Il 9 febbraio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Paolo Prodi
Paolo Prodi: "C'era troppa violenza nella politica, per questo ho scelto di fare lo storico"
Intervista al docente universitario, fratello maggiore del più noto Romano. Nato a Scandiano il 3 ottobre 1932, è stato tra i fondatori del Mulino, ha insegnato nelle università di Trento, Roma e Bologna, ed è stato presidente della Giunta Storica Nazionale e dell'Accademia Nazionale dei Lincei
di ANTONIO GNOLI
DI PAOLO Prodi (fratello maggiore del più noto Romano) colpiscono due cose: l'ossessione con cui ha inseguito e studiato le relazioni tra il potere e il sacro e il fatto che sia rimasto, malgrado ciò, un uomo felice. Una felicità leggera, contagiosa, che
neppure i recenti malanni hanno seriamente scalfito. Nella grande casa bolognese dove vive si aggira con una lentezza dovuta ai postumi di un blocco renale che lo ha costretto a passare parte delle feste natalizie in ospedale. "In quei giorni pensavo alla cosa più ovvia: alla vita che è un bene prezioso che va difeso. Ma riflettevo altresì sul nostro destino collettivo. Sulle malattie che stanno aggredendo l'Occidente". Ecco dunque il professore di storia. L'uomo che ci ha regalato dei libri importanti, aggiungerei bellissimi, come quelli dedicati al "sacramento del potere", alla storia della giustizia, e al furto in Occidente (tutti pubblicati da il Mulino).
Terzo di nove fratelli, sposato con quattro figli, Paolo Prodi esprime nei riguardi della famiglia non solo i doveri del buon cattolico ma anche il senso di una genealogia, di una storia, per meglio dire, tutta italiana: "Le nostre radici affondano nel tardo Quattrocento quando un Tunin Prodi zappava la terra arida e dura dell'Appennin ".
Andò avanti per quanto tempo?
"Fino a quando la fame non fece capire a mio nonno contadino di scendere in pianura. Era già la fine dell'Ottocento. Mio padre fu il primo che poté studiare e laurearsi alla scuola di ingegneria di Bologna".
Fu un salto sociale notevole.
"Arrivò dopo decenni di sofferenze e ristrettezze. Di certe famiglie si tende a vedere l'aspetto dinastico; quella mia è invece una storia italiana di crescita lenta e difficile, la stessa che avrei visto realizzata nell'Italia degli anni Sessanta. Abitavamo a Reggio Emilia, dove mio padre era impiegato. Il suo stipendio non bastava. Giovanni, il più grande dei fratelli, durante l'università lavorava per permettere a noi più piccoli di studiare".
Giovanni era un matematico.
"Andò in cattedra prima dei trent'anni perché aveva risolto un teorema. Da bambino avevo una certa soggezione dei fratelli più grandi. Avevamo legami stretti, ma al tempo stesso intuivamo che ognuno avrebbe scelto la sua strada. Il che non impedì delle preferenze. Giorgio, oggi medico e scrittore, il più laico, mi indirizzava durante il liceo nelle letture: alcuni testi di filosofia e poi i romanzi di Dostoevskij. Fu una rivelazione per me che avevo fino a quel momento letto Angelo Tasca sul fascismo e, quando uscì nel 1948, la prima edizione dei Quaderni di Gramsci".
Non erano letture amene, diciamo prevedibili, per un ragazzo.
"Ero preso dalla politica. Come stregato. E di riflesso amavo i libri che ne parlavano. A 14 anni avevo conosciuto Giuseppe Dossetti. Fu uno degli incontri fondamentali. Quando in anticipo di quasi due anni presi la mast'ultimo. Dossetti mi mandò a studiare alla cattolica di Milano. La guerra era alle spalle e con essa i drammi che avevo vissuto".
Quali in particolare?
"A 13 anni, nel 1945, vidi uccidere il mio parroco accusato dai partigiani di collaborazionismo con i tedeschi. Vidi le morti di alcuni amici più grandi. Partigiani cattolici come Giorgio Morelli e Mario Simonazzi. Chi ricorda più i loro nomi? Morelli faceva un giornale a Reggio. Gli spararono sei colpi di pistola. Sopravvisse per un po'. Non ce la fece. Morì l'anno dopo, nel 1947, nel sanatorio di Arco dove lo avevano portato".
Che cosa ne ha concluso?
"Che la sinistra non ha saputo fare i conti con quel passato. Furono molto difficili i rapporti con la componente comunista. A Reggio e dintorni si respirava un clima di violenza, di omertà, di paura. Molte cose che accaddero in quel periodo sono ingiustificabili. Ricordo che andavo dai cugini a prendere il latte. E la sera ci riunivamo nelle stalle a discutere. Volevamo una società più giusta. E c'era chi per ottenerla attendeva la rivoluzione. Era questa la vera spaccatura".
Lei come la risolse?
"Non la risolsi. Davanti al bivio in cui mi trovai scelsi".
Bivio tra cosa?
"Tra la politica e il mestiere dello storico. Scelsi quematurghi fu Dopo la laurea, nel 1956, andai un periodo a Parigi nel centro che Jacques Maritain aveva fondato. In seguito entrai in contatto con quelli che sarebbero divenuti i miei due maestri: Delio Cantimori e Hubert Jedin, quest'ultimo insegnava storia della Chiesa a Bonn".
Come conobbe Cantimori?
"Fu Dossetti a favorire l'incontro. Avevamo letto sulla rivista Società una recensione di Cantimori al libro di Jedin su Riforma cattolica e Controriforma. Era interessante perché diversamente dalla vulgata crociana si coglievano nel mondo cattolico secentesco una serie di fermenti e di novità che erano stati trascurati".
Cioè il giudizio sulla controriforma non si esauriva come reazione al mondo di Lutero?
"Esattamente. La questione appariva più complessa. Anche agli occhi di un marxista come Cantimori. Ad ogni modo, dopo Parigi, vinsi una borsa di studio per Bonn".
Parigi era, tra le tante cose, anche il regno delle "Annales".
"Il gruppo di storici che si raccolse attorno a quella rivista fu straordinario. Lessi allora per la prima volta Marc Bloch che era stato fucilato dai tedeschi nel 1944 come uno dei capi della resistenza. Il suo libro I re tauturità alla base della grande rivoluzione storiografica. Poi nel 1958 lessi un bellissimo articolo di Braudel sul concetto di "lunga durata". Pensai alla visione grandiosa dello storico che analizza i fatti riconducendoli in quel grande fiume sociale che attraversa mondi ed epoche diverse. Mi pareva di stare in un meraviglioso romanzo. Peccato che quella visione trascurasse la storia delle istituzioni".
Interpretavano cosa accadeva nella società.
"È vero. Ma ogni società si regge sulle istituzioni. Non può farne a meno. E qui tornava utile la lezione di Cantimori, ma soprattutto quella di Jedin".
Cantimori era anche consulente dell'Einaudi e provò a bloccare la pubblicazione di Mediterranee di Braudel.
"Senza riuscirci, per fortuna. Certo, alcune tesi non erano condivisibili. Ma il libro di Braudel era un grande affresco storiografico. Come si poteva ignorare? D'altra parte gli anni che passai in Germania sotto la guida di Jedin mi convinsero che per comprendere la modernizzazione dell'Occidente, e in particolare dell'Europa, occorresse analizzare la relazione tra il potere e il sacro".
Da cosa le veniva questa convinzione?
"Principalmente dal fatto che occupandomi dello stato pontificio mi ero interessato al rapporto tra potere temporale e spirituale".
Ma non era questo rapporto che la modernità aveva messo in discussione?
"Su questo aspetto bisogna essere chiari. La grandezza dell'Occidente è consistita nel non espellere il sacro dal suo orizzonte. Ha imparato a tenerlo a bada senza scacciarlo. Si è creata così una tensione fra i due poli - cioè fra il sacro e la politica - che ha reso possibile la resistenza agli abusi stessi del potere. E ha permesso tra l'altro la nascita di un terzo potere: il potere economico. La modernità si è sviluppata grazie alla fibrillazione di questi tre poli".
Modernità e Occidente sono oggi in crisi. Perché?
"La ragione principale, secondo me, è nella caduta del sacro. È sempre meno un polo di quella dialettica che fu indispensabile alla idea stessa di sovranità. Per secoli l'Occidente era riuscito a non far prevalere né l'uno né l'altro".
E poi cosa è accaduto?
"Abbiamo avuto la crisi degli Stati sovrani, il predominio del grande capitale finanziario senza fissa dimora, e il consumismo come modello antropologico. Il combinato di questi tre elementi ha rotto gli argini della modernità. Ha svelato le debolezze dell'Occidente".
È in queste debolezze che si è inserito l'Islam?
"L'Islam, spesso lo si dimentica, è un'eresia del cristianesimo ".
In che senso?
"Proviene da lì. Ma non ha mai affrontato la modernità. E rifiutando l'idea di Chiesa ha escluso nella propria storia secolare la possibilità di sviluppare quel dualismo che è stato alla base del cristianesimo occidentale".
Con quali conseguenze?
"Quella più vistosa è che l'Islam - lo si vede nelle frange più estreme e aggressive - non ha mai distinto il sacro dalla politica. Ciò che è sovrano e per sua stessa natura sacro".
La religione come arma?
"Una religione che non ha attraversato la modernità. E il cui richiamo al trascendente è un lamento contro il potere del consumo che ormai domina nel mondo occidentale".
Anche nel cristianesimo ci sono elementi di critica al capitalismo e al consumismo.
"È vero, ma è pur sempre dentro una dialettica tra poteri distinti. Questo mi fa venire in mente gli anni Sessanta e come, io cattolico di sinistra, mi posi di fronte alla teologia della liberazione".
Come si pose?
"È una parte della mia vita un po' strana. Durante il Concilio Vaticano II avevo fatto amicizia con un uomo straordinario: Ivan Illich. Andai a trovarlo Cuernavaca, in Messico, dove viveva. La nostra fantasia ci aveva spinto a immaginare un cristianesimo meticciato, che tenesse conto anche delle altre esperienze. Con il suo aiuto volevo mettere in piedi in Brasile un istituto simile a quello che Dossetti aveva creato a Bologna. Mi scontrai con la teologia della liberazione. Vedevo con una certa preoccupazione confondersi ideologia e religione".
Quanto meno reagivano alle dittature latino americane.
"È vero, gran parte degli esponenti della teologia della liberazione finì in galera. Qualcuno ucciso. Ma per un europeo non poteva essere una risposta valida".
Questo suo impegno come si conciliava con l'attività accademica?
"Coesistevano. Avevo insegnato a Bologna. Poi fui chiamato a Trento con il compito di trasformare una facoltà di sociologia in una vera università".
Trento era una delle roccaforti della contestazione.
"La spinta sessantottina si era esaurita. Volevo creare una università pubblica ma non statale. Una università, vista la posizione geografica, italo-tedesca. Ma i tedeschi rifiutarono".
Perché?
"Dissero semplicemente: keine mischung, nessuna mescolanza. Ho fatto il rettore per tre anni e per altri 25 il direttore dell'istituto storico italo germanico".
Illich lo ha più rivisto?
"Quando fu chiamato a insegnare all'università di Brema andai a trovarlo. Capitava che mi invitasse per qualche seminario; come del resto facevo io. L'ospitavo qui a casa. Portava con sé un sacco a pelo. Gli ultimi due anni della sua vita furono terribili. Devastati da un tumore. Per lenire il dolore fumava oppio. Ricordo l'ultimo seminario a Trento. Oltre me e Illich c'era Alexander Langer. Discutevamo sull'homo monolingus . Eravamo in una stanzetta. A un certo punto sembrava una fumeria. Povero Ivan, era fantastico su quel suo ragionare attorno alla lingua. Mi manca".
Cosa prova?
"Le grandi amicizie sono come i ponti: ti permettono di attraversare territori che da solo non ce la faresti. Sono nell'età dei resoconti. Mi guardo indietro e vedo che tipo di traiettoria è stata la mia. Vedo la mia famiglia. Una tribù composta da un centinaio di persone tra figli, nipoti e fratelli. Dopo che è morto Giovanni è come se si sia rotto qualcosa. A volte mi consolo passando un po' di tempo al pianoforte. È stata la mia passione. L'ho studiato. Ma devo ammettere che sono un cane".
La musica ha un rapporto con il sacro?
"Quando ascolto La passione secondo Matteo di Bach non è possibile non pensare a quella relazione. Ho quattro figli: il terzo insegna pianoforte; altri due diplomati in violino. Illich mi disse che avevo fatto studiare musica ai miei figli come ribellione alla scuola. Non lo so. Però penso che la musica sia un linguaggio universale e c'è un rapporto maestro allievo che altrove si è perso. Sono un pianista fallito. Ma i ricordi con la mia maestra di pianoforte sono stupendi".
Avere un passato da ricordare è bello. E il futuro?
"Il futuro non è più quello di una volta, il primo a dirlo mi pare fu Valéry. L'eclisse del sacro ha portato all'eclisse delle aspettative. È cresciuta la sofferenza psichica e la tristezza. Resto però un uomo occidentale".
Si può ancora avere fiducia nell'Occidente?
"Il mondo si disintegra e si ricompone. Bisognerà
vedere su quali basi. Se quelle "neoconfuciane" dove ciascuno ha un suo posto fisso, e ho l'impressione che qui si riproducano le caste, oppure se la coscienza individuale ritroverà la forza di progettare una nuova società, con la sua parte di utopia"
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