tec­nici, pra­tici della mes­sin­scena: come faceva a volare l’ippogrifo, come cor­re­vano i cavalli sui binari, come ince­deva l’orca… Si spie­ga­vano cioè le regole dell’illusione; si for­niva la sca­tola di mon­tag­gio: quanto ho riflet­tuto su quelle sigle di chiu­sura. La mat­tina del lunedì, a scuola, dell’Orlando si par­lava con i com­pa­gni: chi infa­sti­dito e chi stre­gato da quell’esperienza fin lì senza para­gone alcuno, così distante dalla rou­tine nar­ra­tiva dei romanzi sce­neg­giati, così aperta a mille ana­cro­ni­sti­che pro­spet­tive.[...]
Giovanni Agosti
Si, io faccio parte di quei compagni che erano stregati e tanto ne parlavamo in classe con l'insegnante di Storia dell'arte di Luca Ronconi, del suo teatro e delle sue strabilianti macchine sceniche.

« Des cavaliers fous chevauchant licornes et hippogriffes fendant la foule, des chariots roulés à bras d'hommes installant trois, six aires de jeu simultanées avant d'entraîner le public dans un labyrinthe grillagé, tel était Orlando Furioso d'après l'Arioste, première apparition de Luca Ronconi en France. » (Encyclopaedia Universalis, article Luca Ronconi).

OBERON MILANO TEATRO ALLA SCALA 1989 ALLESTIMENTO LUCA RONCONI



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Riporto l'articolo del  24 marzo 2013 su la Repubblica col ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Luca Ronconi



Vorrei dare un senso alla tristezza ma ho visto troppi film per crederci
di Antonio Gnoli   Pdf
Non mi viene in mente niente di più tenero e vulnerabile delle parole di Luca Ronconi. Mentre lo guardo, incorniciato da una leggera barba, penso che vivere una vita non sia come accendersi una sigaretta, bere un whisky o fare una passeggiata. Anche una vita passabile, o fortunata, è fatta di frenate improvvise davanti al precipizio; di frammenti arenati e sparsi sulla spiaggia degli anni. E Ronconi di anni ne ha compiuti ottanta. Lo hanno celebrato e messo sul podio, lui se ne è ritratto. Lo hanno illuminato con esultanza, ma la luce comincia a pesare. Ci vediamo al Piccolo di Milano di cui ha la direzione artistica. Lo trovo dimagrito. Ricordo un nostro lontano incontro nella sua casa vicino Gubbio: disponibilità amabile, chiarezza mentale, sorriso dolce. La sua voce stantuffa, a volte sale, a volte si ritrae, è come se inseguisse le parole o le abbandonasse ai pensieri più nascosti.
Per i suoi ottant' anni l' hanno molto festeggiata. Come si sente ora che tutto si è concluso?
«Mi hanno riempito di onorificenze e non sapevo se essere più grato o

martedì 24 febbraio 2015

Ritratto di Paolo Prodi.

Il 9 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Paolo Prodi





Paolo Prodi: "C'era troppa violenza nella politica, per questo ho scelto di fare lo storico"
Intervista al docente universitario, fratello maggiore del più noto Romano. Nato a Scandiano il 3 ottobre 1932, è stato tra i fondatori del Mulino, ha insegnato nelle università di Trento, Roma e Bologna, ed è stato presidente della Giunta Storica Nazionale e dell'Accademia Nazionale dei Lincei

di ANTONIO GNOLI
DI PAOLO Prodi (fratello maggiore del più noto Romano) colpiscono due cose: l'ossessione con cui ha inseguito e studiato le relazioni tra il potere e il sacro e il fatto che sia rimasto, malgrado ciò, un uomo felice. Una felicità leggera, contagiosa, che

lunedì 9 febbraio 2015

Ritratto di Rossana Rossanda

Il 1 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Rossana Rossanda



Rossana Rossanda: "È stata la bellezza del mondo a salvarmi dal fallimento politico"
Nella sua casa a Parigi la fondatrice del "Manifesto" ricorda incontri e incomprensioni, amici e avversari, delusioni e grandi sogni vissuti con il partito comunista


SOMMERSI come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro.

La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata

venerdì 2 gennaio 2015

Ritratto di Tomás Maldonado


 Il 9 novembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Tomás Maldonado





Tomás Maldonado: "Quanti scontri con Fontana e Borges, noi astrattisti eravamo inflessibili"

L'ideatore dello spazialismo? "Non lo capivo". Lo scrittore? "Establishment letterario". Il designer e critico di origine argentina ricorda gli esordi, gli incontri, le avanguardie e le esperienze accademiche


di ANTONIO GNOLI

TOMÁS Maldonado è nato a Buenos Aires. Ha girato il mondo. Negli anni Settanta ha preso la nazionalità italiana. È un signore elegante: alto (supera il metro e novanta); agile (non dimostra i suoi 93 anni); autorevole (anche nel modo in cui la lingua italiana  -  ne conosce cinque  -  riverbera echi sudamericani). Parliamo a lungo nella sua casa milanese. Noto la sicurezza dei gesti. L'assenza di fatica. La curiosità razionalista che lo invade ogni qualvolta deve fornire o chiedere una spiegazione. 

Alla fine mi fa vedere una foto. Si tratta di un ricevimento nell'allora nascente università di Ulm. Con Maldonado trentenne c'è un ometto di spalle in abito da sera: Martin Heidegger.

giovedì 4 dicembre 2014

Ritratto di Clara Gallini

 Il 3 novembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Clara Gallini




Clara Gallini: "Pensiamo che i miracoli siano arcaici ma li abbiamo inventati noi moderni"

Parla l'antropologa e etnologa italiana, nata a Crema nel 1931, professore emerito di antropologia culturale all'Università di Roma La Sapienza e presidente onorario dell'Associazione Internazionale Ernesto De Martino: "Che cos'era Lourdes se non un immenso ricettacolo di emotività fuori controllo e di tragici inganni?"
di ANTONIO GNOLI

CLARA Gallini è stata una delle prime antropologhe italiane. In un mestiere prevalentemente per maschi ha affrontato

domenica 23 novembre 2014

Ritratto di Manlio Cancogni

Il 26 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Manlio Cancogni




Manlio Cancogni: "Non ho mai capito fino in fondo che razza di scrittore sono"
Odiava la guerra, Roma, il lavoro al Ministero, i genitori. Amava la letteratura. Finì per dividersi tra il giornalismo e la narrativa. Ma cosa è il successo? Nulla" dice oggi a 98 anni 
di ANTONIO GNOLI

 INVIDIABILE . Davvero invidiabile l'esistenza di Manlio Cancogni. Novantotto anni compiuti: "A questo punto vorrei fare l'en plein. Arrivare ai cento", dice tra lo scherzoso e il serio. Vado a trovarlo a Fiumetto, non distante da Viareggio. Mi accompagna Simone Caltabellota: scrittore innamorato dello scrittore Cancogni. Sta pubblicando per Elliot quasi tutti i suoi libri. Romanzi, soprattutto. Segnati dall'amicizia, o dal bisogno di ripercorrere personaggi famosi.

Rileggerli alla luce della loro e della nostra inquietudine.

mercoledì 19 novembre 2014

Ritratto di Anna Maria Guarnieri

Il 20 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Anna Maria Guarnieri






Anna Maria Guarnieri: "Il pubblico mente: ti applaude e poi fuori dal teatro ti critica"

La grande attrice: "Non mi aspettavo che mia sorella morisse. Era stata curata per un tumore. Sembrava dovesse farcela. Poi, nel giro di due giorni, tutto è precipitato. E non so ancora il perché. Nel frattempo compio 80 anni"
di ANTONIO GNOLI

SONO ormai trascorsi alcuni mesi da quando ha compiuto ottant'anni e, nello stesso periodo, è morta la sorella. Due eventi che Anna Maria Guarnieri ha vissuto con dolore, stupore e impreparazione. Svolge i suoi teoremi esistenziali con eleganza mentale, senza fronzoli.

lunedì 17 novembre 2014

Ritratto di Gioacchino Lanza Tomasi

 Il 12 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Gioacchino Lanza Tomasi




Gioacchino Lanza Tomasi: "Tutti i fantasmi del Gattopardo sono qui a farmi compagnia"

Una vita accanto al padre adottivo, Tomasi di Lampedusa, che si ispirò a lui per il personaggio di Tancredi. Ma le sue vere ossessioni erano il teatro e la drammaturgia
di ANTONIO GNOLI

CAPITA , a volte, di chiedersi cosa vuol dire vivere nella vita di un altro. Abitarla, come si abita una stanza, una tana, uno spazio vuoto che si riempie degli enzimi della conoscenza. E una risposta plausibile è quella che si appella al sentimento del sacrificio o alla dedizione a una causa. Si diventa custodi di una storia, di una biografia con la quale si cresce e ci si confonde.

Quel divario iniziale che distingueva dall'altro si attenua fino, in certi casi, a sparire. Fino a non sapere se sei ancora tu o l'altro.
Colgo un pensiero che alla fine di una intensa conversazione Gioacchino Lanza Tomasi formula così: "Nel momento in cui ho avuto l'impressione di essere stato emarginato, e perfino trattato come un paria, non mi è restato che attaccarmi alla memoria. Così come ci si attacca al cannello di ossigeno. Respiro. Sopravvivo. E i ricordi vanno, con gratitudine, al principe, a lui che ha abitato parte di questo palazzo e reso a suo modo immensamente celebre e terribile questa terra. La mia terra".

mercoledì 12 novembre 2014

Ritratto a Enzo Ragazzini

 Il 5 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Enzo Ragazzini








Ragazzini: "Io, reporter sull'isola di Wight, ai Beatles ho preferito la realtà"

Parla il fotografo che nei lontani anni Settanta era andato al seguito di Franco Basaglia per visitare i manicomi del Sudamerica: "Il mio metodo era speciale. Da A sangue freddo di Truman Capote ricavai la tecnica di montaggio. Pensai che non aveva senso andare in giro a fotografare un quartiere in modo casuale. Scelsi un personaggio. Una prostituta. Si chiamava Enzina. Fotografai tutto quello che era il suo mondo"
di ANTONIO GNOLI 

 IL NOME dirà poco. A me quasi nulla. Tranne il vago ricordo di un fotografo che nei lontani anni Settanta era andato al seguito di Franco Basaglia per visitare i manicomi del Sudamerica.

martedì 11 novembre 2014

Ritratto di Mario Andreose

Il 22 settembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Mario Andreose


Andreose: "Il mondo dell'editoria sta sparendo
salviamo ciò che abbiamo imparato"

Gli inizi da correttore di bozze, la gavetta e la direzione dei gruppi più importanti Il rapporto con Moravia, Mondadori e Umberto Eco. I ricordi "e qualche rimpianto" di un uomo del libro
di ANTONIO GNOLI

NEL mondo editoriale, Mario Andreose, ottant'anni compiuti da poco, appare come un'eccezione. È ancora sulla breccia, come usa dire. Lavora per la Bompiani, segue come un'ombra tutto ciò che fa Umberto Eco. Ed Eco non fa nulla senza la presenza di quest'ombra. Discreta, rarefatta, impalpabile. Frutto di un'inclinazione che ha portato Andreose ad essere sempre un passo dietro le luci della ribalta: "Ho lasciato il protagonismo fuori dalla mia vita. Faccio questo mestiere da troppo tempo  -  direi da sessant'anni  - 

lunedì 3 novembre 2014

Ritratto di Mario Tronti

 Il 28 settembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Mario Tronti






Mario Tronti: "Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del '900"
È stato comunista teorico dell'operaismo, critico del Sessantotto e ora teologo della politica deluso dalla Storia I ricordi, le battaglie e i rimpianti del filosofo

di ANTONIO GNOLI


SOTTO la suola delle sue scarpe è ancora riconoscibile il fango della storia. "È tutto ciò che resta. Miscuglio di paglia e sterco con cui ci siamo illusi di erigere cattedrali al sogno operaio ". Ecco un uomo, mi dico, intriso di una coerenza che sfonda in una malinconia senza sbavature. È Mario Tronti, il più illustre tra i teorici dell'operaismo. Ha da poco finito di scrivere un libro su ciò che è stato il suo pensiero, come si è trasformato e ciò che è oggi. Non so chi lo pubblicherà (mi auguro un buon editore). Vi leggo una profonda disperazione. Come un diario di sconfitte scandito sulla lunga agonia del passato che non passa mai del tutto, che non muore definitivamente. Ma che non serve più.

"Sono gli altri che ti tengono in vita", dice ironico. Quando la vita, magari, richiede altre prove, altre scelte. Forse è per questo, si lascia sfuggire, che ha cercato un diversivo nella pratica del Tai Chi: "I gesti di quella tecnica orientale rivelano, nella loro lentezza, un'armonia segreta. Tutto si concentra nel respiro. L'ho praticato per un po'. Con curiosità e attenzione. Ma alla fine mi sentivo inadatto. Fuori posto. L'Oriente esige una mente capace di creare il vuoto. La mia vive di tutto il pieno che ho accumulato nel tempo".

Come è nata la curiosità per il Tai Chi?

mercoledì 29 ottobre 2014

Ritratto di Sebastiano Vassalli

 Il 28 settembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Sebastiano Vassalli





Sebastiano Vassalli: "Potevo uccidere o impazzire. Per questo ho cercato altre storie"
Dagli esordi come pittore nel Gruppo 63, all'incontro con Calvino, cercando rifugio nel passato: "Il presente è la vita del condominio. E se c'è qualcosa di importante non ha bisogno di uno scrittore"
di ANTONIO GNOLI


Chi era suo padre?

martedì 7 ottobre 2014

Ritratto di Ruggero Savinio

 Il 31agosto  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Ruggero Savinio




Ruggero Savinio: Io, "figlio di" e "nipote di" ho ereditato 
le loro ossessioni

Il padre era Alberto, lo zio Giorgio de Chirico. Nonostante questo peso ha deciso di seguire 
la stessa strada. Tra ricordi di Parigi e di amici perduti, racconta "la stagione dei superuomini", 
ormai finita
di ANTONIO GNOLI
La verità ha sempre qualcosa di impassibile. Un po' come la grande arte. Dove mi trovo, 
nell'ampia casa di Ruggero Savinio, in un quartiere popolare di Roma (non distante da piazza 
 Vittorio) penso, istintivamente, che ci voglia molto coraggio ad affrontare la verità di un passato familiare segnato dalla presenza di due geni. Due fratelli che hanno a loro modo segnato una 
parte non trascurabile del Novecento europeo: Andrea e Giorgio De Chirico.

Per distinguersi Andrea prese il nome di Alberto Savinio: "Non si sa bene come nacque Savinio. 
Ho conservato il cognome per una continuità con mio padre e con le sue storie", dice

giovedì 25 settembre 2014

Ritratto di Milena Vukotic

Il 17 agosto  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Milena Vukotic




Milena Vukotic: "Io, protagonista non protagonista tra Buñuel e la signora Fantozzi"

L'attrice nota al grande pubblico nei panni della "signora Pina": "Paolo Villaggio mi ha messo in uno schema che ho cercato di alleggerire e forzare con altre parti"
di ANTONIO GNOLI

 Lettera a Milena. Piacerebbe iniziare questo "straparlando" con una lettera a Milena Vukotic. Per dirle: "Cara Milena, lei è una straordinaria attrice che da sola avrebbe potuto arricchire un pezzo di storia del cinema e del teatro italiano. E se ciò non è accaduto è per l'insipienza e la pigrizia di tutti coloro, tra i registi importanti e no, che l'hanno usata senza accorgersi del dono prezioso che avevano tra le mani".

Ma poi penso che le vite vanno prese per quello che sono e che anche nel piccolo, soprattutto nel piccolo, c'è, inatteso, del grande. Sovente misconosciuto. In una mattina di sole aspro Milena Vukotic mi attende nella sua casa romana del quartiere Salario. Una blusa leggera, pantaloni chiari e un trucco lieve che adorna due occhi in permanente stupore mi accolgono con calma e un moto di apparente tristezza. Tutto intorno, nella stanza che è poi lo studio dove l'attrice lavora, libri e foto di famiglia dove un passato musicale sembra affiorare con evidenza: "Vede, quello grande è il ritratto della nonna. Una donna straordinaria. Pianista eccelsa, dicono. Morì di febbre gialla a Rio dopo aver dato alla luce mia madre che dunque per caso, e per sventura, nacque in Brasile. E il governo di quel paese, per quei fatti drammatici, le assegnò una pensione a vita".

E restò lì?
"No, tornò in Italia e fu affidata a una famiglia per bene che le fece a sua volta studiare pianoforte".

Che anni erano?
"Nonna Gemma era del 1867. Era nata a Pisa e cominciò a fare concerti a sette anni. C'era già allora la moda dei bambini prodigio. Morì a 26 anni. Fatti due conti direi che la mamma cominciò a studiare pianoforte e composizione ai primi del Novecento. Fu allieva di Casella e Respighi e tra i compagni di corso a Milano ebbe Victor de Sabata".

Che ricordo ne ha?
"Di una donna libera e generosa. Non avendo avuto una vera madre ha sempre sognato di esserlo pienamente. Nonostante la carriera di concertista ebbe 4 figli".

E il nome Vukotic?
"Da mio padre, le cui origini erano slave, precisamente montenegrine. Strana figura di letterato e diplomatico. Studiò un po' di musica, venne a Roma e all'inizio entrò nella cerchia dei futuristi. Parlava a volte della sua esperienza con il teatro di Bragaglia. Alla fine, la carriera di diplomatico prese il sopravvento. Ho passato la mia infanzia viaggiando: Londra, Vienna, poi in Olanda e a Istanbul e soprattutto a Parigi che fu la mia città formativa. Coincise con la separazione dei miei genitori".

E lei?
"Ero giovane, un po' turbata e silenziosa. Mio padre se ne andò, fu un addio senza veri traumi. Mia madre aveva il suo lavoro, necessario per provvedere a tutto. Fui sistemata in un pensionato e mi dedicai alla danza. Anni importanti che arricchirono la formazione artistica. Nel saggio finale al Conservatorio ebbi il primo premio e questo mi consentì di entrare all'Opera di Parigi".

Sorprende un po' questo esordio nella danza.
"Perché? Dopotutto per alcuni anni è stata la mia compagna, la mia abitudine. Per sei mesi lavorai con Roland Petit e poi, avendo bisogno di guadagnare, entrai nella compagnia del maestro de Cuevas. Fu un'esperienza meravigliosa che durò tre anni. La compagnia, sotto l'egida di quest'uomo straordinario, per importanza era succeduta ai balletti russi di Diaghilev. E molte stelle come Hightower, Skibine e un giovane Nureyev vi presero parte. Ma quando arrivò Nureyev io non c'ero già più".

Perché decise di abbandonare un mondo così promettente?
"In Italia la danza era considerata un'arte per pochi eletti, un piccolo mondo chiuso. E anche vagamente pretenzioso. D'altro canto, a Parigi avevo studiato anche teatro ".

E il cinema?
"Arrivò in modo curioso, dopo che vidi La strada di Federico Fellini. Fu un colpo di fulmine. Un incantamento. Io che non sono mai stata sicura di niente fui sicura di volerlo incontrare. Giunsi al suo cospetto con una lettera di presentazione che dimenticai di dargli. Restai a lungo muta. Ma era un silenzio senza imbarazzi. Mostrò interesse alla mia storia. Promise un suo interessamento. Furono le basi per una collaborazione e un'amicizia che sarebbe durata nel tempo. Fino alla fine".

Negli ultimi anni, si dice, fosse un uomo amareggiato.
"Sentiva che le porte del cinema, che per lui erano sempre state spalancate, non si aprivano più. Una sera venne da me a cena. C'era anche Paolo Villaggio. Scoprii, improvvisamente, un uomo malinconico. Paolo era scintillante, provocatorio, surreale. Federico si ritraeva come a giustificare un'assenza. Quando ci fu il commiato, guardandomi si scusò di non essere quel maestro di ironia alla quale ci aveva abituati. Disse: "Scendere a patti con la vita è meno piacevole di quello che può sembrare". Sono sicura che non si sarebbe ammalato se avesse continuato a lavorare".

Lo ha visto negli ultimi giorni?
"Passò le ultime settimane al Policlinico. Andavo tutti i pomeriggi. Ricordo l'assembramento dei fotografi e dei giornalisti. Federico era in coma. Poi arrivò la notizia della sua morte. È strano. Ma, quella domenica, non c'era nessuno ad accoglierla. Solo io, il suo parrucchiere e un suo aiuto. Ci guardammo e l'aiuto disse: "Forse dovremmo farlo sapere al Vaticano che Fellini è morto. E che suonino le campane di Roma". Telefonammo. Ci risposero che solo i papi e i sovrani avevano diritto alle campane della città".

Non ha lavorato molto con Fellini.
"Non tantissimo. È prevalsa l'amicizia. Del resto, non ho mai chiesto nulla. Una volta che eravamo assieme mi disse: sai tra i miei sensi di colpa, e sono tanti, c'è anche quello di non averti dato dei ruoli importanti".

Come reagì?
"Mi sembrò di arrossire. Non me lo aspettavo. Gli risposi: tu sei il cinema. Tu decidi. Ed è vero. Ricordo che quando Buñuel mi chiamò per un ruolo nel Fascino discreto della borghesia , Fellini fu il primo a cui lo dissi. Ne fu felice. Stimava tantissimo Buñuel: "È il solo che sia riuscito a trasformare i sogni in realtà", commentò e aggiunse: "Ma quanti anni ha?". A Parigi, dove giravamo, riferii a Buñuel l'apprezzamento. "Ah, grande Fellini. Che età ha?", chiese divertito".

Com'era Buñuel sul set?
"Poteva farti fare qualunque cosa. Ma senza imporla. Solo con il fascino e la delicatezza dei suoi modi. Interpretavo una cameriera che doveva dire di essere stata lasciata dal suo fidanzato. Lui cambiò il copione e aggiunse: perché troppo vecchia. Venne da me e mi disse: non le dispiace sembrare una donna di 70 anni?"

E davvero non le dispiacque?
"No, siamo strumenti, in un certo senso involontari. Con Buñuel ho fatto tre film, tra cui l'ultimo: L'oscuro oggetto del desiderio . Ero stato a trovarlo a Parigi e mi disse che non aveva ruoli per me. Poi incontrai a Roma Fernando Rey che mi avvertì che stava cambiando la sceneggiatura: scrivigli e vedrai che qualcosa uscirà. Ero scettica. Ma gli scrissi. Mi rispose, era il 1976, con una letterina dall'Hotel Aiglon, dove soggiornava e mi ribadì, insieme agli elogi, che non aveva parti per me".

E lui?
"Mi guardò con l'infinita pena che hanno certi vecchi e disse: "Dovevo essere completamente ubriaco". Poi si fece portare una penna. Prese il libro. Lo aprì. E scrisse: " Nous sommes toutes des hommes, soi disant, libres. Croyez moi, Milena" . Ecco cosa intendo: il suo cinema, tra le diverse cose raccontava anche la sua disillusione".

E poi come arrivò a fare il suo ultimo film?
"Una mattina mi arrivò un telegramma nel quale si diceva che c'era un ruolo anche per me".

Come è stato passare da Buñuel al ruolo della "signora Pina" la moglie di Fantozzi?
"Quel ruolo non fu creato per me. Sono subentrata. Avevo conosciuto Villaggio in televisione: una personalità prorompente. La sua intelligenza per me è stata un arricchimento continuo. Ha creato la maschera di Fantozzi attorno alla quale ha fatto ruotare una galassia di facce straordinarie. Tra cui la mia. Che ho interpretato con la consapevolezza di stare recitando un cartone animato".

Una figura totalmente disincarnata?
"Senza contatti con la realtà".

Eppure condannata in un certo senso a essere riconosciuta come la "signora Pina".
"Effettivamente, Paolo mi ha messo in uno schema. Ma ho cercato di alleggerirlo e di forzarlo con altre parti, altri ruoli".

Lei dà l'idea di una donna molto schiva.
"Sì, ma sono migliorata. La timidezza è oggi meno evidente ".

La timidezza è stata una forma di sofferenza?
"Ci si sente meno normali. Incapaci di partecipare alla vita come vorremmo".

E sulla scena?
"Ci si disfa delle paure, dei pudori, delle resistenze. C'è una parte di noi che ha bisogno di esprimersi. E ringrazio coloro con cui ho lavorato: Strehler, Zeffirelli, Enriquez, Missiroli e il mio amico fraterno Paolo Poli. Sto parlando di teatro".

E il cinema?
"Mi dà più felicità, ma anche meno coinvolgimento. Ho lavorato con quasi tutti i registi e con i più grandi attori. E pensare che al mio esordio Renato Castellani, al quale ero stata presentata mi disse: per fare cinema dovresti essere o bella come Gina Lollobrigida oppure profonda come Anna Magnani. E tu non sei né l'una né l'altra. Lascia perdere ".

È sempre stata così martoriata?
"Abbastanza da potermene alla fine fregare. Non ho quasi mai scelto io le cose da fare. Sono le cose che hanno scelto per me, quello che mi è stato proposto ho valutato come affrontarlo".

Si sente in credito con la vita?
"È buffo. Ma non ho rimostranze. In fondo mi ritrovo più a mio agio nel surreale che nel reale".

Perché?
"Mi fa volare, mi fa andare oltre. È come il passo di danza che si sforza per vincere la gravità del peso".

La realtà diventa così più leggera?
"La si guarda con altri occhi e si finisce con l'accettarla con altri occhi".

Crede in dio?
"Dio non ha avuto un posto privilegiato. Niente nella mia famiglia è stato all'insegna della normalità. Il legame più forte fu con mia madre. Totale. Fino alla sua morte. Solo dopo sono riuscita a sposarmi. E quanto alla fede penso che da qualche parte c'è un'energia da cui si può attingere. Ma senza che tutto questo venga regolarizzato. In nessun modo. Dio è come leggere un libro pieno di sorprese".

Cosa sta leggendo?
"Un libro sul silenzio".

Le piace il silenzio?
"Non posso dire che mi piace. Amo la compagnia. A volte sono attratta dalla possibilità che attraverso il silenzio si possano sentire altre voci, altri suoni. Una musica parallela o alternativa".

È una donna alternativa.
"In che senso?"

Una protagonista senza protagonismo.
"Sono contenta per tutto quello che ho realizzato. Anche se qualche rimpianto può esserci".

Per il fatto che il cinema non le ha dato la centralità che meritava?
"Penso sempre che non sia mai troppo tardi. Sono qui in attesa. Intanto vado avanti".

Non pensa di essere fuggita dalla sua bravura, a cominciare dalla danza?
"Evidentemente non ero così brava. Ma non sono mai fuggita da niente, soprattutto da me stessa. E non è questione di responsabilità, ma di modo di essere e di stare al mondo".

Che impressione le faceva, non come regista ma come uomo?
"Credo che la grande esperienza surrealista degli anni Venti e Trenta lo avesse segnato definitivamente. C'era in lui la malinconia dell'anarchico".

Cosa intende dire?
"Glielo posso tradurre con un episodio. Quando terminò l'impegno nel primo film, acquistai la monografia di Freddy Buache su di lui. Nel congedarmi volevo chiedergli di firmarmela. Ma non ebbi il coraggio. Poi, durante la notte sognai che Buñuel apponeva sul libro la seguente dedica: "Siamo tutti uomini liberi". Il giorno dopo, sull'onda di quel sogno, tornai sul set. Durante una pausa mi avvicinai raccontandogli della dedica che avevo sognato".

domenica 31 agosto 2014

Ritratto di Claudia Cardinale

Il 21 luglio  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Claudia Cardinale



Claudia Cardinale: "Non ho mai voluto essere una diva, ho scoperto tardi che sono bella"

L'infanzia a Tunisi, il primo regista che ne resta folgorato, gli esordi con Monicelli. E poi Visconti, Fellini, Germi. Ricordi di un'attrice che ha scelto di difendersi dal successo: "Sono stata fortunata, ho guidato bene il mio destino seguendo una sola regola: vivi come fosse il primo giorno, non l'ultimo"
di ANTONIO GNOLI

LE FACOLTÀ meno palesi di una grande attrice sono la timidezza, la solitudine, il corpo che impietosamente muta e malgrado ciò continua a mantenere un senso di mistero. Guardando una grande attrice ci sentiamo solidali con l'immagine che ha donato con i suoi tanti film. Alcuni li abbiamo amati. Altri dimenticati. Ma è come se attraverso di essi non solo scopriamo la sua metamorfosi, ma altresì una parte della nostra storia, del nostro gusto, dei nostri più o meno remoti desideri. È il cinema. Con la sua potenza immaginativa. E la latente comunanza che avvertiamo ci colma di stupefazione.

"Non mi sono mai pensata nei termini della grande attrice. Provo disagio di fronte all'immagine di un me altisonante. Non ho mai pensato di diventare come Greta Garbo o Marlene Dietrich. Trovo