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martedì 10 febbraio 2015

Il canto della civetta di Anna Laura Folena



Nell’ultima pagina del Canto della civetta  si legge che «Due occhi non bastano per vedere tutto il mondo» e che bisogna «osservarlo con tanti sguardi diversi, attraverso gli altri e le loro emozioni».  Proprio da  questo desiderio di considerare diversi punti di vista nasce il libro di Anna Laura Folena, giornalista e appassionata di ludo-linguistica, che a ciascuno di questi punti di vista ha dato una voce. 
A parlare in prima persona, infatti, è un narratore diverso per ogni racconto.
Che si tratti di animali, come la civetta, il delfino, la farfalla, o di luoghi, come il ponte, la piazza, la spiaggia, o di personaggi, come il marinaio, il pittore, il direttore d’orchestra, o d’altro ancora, il lettore ha la possibilità di conoscere i loro pensieri e le loro storie, specchiandosi nelle loro vite e nei loro sentimenti fra sogno e realtà.

In anteprima due racconti 

Pagine vive
Ogni sera ti siedi davanti a me e mi guardi con sgomento. Solo per un istante. Poi per te divento una sfida. 
Sono la pagina bianca, vuota, senza parole. E tu vuoi riempirmi. Ce la farai anche oggi, ma fino all’ultimo non sai come. Mi osservi, ti pare impossibile avere la meglio su di me. 
Mi affronti. 
Cominci a scrivere una frase con un bel suono, qualcosa che rievochi immagini vissute o desiderate o sognate o temute. E vai avanti. 
Creato il primo pensiero, la scrittura fluisce da sola, come se vivesse di vita propria, e tu respiri con lei.
Ad esempio, scrivi “Ogni sera ti siedi davanti a me e mi guardi con sgomento”. Potresti proseguire descrivendo un uomo e una donna, l’uno di fronte all’altra, senza fiato, sopraffatti da un desiderio che li spaventa. Oppure raccontare di un nipote che si specchia nel volto del nonno e vede se stesso, ma segnato da un tempo non ha ancora vissuto. 
Invece, scegli di parlare di me, e così facendo mi riempi. E ora non narri più di una pagina bianca, vuota, senza parole, perché ce se sono già duecento, e non ti fermi. 
Stendi la storia di una pagina piena, colma del tuo desiderio di scrivere nonostante lo sgomento. E non è più la mia storia, ma la tua: la storia di una scrittrice che ha bisogno ogni sera di essere se stessa, dipanandosi in frasi armoniose, una dopo l’altra.  
Ed ora ti senti viva. Ora che hai affollato di vita il mio spazio.
La Pagina
Il canto della civetta

I miei occhi fanno paura. E chi prova sgomento nel vederli non ha coscienza del perché. Pensa di averne timore perché sono grandi o perché sono gialli. Non è così. I miei occhi incutono paura perché li tengo fissi dentro a quelli di chi mi osserva.
Anche gli umani s’inquietano quando li guardo dritti in faccia, restando immobile.
Quasi tutti.
Qualcuno, però, si ferma e sostiene il mio esame con rispetto, come fosse una creatura alata della notte. Allora so di potermi fidare. Chi ha il coraggio e la lealtà di ricambiare il mio sguardo probabilmente sa anche volare nelle tenebre, come me.
Per merito dei miei occhi vedo nell’oscurità e mi dirigo senza errore verso la meta. Mentre quei pochi umani, grazie all’amore per la magia della notte, scoprono universi interi con la fantasia e li esplorano volando di sogno in sogno. E quando tornano sulla Terra sanno scrutare dentro se stessi con quella franchezza con la quale ricambiano il mio sguardo. E impavidi affrontano il giorno.
Con il capo sotto l’ala riposo, mentre loro popolano di vita le ore che li separano dalla libertà di essere se stessi nel semplice gesto di alzare il volto verso le stelle e pensare “Tutto mio… tutto mio”, sentendolo cantare dalla mia voce.
La Civetta



Il Libro è edito da youcanprint.it
http://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/narrativa/il-canto-della-civetta.html



Anna Laura Folena, giornalista di origini toscvenete, è laureata in Lettere Moderne con il massimo dei voti e la lode all'Università di Padova, con una tesi in stilistica e metrica italiana, dalla quale è nato il saggio Simmetria e circolarità nella metrica  del secondo Saba, pubblicato in "Studi novecenteschi" (Giardini editori e stampatori in Pisa, XVIII, numero 41, giugno 1991). Per anni è stata free-lance, dividendosi tra carta stampata, conduzioni televisive e radiofoniche. Attualmente si occupa prevalentemente di relazioni esterne e uffici stampa. Appassionata di ludo-linguistica ( nickname= Il Gabbiano, ALF), usa le parole per lavorare, per giocare e per scrivere libri , come la raccolta di raccolti ironici, Ma quando arrivano gli elefanti? (2007, Giacomuzzi Editore).
Il canto della civetta è la conferma che anche la prosa può essere poesia.


lunedì 28 luglio 2014

Nadine Gordimer, 90 anni di lotte contro l'apartheid e le ingiustizie.


Nadine Gordimer
di Tiziano Riverso
Minuta ma con una straordinaria energia, Nadine Gordimer ha visto con i suoi occhi vispi, nitidi e un pò severi, come la sua scrittura, l'apartheid e ha sempre combattuto contro le ingiustizie, tutte. Era, come dice Inge Feltrinelli, il suo editore italiano, "una minuscola, piccola grande donna. Una battagliera fantastica per tutti i diritti umani e civili".
Amica di Nelson Mandela ("se non ci fosse stato lui il Paese sarebbe sprofondato nella guerra civile, ci e' andato vicino" diceva) e di tanti leader della lotta contro l'apartheid è stata fra i membri fondatori del Congress of South African Writers. Fino all'ultimo la scrittrice sudafricana Premio Nobel nel 1991, morta oggi a 90 anni nella sua casa a Johannesburg, ha combattuto con coraggio anche una battaglia personale, quella contro il tumore al pancreas che aveva annunciato di avere lo scorso marzo dicendo addio alla scrittura. "Scrivere mi fa stare male e sono troppo critica, troppo esigente verso il mio lavoro, non credo che accetterei qualcosa che non mi soddisfa" aveva detto. Così come si era più volte dichiarata convinta che il valore di uno scrittore stia nelle sue opere, in quello che scrive.
Nel 1974 vincitrice del Booker Prize, nel 2002 del Premio Internazionale Primo Levi e nel gennaio 2007 del Premio Grinzane Cavour per la Letteratura, il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è 'Ora o mai più' (Feltrinelli) del 2012 che racconta una storia del dopo apartheid ma che affonda le sue radici nel prima con protagonisti la nera Jabu di una povera famiglia della tradizione zulu e il bianco, benestante e borghese Steve. Poi è arrivato, nel 2014, 'Racconti di una vita'. E il 15 ottobre uscirà per Feltrinelli 'Tempi da raccontare', una raccolta di saggi, articoli e conferenze, scritti nell'arco di mezzo secolo, in cui sono al centro le sue passioni, convinzioni, letture, l'impegno e la lunga lotta di contro l'apartheid. Figlia di un ebreo russo e di un'ebrea inglese, nata nel Transvaal, nel borgo minerario di Springs a est di Johannesburg, il 20 novembre del 1923, la Gordimer, ha più volte detto che "la sua sensibilità alle ingiustizie" veniva "dall'essere cresciuta in Sudafrica". Ma fino all'ultimo ha invitato anche a guardare avanti, al Sudafrica del dopo apartheid, dopo aver vissuto l'euforia della realizzazione di un sogno che aveva paragonato a quella "della caduta del muro di Berlino", e consapevole che il razzismo non era sconfitto.
Con il suo stile secco, essenziale, nitido, distaccato ha messo nei suoi romanzi ognuno di fronte a se stesso a partire dal Toby di 'Un mondo di stranieri', che troviamo nella sua prima opera tradotta in Italia da Feltrinelli nel '61 e scritta nel '58 alla vigilia delle prime rivolte nere organizzate e delle durissime repressioni. Ne 'I giorni della menzogna' (The Lying Days), sua opera prima del '53 c'è invece una ragazza che con dolore si allontana dalla sua famiglia bianca, ostile ai neri. Mentre ne 'La figlia di Burger' una giovane donna, figlia di un uomo morto in prigione, cerca di fuggire dal suo destino e dal Sudafrica e finisce anche lei in cella.
La famiglia, i bianchi rifiutati dai bianchi, i neri visti con sospetto, il futuro come un'incognita sono i temi al centro della maggior parte dei suoi romanzi e racconti che insieme ai saggi costituiscono una sterminata produzione. Cosi' in 'Luglio' uscito per Rizzoli nel 1984 una famiglia bianca, nei giorni vincenti della rivolta, viene nascosta dal proprio servitore. Mentre in 'Sveglia!' del 2006 il protagonista Paul Bannerman è un ambientalista malato di cancro reso radioattivo dalla cura che sta facendo. La costante di tutte le sue opere è "quel coraggio nella vita e talento nelle opere" che dovrebbe essere il credo di tutti gli scrittori come ricordò invocando Camus nel suo discorso per il Premio Nobel.
 ANSA


Obituary: Nadine Gordimer 1923 - 2014 

Zapiro for Times

13 July 2014: Writer, political activist and nobel prize laureate, Nadine Gordimer( 90) died peacefully in her sleep. Gordimer wrote 15 novels as well as several volumes of short stories, non-fiction and other works. She was published in 40 languages around the world. Friend of Nelson Mandela, Gordimer was an unwavering critic of apartheid and an outspoken advocate of black majority rule. Her fiction, which she saw as part of the struggle against apartheid, documented the havoc that institutionalised racism wrought on private lives. Three of her works were banned by the government for varying periods because of their outspoken messages. In an 1990 interview she said Gordimer said “I used the life around me and the life around me was racist,” In a 1990 interview she said “I would have been a writer anywhere, but in my country, writing meant confronting racism.
This drawing was done twenty two years ago by Zapiro as a tribute to Nadine Gordimer for the cover of a 1992 edition of the progressive Afrikaans journal, Die Suid-Afrikaan.



Links


  •  Nadine Gordimer: “Il Sudafrica ha tradito il sogno di Mandela”


  • “Io, Madiba e il mio Sudafrica” Addio al Nobel Nadine Gordimer la scrittrice che sfidò l’apartheid


  • È morta Nadine Gordimer


  • Nadine Gordimer: evergreen, ageless and an inspiration to all writers


  • Morta Nadine Gordimer, piccola grande donna contro l'apartheid


  •  http://it.wikipedia.org/wiki/Nadine_Gordimer



  • Related Zapiro cartoons

    domenica 13 luglio 2014

    Ritratto di Carla Vasio

    Il 1 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Antonio Gnoli
     a  Carla Vasio





    Carla Vasio: "Ho fatto la guerra del Gruppo '63, ora vivo per dimenticare tutto"

    La scrittrice, saggista, storica dell'arte e poetessa italiana, nata a Venezia nel 1932 e poi trasferitasi a Roma, in occasione del cinquantenario della nascita del movimento ha pubblicato il libro di memorie Vita privata di una cultura (Nottetempo, 2013) che ne ripercorre la storia
    di ANTONIO GNOLI  

    E poi c'era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo '63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: "Eravamo nati a un giorno di distanza l'uno dall'altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l'immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno", ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

    Ma quello che non capisco è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo '63 non si parla mai. Guardo la Vasio  -  una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura , Nottetempo)  -  e mi aspetto una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: "Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana".

    Erano maschilisti incalliti?
    "Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale".

    C'è una foto in cui ballate avvinghiati.
    "Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo".

    Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
    "Adorabile nevrotico. Fu un'amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali".

    A cosa si riferisce?
    "Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un'angoscia terribile".

    E Manganelli?
    "Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all'ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi".

    Ma il Gruppo '63 non amava Pasolini.
    "Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri".

    La racconta come fosse una guerra.
    "E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento ".

    Quanto è rimasta a Venezia?
    "Fino all'adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c'era Rossana Rossanda".

    E com'era
    "Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze".

    Frivoli?
    "Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l'uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso".

    Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
    "Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane".

    Come fu il dopoguerra a Roma?
    "Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l'università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un'idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò".

    Cosa intende per esoterico?
    "Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall'Ashram di Aurobindo".

    Il santone indiano?
    "Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l'India. Si incamminò verso l'India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma".

    E qui cosa accadde?
    "Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po' tutti quando, all'inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down".

    E lei in tutto questo che c'entrava?
    "Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso".

    Quale?
    "A Roma si era formata una enclave di junghiani".

    Lo dice come fosse una setta.
    "In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona".

    Chi era?
    "Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista".

    E cosa decise?
    "Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso "romanzo storico", scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino".

    Cosa le disse Calvino?
    "Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni".

    Che anno era?
    "Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l'ultimo sussulto lo ebbe con l'estate dei poeti nel luglio del 1979".

    Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
    "Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c'era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie".

    E cosa accadde?
    "Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l'evento poté finalmente decollare".

    Fu un canto del cigno.
    "Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci".

    Come reagì la Pivano?
    "Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C'era nell'aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell'estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone".

    Al quale in seguito ha dedicato un libro.
    "Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell'Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito".

    Lasciando qualche trauma?
    "No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere".??Chi per esempio??"La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo '63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l'oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l'inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi".

    Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
    "Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all'arte di dimenticare".

    Curioso per una donna che ricorda tutto.
    "Sono d'accordo, ma considero quell'arte suprema".??Perché??"Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un'immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C'è la dea Maat che sta sulla soglia dell'aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no".

    E come conosce l'anima dei defunti?
    "Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull'altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell'aldilà".

    Lei crede nell'aldilà?
    "Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita".

    lunedì 7 aprile 2014

    James Ellroy

    Il 05 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Sabrina Champenois
    a James Ellroy




    James Ellroy: "Chiedetemi
    se sono felice"

    La politica, l'alcol, gli scandali. Intervista all'autore di una nuova "Tetralogia di Los Angeles"
    di SABRINA CHAMPENOIS

    Con Perfidia, primo volume di una nuova Tetralogia di Los Angeles, lo scrittore americano torna a immergersi nella storia degli Stati Uniti. L'occasione si è presentata il weekend scorso al decimo festival "Quaisdupolar" di Lione, a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione di due capitoli del suo prossimo libro, Perfidia. Il teaser assolve perfettamente il suo compito: questa quarantina di pagine, che si apre con il 6 dicembre 1941 e una serie di violenze carnali nei quartieri ovest di Los Angeles e si conclude con l'omicidio o il suicidio di una famiglia nella comunità giapponese, dà l'idea di un Ellroy più affilato di una spada.

    "Sono riversi sulla schiena. Sbudellati. Completamente sventrati. Gli intestini fuoriescono loro dall'addome e si spargono sul pavimento. Sono gli uni accanto agli altri, tutti e quattro: padre, madre, figlia, figlio. Si direbbe che sono stati disposti in questo ordine. Accanto a ciascuno di loro c'è una sciabola insanguinata". Il poliziotto in prima linea è Dudley Smith, personaggio emblematico del Dipartimento di polizia di Los Angeles e dell'opera di Ellroy.

    Le piace questa campagna promozionale, non è così?
    "Sì, mi piace soprattutto incontrare i miei lettori. Le interviste possono innervosirmi. Proprio adesso, per esempio, me la sono presa con un giornalista. Ho avuto l'impressione che mi mancasse di rispetto. Beh, la mia ex moglie Helen Knode, la mia più cara amica, anche lei scrittrice, mi ha detto: "Resta calmo e rifiutati di parlare di politica"".

    E lei obbedisce?
    "Certo! Perché, fosse per me, io amerei la bagarre. In effetti non serve a niente. La politica non ha niente a che vedere con questo libro".

    Lei però dice che ormai è diventato un romanziere storico. Ebbene, la storia non nasce forse dalla politica?
    "A me va benissimo parlare di politica ai tempi della Seconda guerra mondiale. Ma non di politica contemporanea ".

    Lei vota?
    "Sì". ( Fa lo sguardo da "non-mi chieda per chi", grrr...)

    Ci parli di Perfidia, il primo tassello della sua nuova Tetralogia di Los Angeles.
    ( Di nuovo rilassato) "È ambientata a Los Angeles e riprende alcuni personaggi della prima, ma negli anni della Seconda guerra mondiale. Voglio che questi undici libri costituiscano alla fine la realizzazione di una storia popolare dell'America. Si tratta anche di amplificarne l'effetto sui miei lettori, nel momento in cui mi trovo nella terza fase della mia vita".

    Come fa ogni volta a riprendere i contatti con i suoi personaggi? Come si ritrova?
    "I libri sono incisi nella mia memoria e a me piacciono le epopee. I libri epici, i film epici, la musica sinfonica... Mi piace la sfida di creare qualcosa di immenso. Sapendo che l'ho creato, anni fa, so che se posso immaginare qualcosa allora posso crearlo. Perfidiaè un libro voluminoso, di 650 pagine, che uscirà in inglese questo autunno. Evoca un episodio molto noto negli Stati Uniti e soprattutto a Los Angeles. Questo grande porto conteneva una notevole comunità di giapponesi d'origine o di americani di origine giapponese. All'improvviso, la città è stata considerata un luogo molto propizio al sabotaggio e molti sono stati internati, senza alcuna certezza che fossero colpevoli. Si è trattato di un caso di isteria dovuta alla guerra, mescolata all'isteria razziale".

    Ha dunque intenzione di rendere giustizia?
    "No. Non ho alcuna motivazione morale per farlo, si tratta soltanto di una parte della storia di Los Angeles. Fu un errore, e voglio spiegarlo. Voglio spiegare l'atmosfera dell'epoca, il clima avvelenato".

    Sarebbe una cantonata considerarla un inconsolabile, un idealista deluso?
    "Io sono un grande idealista. Ma inconsolabile no. Sono un uomo felice. Felicissimo".

    Non è in collera con l'America?
    "Ah, no! Provo simpatia per gli Stati Uniti e penso che siano una forza del bene. Ma penso anche che ci sono state alcune menzogne. Mi rende felice scrivere, perfino scrivere di menzogne. Non sono di certo un giustiziere!".

    Dato che lei utilizza spesso termini in slang, come "negri", "gialli", "mori" alcuni giungono alla conclusione che lei è un bianco razzista e suprematista. Che cosa risponde?
    "Niente. Io non rispondo a questo genere di domande. Che la gente pensi pure quello che vuole. I miei personaggi sono profondamente americani e America ha sempre fatto rima con diversità. La diversità non è una questione di colore della pelle, di orientamento sessuale, di origine etnica. È una questione di volontà individuale, di idee nelle quali si crede, di come si ha un'influenza diretta sul corso delle cose".

    Scrivere è ancora piacevole per lei?
    "Lo è sempre di più. Perché sono nel periodo creativo più fecondo della mia vita".

    Ha forse intenzione di scrivere il suo nome nella Storia?
    "Voglio riscrivere e ricreare la storia umana segreta della storia degli Stati Uniti, della storia di Los Angeles, e racchiudere le storie personali negli eventi pubblici, fondere i due".

    La scrittura è per lei una cappella nella quale rifugiarsi? È l'unica?
    "Sono cristiano, credente e praticante".

    Perché?
    "Basta. Fermiamoci qui, se non le spiace".

    L'estratto di Perfidia è preceduto da Extorsion, romanzo breve su Freddy Otash, la star del giornale scandalistico Confidential. Le piace Otash?
    "Ah no! Otash è divertente, attraente, ma è un essere umano crudele. Divulga i segreti della gente per arrecarle danno. Niente è più personale, intimo, e rivelatore della vera natura delle persone della sessualità, e io sono un voyeur, un guardone, mi piacciono i segreti, il fango, la merda. Ma non li utilizzerei mai per ferire ".

    Lei è stato un alcolizzato e un tossicomane. Come ne è uscito, con la scrittura?
    "No, grazie a Dio. Dio è entrato nella mia vita, e io sono tornato 'pulito'. La scrittura è venuta dopo".

    Segue la cronaca?
    "Me ne parlano gli amici. E poi spalanco gli occhi e le orecchie, e questo mi basta per supplire alle mie lacune. Stiamo vivendo una crisi spirituale profonda, la gente ormai è alla ricerca dell'istante, non dell'eternità, e prova il bisogno di riempirsi ad libitum di informazioni, di immagini... Non è neanche più capace, quando è in automobile, di fermarsi al semaforo rosso e di aspettare con pazienza, senza fare nulla, standosene semplicemente lì... Tutti sono assorbiti e immersi nei loro cellulari, i loro tablet. È pazzesco! Mi è capitato più volte che ci mancasse un pelo a essere travolto. Io ho bisogno di tempo per rimuginare. Rimugino molto. Sono un perverso. Sono un voyeur. Sono uno sciacaaaallo! Lo dico in riferimento a Lo sciacallo, illibro di Frederick Forsyth sull'attentato di Petit-Clermand, che di recente ho riletto... De Gaulle, l'Oas, l'Algeria, i parà, e lo sciacallo: questo genere di cose fa di un libro un buon libro ".



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    giovedì 27 marzo 2014

    Ezio Raimondi

    Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima».

    19/03/2014
    oggi su LA REPUBBLICA
    Ezio Raimondi
    amava Céline e Caravaggio
    Riccardo Mannelli


    È morto Ezio Raimondi, aveva quasi 90 anni.
    la notizia
    Sopra il ritratto fattogli dall'artista Riccardo Mannelli e sotto un articolo dove il professore filosofo parla del suo ultimo libro e del suo amore per i libri nel febbraio 2012.

    «Ho incontrato Petrarca in cucina»

    Intrecci di storie, amicizie, passioni: Ezio Raimondi
    racconta le voci dei suoi libri

    BOLOGNA - Le voci dei libri sono le tante voci contenute nei libri, ma sono anche quelle che arrivano a determinarne la scelta e la lettura, e sono quelle che dai libri, una volta letti e consumati, si dipartono per proseguire lungo percorsi imprevisti. I libri sono intrecci di voci, confluenze, crocevia. Le voci dei libri è il titolo del nuovo libro di Ezio Raimondi (a cura di Paolo Ferratini, Il Mulino), che a sua volta è un intreccio di voci e di incontri. Si sarà notata l'abbondanza di «libri» nelle righe che aprono questo articolo. Non è casuale. Perché il nuovo libro di Raimondi, che con i suoi quasi 88 anni è il decano degli italianisti, è in realtà un metalibro, racconta le letture-chiave di una lunga vita, quelle che prima ancora di rappresentare una svolta culturale sono state un momento importante sul piano esistenziale: voci che provenivano da lontano lasciando nell'intimo una lunghissima eco. Nel momento in cui si prefigura il suo tramonto, questo è un canto di riconoscenza dal tono quasi testamentario all'oggetto libro quale segno tangibile e imprescindibile di profonda umanità. Non c'è pagina che si esaurisca in sé. Ogni pagina letta si riallaccia a una presenza, a un incontro, a un'amicizia. Del resto, si sa, per Raimondi la letteratura, non solo quella poetica e narrativa ma anche quella critica, è il luogo del dialogo per eccellenza: non c'è niente di più democratico. Ogni libro è un incontro dentro e fuori le pagine.
    Ezio Raimondi - «Le voci dei libri» - Il Mulino, pp. 113, € 13Ezio Raimondi - «Le voci dei libri» - Il Mulino, pp. 113, € 13
    Seduto al tavolo della sala nel suo appartamento di via Santa Barbara, sulla collina innevata di Bologna, Raimondi non nasconde l'emozione di fronte a questa sua esile creatura; emozione che contrasta un po' con la magrezza severa del portamento ma soprattutto con il rigore razionale del suo immenso lascito critico. Il «libridinoso», lo chiamano ancora oggi gli allievi (i più impertinenti ne anagrammavano nome e cognome: «Inizia e dormo»). Eppure in lui non c'è traccia di feticismo bibliofilo, la sua biblioteca è un cumulo di volumi in ordine sparso, anzi in controllato disordine: «Mi sono affidato sempre a misure relative, con mutamenti di posti che rendevano sempre più aleatoria la possibilità di seguirli e ritrovarli». Sono cumuli precari che iniziano in corridoio e si espandono in vere e proprie muraglie nello studio, dove neanche la scrivania viene risparmiata dall'ammasso. «Libridinoso? Era una formula maliziosa con cui si voleva indicare una persona che amava parlare di libri, ma in realtà parlando di libri io parlavo di nuove esperienze umane. Studiare un personaggio era tentare di strapparne il mistero che chiamiamo anima». Ma l'incontro con i suoi autori che viene fuori dal racconto di Raimondi è soprattutto una continua occasione umana: «Il mio rapporto con i libri è fatto anche di assenza, di desideri, di momenti sofferti e di dubbi, un rapporto che mi avvicina a una totalità imperfetta, un atto di amicizia. Anche nella letteratura quel che conta è la nozione di amicizia, perché la letteratura tutela l'integrità dell'uomo, come di un amico che accettiamo così com'è».
    Il libro prende avvio da un'infanzia povera, da un padre ciabattino che preferirebbe un figlio artigiano e da una madre donna di servizio che insiste perché Ezio continui a studiare. «In realtà - dice Raimondi - io avevo due padri e quello che parlava di più era l'altro, il mio era laconico. Il caso volle che bambino in fasce venni accolto da una coppia di vicini senza figli. Mia madre andava a lavorare e mio padre pure, così io rimanevo con loro tutto il giorno e nacque un affetto di paternità e di maternità. Il Baratta, un operaio specializzato che leggeva il «Corriere» e «La Stampa», divenne per me una specie di padre elettivo che era stato corista a Milano e mi portava a teatro. Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, un abito a puntino azzurro, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni: aveva un volto affilato ed era privo della tipica espansività verbale bolognese. L'espansività era un dono del Baratta, che coniugava dialetto e italiano in una miscela molto inventiva».
    A proposito di miscela linguistica, c'è un incrocio fatale nella vita di Raimondi: l'amicizia con Giuseppe Guglielmi, lo scrittore, il poeta, il miglior traduttore di Céline. La parte centrale del libro è occupata dall'immagine dell'amico Giuseppe che ogni domenica mattina sale verso via Santa Barbara per leggere con Ezio le traduzioni in corso. Non facili: Céline, Queneau, Baudelaire... Il sodalizio, che durerà per una vita dando frutti straordinari, è anche per Raimondi un'immersione nell'intimità della lingua: «Prima di tradurre Céline schedammo tutto Gadda per capire se poteva servirci il suo lessico, ma scoprimmo che non ne veniva nulla. La pagina di Céline era musicale, fango che si accende di improvvise accensioni celesti: da bambino mi era stato vietato di parlare in dialetto, ma traducendo Céline ripescavo dalla memoria le mescolanze di Baratta e le passavo a Guglielmi».
    Bisogna tornare all'infanzia per cogliere le difficoltà di un ragazzo la cui casa è ridotta in macerie dai bombardamenti e che presto perde il padre, morto per malattia nel '45: rimane da solo con sua madre nel locale di una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme. Il giovane Ezio scrive la tesi in cucina, uno studio su Codro e l'umanesimo bolognese, nelle narici l'odore del soffritto. «Mia madre era una persona spericolata, che aveva combattuto nella Resistenza e incitava mio padre a metter su bottega. Quando finii le elementari, mio padre disse che non c'erano soldi per farmi studiare e fu mia madre ad assumersi l'onere della spesa, qualche volta aiutata dallo stesso Baratta».
    Ezio Raimondi alla scrivania del suo studio, a Bologna, circondato da volumi (foto di Monica Silva)Ezio Raimondi alla scrivania del suo studio, a Bologna, circondato da volumi (foto di Monica Silva)
    Prima di passare dalla cucina alla biblioteca, entra in casa un volume della storia della letteratura del Flora: un regalo che la mamma, suggestionata dal battage pubblicitario mondadoriano, volle consegnare al figlio come un messale. «C'era una commistione tra libro dotto e contesto domestico, artigianale: nell'esperienza del libro c'era il vissuto diretto, l'odore della cucina. Io parlavo a mia madre delle mie ricerche, e Petrarca e Codro diventavano personaggi del nostro mondo: mia madre era quasi in grado di chiedermene lo stato di salute». Eccole là, le voci dei libri. Si potrebbe anche dire i volti dei libri. Per esempio, il sorriso malinconico di una ragazza, Sonia, che un giorno gli dice: «Tu conosci il tedesco...», e gli passa un libro intitolato Sein und Zeit . La scoperta di Heidegger, nella miseria dei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, è una rivelazione per il giovane Ezio, che lo legge a suo modo, in una chiave esistenziale, depurata del côté eroico e nietzschiano, «quasi con inconsapevole baldanza», scrive giustamente Ferratini nella postfazione al volume. Tra caso e destino arrivano altri incontri e con essi altre letture: le prime lezioni con Roberto Longhi sono una folgorazione capace di cambiare una vita e Raimondi ricorda che rinunciò a laurearsi in storia dell'arte per ragioni economiche, ma anche per timore: «Paura pazza dell'ironia di Longhi, attorno a lui c'era un mondo borghese che non mi apparteneva e rispetto al quale non mi sentivo ostile ma diverso: io ero portato alla parola discreta e non gridata. Il grido lo riservavo al gioco del calcio in cui ero soprannominato Qui-Qui, perché chiedevo sempre la palla. Io avevo due facce: quella del primo della classe in una classe di fannulloni e quella del ragazzino che giocava e cascava come tutti». Altri incontri, altre amicizie, altri libri, altri casi, altri destini: la scoperta del Medioevo europeo attraverso il dono del grande libro di Ernst Robert Curtius proveniente da un altro amico inseparabile, Franco Serra, lo studioso di filosofia tedesca che nel '48 tornando dalla Germania portò con sé quel volume: «Ecco - disse all'amico -, è tuo». Quel libro fu una «premessa ai movimenti del cuore», commenta Raimondi. E poi l'«epifania» del saggio di Lucien Febvre su Rabelais e i problemi della miscredenza, pescato tra i tanti volumi arrivati sulla scrivania dello stesso Serra e divorato febbrilmente. «Questa è la vera storiografia», avrebbe detto Ezio opponendo quella concretezza di spazi e di oggetti e quella dimensione materiale all'idealismo stagnante della cultura italiana. Le passeggiate in bicicletta verso l'Appennino e le conversazioni sotto gli alberi approfondivano l'amicizia con Franco, nipote di Renato Serra, cui Raimondi avrebbe poi dedicato studi fondamentali.
    Meno caso e più destino, forse, è un altro dono: quello che nel novembre del '68 a Baltimora Raimondi ricevette dai suoi allievi che lo salutavano prima del rientro in Italia: «Era un involto con il fiocco tricolore, conteneva il Rabelais di Michail Bachtin, credo la prima edizione occidentale, un libro che desideravo o, per meglio dire, aspettavo e che mi avrebbe aperto gli orizzonti sulla polifonia dei mondi ideali: le prospettive del mondo si moltiplicavano, le voci composite coesistevano, la lingua diventava pluralità, vitalità e dialogo». E poi Broch e Nabokov, Fuoco pallido, un romanzo travestito da filologia, una prima edizione Mondadori trovata forse alla Biblioteca circolante Brugnoli: «Lì si potevano reperire Proust, Faulkner, Virginia Woolf, Mann. Copertine povere e i commenti dei precedenti lettori, magari a contrappunto: ricordo che Conversazione in Sicilia era costellato ai margini da una serie di "porco". Anche alla Biblioteca circolante ho incontrato tanti libri non sapendo che sarebbero stati grandi eventi della mia vita».
    20 febbraio 2012 (modifica il 21 febbraio 2012)© RIPRODUZIONE RISERVATA

    Maestro
    • Ezio Raimondi (1924 -2014), filologo e saggista, è professore emerito di Letteratura italiana a Bologna
    • Il suo lavoro critico spazia dalla letteratura alla storia dell’arte, dalle origini all’Umanesimo, dal Barocco al ’900. Tra i saggi più importanti, quelli su Dante, su Tasso, su Manzoni, su Gadda e su Montale
    • È stato tra i fondatori della rivista «Il Mulino». I suoi libri più recenti trattano la letteratura scientifica, la retorica, l’etica della lettura

    lunedì 20 gennaio 2014

    Ritratto di Luciana Castellina

    Il 12 gennaio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Antonio Gnoli
    a
    Luciana Castellina

    "Tutti quegli anni davanti ai cancelli delle fabbriche per vedere oggi
    la classe operaia diventare irrilevante"


    Luciana Castellina: i ricordi,
    le passioni, la politica
    di una 'inossidabile comunistaccia'

    di ANTONIO GNOLI
    Luciana Castellina
    Tutte le case di sinistra in qualche modo si somigliano. Ammetto che è un pensiero vago. Perfino insulso. Mi afferra una volta varcata la soglia dell'abitazione di Luciana Castellina. I libri, tanti e disposti quasi in ogni stanza, le foto attaccate ovunque alle pareti, i manifesti, i quadri, il lieve disordine che fa molto vissuto evocano una certa idea della politica e della morale. Sì, le case a volte parlano come e più degli umani. Sedimentano storie, forniscono indizi, mostrano il lato meno scontato del carattere: "Abito qui da sempre", dice, "in questo quartiere borghese con scarsa propensione all'avventura, nella Roma moderata e riccastra che si incistò ai Parioli dagli anni Trenta. Se fosse stato per questo clima di spenta moralità e di scarso agonismo non avrei fatto tutto quello che poi ho realizzato. Ho ereditato questa casa, senza sceglierla. E penso che alla fine i ricordi e le abitudini me l'abbiano resa non dico indispensabile, ma vicina, quasi una parte di me".

    Si sente una privilegiata?

    martedì 19 novembre 2013

    700 anni dalla nascita di Boccaccio, il Decamerone in 100 tweet!

    Bruno Corti mentre sta declamando con Valeria Noli e Massimo Arcangeli della " Dante Alighieri "


    A 700 anni dalla nascita di Giovanni Boccaccio la Società Dante Alighieri, tramite la redazione di madrelingua, ha sviluppato il progetto Decameron in 100 tweet (riscrittura collettiva del capolavoro dell'autore di Certaldo). Dal 1° agosto all'8 novembre hanno pubblicato ogni giorno su twitter.com/la_dante due twoosh ("cinguettii" di 140 caratteri esatti), uno metrico e uno narrativo, per ciascuna novella.

    lunedì 2 settembre 2013

    Premio Letterario Città di Cantù “Suor Rita Borghi”



    L'Amministrazione Comunale di Cantù, in collaborazione con ASPEm - Associazione Solidarietà Paesi Emergenti; Coor-dinamento Comasco per la Pace e Combonifem Rivista delle Suore missionarie Comboniane, al fine di sviluppare la cultura della conoscenza e incoraggiare la pluralità di espressione in tutti coloro che affrontano la scrittura come libera scelta e come
    passione, indìce la prima edizione del Premio Letterario Città di Cantù “Suor Rita Borghi” per opere inedite, scritte in lingua italiana, da scrittori/scrittrici di origine africana, asiatica e sudamericana residenti in Italia.

    Prima edizione del Premio Letterario
    Città di Cantù "Suor Rita Borghi"


    La scelta di dedicare il Premio letterario Città di Cantù a Suor Rita
    Borghi, missionaria comboniana originaria di Cantù, nasce dalla convin-
    zione che Suor Rita debba essere ricordata per le attività a cui ha dedica-
    to la propria vita, ovvero l’insegnamento e la trasmissione della cultura.

    lunedì 19 agosto 2013

    Ritratto di Renato Barilli

    Ieri su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Antonio Gnoli
    a

    Renato Barilli, critico d'arte e di letteratura italiana ed artista

    “Condannato al silenzio, vivo con la paura che alla fine nessuno si ricorderà di me”. L’arte, la letteratura, il Gruppo 63 memorie di un “critico inesistente”. Non invidio Eco, sono solo un piccolo intellettuale petulante
    Renato Barilli Ciò che più temo è che nessuno si ricordi di me''




    18 agosto 2013
    Renato Barilli Ciò che più temo è che nessuno si ricordi di me ANTONIO GNOLI

    «Il fatto che lei sia qui a Bologna, in questo giorno di implacabile afa, davanti a me, mi pare un miracolo. Una visione. Forse un' allucinazione».
    Non so se Renato Barilli stia scherzando, in un pomeriggio di agosto in cui anche i grilli aspirerebbero a mettersi sotto il ventilatore, o sia serio e compunto. Propenderei per la prima ipotesi se non fosse per un curioso vittimismo che lo anima. Gli chiedo se soffre della sindrome di accerchiamento. Mi risponde con spiritosa prontezza che per accerchiare si richiederebbe la presenza concreta di un soggetto e lui da tempoè sparito dai radar. Puro ectoplasma, che però ha fatto in tempo a darci un libretto sul postmoderno (edito da Guaraldi):
    «Non è l' ennesima tirata filosofica sul debolismo»,
    dice con vaga e sorniona cattiveria. E il pensiero corre a Gianni Vattimo. Se Barilli, critico d' arte, quasi ottantenne, tra gli alfieri del Gruppo 63, fosse il nome di una strada, faremmo una certa fatica a trovarla. Ma una volta intercettata si vedrebbe un gran via vai di persone, un traffico di gente e cose che hanno sostato o l' hanno semplicemente attraversata. Del resto, un paio d' anni fa, uscì un suo ponderoso autoritratto (edito da Lupetti), ricco di episodi e di nomi e soprattutto attraversato da una certa paura di essere dimenticato. La chiamerei sindrome di abbandono. Davvero teme che nessuno la ricordi più, per quel che ha fatto e detto nel corso della sua vita?
    «La paura c' è ed è reale. Le faccio un esempio: sono tra coloro che hanno dato vita al Gruppo 63, ricorrono i cinquant' anni della sua fondazione, non c' è nessuno, dico nessuno, che ricordi che a quell' avventura partecipai anch' io. Mi sento come un paria. È la triste realtà».
    La fa soffrire?
    «Sì, e trovo sia un' ingiustizia. Una forma di esclusione».
    Si è dato una spiegazione?
    «Ho provato. Pensai: sono antipatico? Vabbè, ma non più degli altri. Ho compiuto azioni riprovevoli? Non credo e comunque non tali da giustificare questo accanimento. Ho dato fastidio? Non mi sembra».
    E allora?
    «Un sospetto ce l' ho. Credo che questo stato di cose dipenda molto dalla mia doppia natura. Da un lato esperto di arti visive, dall' altro critico letterario. Sa cosa mi dicevano gli amici? Quelli che si occupavano d' arte dicevano: Renato concentrati sulla letteratura che lì sei bravissimo; e i letterati invece mi invitavano a occuparmi d' arte, sperticandosi in lodi».
    Lei è un equivoco vivente.
    «Non scherzi, la cosa mi fa soffrire».
    Condannato all' inesistenza.
    «Non l' auguro a nessuno. Fin da bambino agognavo la socievolezza».
    Cosa ricorda dell' infanzia?
    «Pochissimo del fascismo, sono stato appena figlio della lupa e poi tutto si è dissolto. Invece ho ancora nella testa i rumori della guerra. Sperimentai tutti i tipi di bombardamento. Sento ancora il cupo ronzio delle fortezze volanti. Luccicavano in alto come enormi sardine d' argento, emanando un suono simile ai quintali di ghiaia scaricati di colpo. Mi distraevo e proteggevo, leggendo».
    Cosa?
    «Salgari, innanzitutto. Le sue avventure erano più forti dell' orrore della guerra. E poi, più grande, scoprii, Pascoli. Uno dei miei primi amori. Ma già eravamo negli anni Cinquanta».
    Com' era la vita a Bologna in quel periodo?
    «Intensa, varia, prolifica. Mi iscrissi a ingegneria. Facoltà virile, maschia, impegnativa. Inadatta a un temperamento curioso e polivalente, come il mio. Mi venne in soccorso una meningite virale che fiaccò le mie difese intellettuali. Finii così a Lettere. E lì ho avuto la possibilità di conoscere e frequentare Luciano Anceschi».
    Lo studioso di estetica?
    «Proprio lui, allievo di Antonio Banfi, mentalmente più agile del suo maestro. La cosa importante che ho appreso è che una teoria più che imporre dogmi deve liberare da quelli esistenti. Fu splendido, anche se sfibrato dalla beghe accademiche. Peccato che soffrì di un invecchiamento precoce. A lui, in parte devo, le distanze che presi dal cosiddetto marxismo letterario».
    Dalle posizioni espresse da Lukács?
    «Che erano poi quelle difese dagli intellettuali comunisti. Posso vantarmi di aver sentito fin da subito un' avversione per l' "impegno". È stato naturale in seguito dar vita al Gruppo 63. Lukács era la nostra bestia nera: il richiamo all' ordine e l' esaltazione delle classi popolari. Chi da noi se ne fece interprete stucchevole fu Vasco Pratolini».
    Ma il vostro successo da cosa dipese?
    «Dal bisogno di svecchiamento. Non se ne poteva più del bello stile toscaneggiante. Come neoavanguardia non abbiamo inventato nulla. Abbiamo solo esteso e democratizzato le invenzioni delle avanguardie storiche. Umberto Eco lo ha detto benissimo: siamo stati la "generazione di Nettuno". Lavoravamo sott' acqua, mentre i nostri padri nobili furono tellurici, esplosivi, dirompenti».
    Chi sono stati i più talentuosi del gruppo?
    «Avrei difficoltà a distinguere i più bravi. Sanguineti fu straordinario con il suo Capriccio italiano; Balestrini ha mostrato nel tempo una magnifica tenuta; i "Nuovissimi", con la loro poesia, furono la punta di attacco; Eco è stato una specie di fratello maggiore. Fu il primo ad avvicinarsi all' industria culturale a capirne i meccanismi e trovo determinante il contributo che diede con Opera aperta. Peccato che sia finito a scrivere romanzi».
    Peccato perché?
    «Li trovo dei divertissement. E quello che poteva anche essere una piacevole vacanza è diventata la sua occupazione principale». Non è un po' invidioso?
    «No, sono solo un piccolo intellettuale, petulante e intransigente».
    Piccolo ma agguerrito e col tempo anche potente.
    «Ho spesso rischiato il fallimento. Potevo restare il professorino di lettere di un istituto privato; potevo deprimermi dopo la figura miseranda che feci per un colloquio in vista di una borsa di studio per gli Stati Uniti; potrei dirle quanto ho sospirato prima di entrare stabilmente all' Università. E solo dopo tutto questo che la fortuna ha cominciato a girare. Agli inizi degli anni Settanta, con l' aiuto di Argan, fui messo in cattedra e subito dopo, morto Francesco Arcangeli, mi ritrovai alla testa dell' Istituto bolognese di Storia dell' Arte e, pur con fasi alterne, per un quarto di secolo vi ho svolto un ruolo intenso».
     Quell' istituto era il coagulo dell' esperienza longhiana.
    «Direi il luogo più sacro all' eredità di Longhi. Di fronte al quale mi sentivo un miscredente. Voglio dire che ero, come quasi tutti, pronto a riconoscere in lui le qualità stilistiche dello scrittore, ma a deprecare il suo inveterato naturalismo che lo portava a disprezzare tutte, o quasi, le esperienze novecentesche».
    Cosa pensa delle due grandi esperienze pittoriche del Novecento, almeno della prima metà, cioè De Chirico e Guttuso?
    «Con Guttuso sono stato forse fin troppo duro nella condanna. Sebbene sia stato il capofila del rigurgito di naturalismo che si ammantava di falso progressismo, gli riconosco a posteriori un indubbio talento. Il caso di De Chirico è del tutto singolare. Pensavo, come tutti, che finiti gli anni Venti, non avesse più nulla da dire e che la sua occupazione fosse ormai quella di stendere dipinti orribili e di pessimo gusto».
    E invece?
    «Mi accorsi, negli anni Settanta, che quel suo ricopiare, o rifare, in modi volutamente eccessivi e caricaturali le sue opere famose del periodo metafisico, ma utilizzando colori caramellosi, insomma quel suo imperterrito "citare", lo inseriva a pieno titolo nel postmoderno. De Chirico è stato l' espressione di una "neg-avanguardia", di un' avanguardia con il segno meno che capovolge i valori progressisti, come succede in algebra. Ma nessuno si sognerebbe di condannare come reazionari i numeri negativi».
    Ma quando un critico dà un giudizio e sente, col tempo, di averlo sbagliato che fa?
    «Non lo so. Molti fan finta di niente. Io non ho paura di ricredermi».
    Le è accaduto?
    «Agli inizi degli anni Sessanta, quando andavo a Milano, frequentavo di tanto in tanto il Bar Giamaica e mi vedevo spesso con Piero Manzoni. A me non piacevano le cose che faceva. In quel momento stava consumando una fase non eccezionale, quella dei "monocromi bianchi". Poi partii per Parigi dove stetti per più di un anno. Non ero accanto a lui quando ha fatto le sue opere davvero rivoluzionarie: la merda in scatola, il filo lungo all' infinito e altro. Mi rammarico, ma ho rimediato sostenendo i suoi eredi: De Dominicis e Cattelan».
    Accennava al suo periodo francese.
    «Sono stato decisamente un francofono. Amico di Jean Dubuffet e di Alain Robbe-Grillet. Le sue teorie sul "Nouveau roman" furono una svolta. Non ho amato Roland Barthes, perso dietro il sogno allora alla moda della semiotica. E l' arrivo di Michel Foucault e compagni mi ha turbato, non li ho capiti, trovandoli inutilmente ambiziosi. Ho considerato migliori i loro padri: Sartre e Merlau-Ponty».
    Ma è vero che in Francia la chiamavano "Renet Barillet"?
    «In realtà, questo sfottò è venuto dalla bocca di Giuseppe Guglielmi, fratello di Angelo, noto per le sue battute. I francesi non si sono troppo accorti del mio amore per loro, quello è l' unico paese in cui non sono mai stato tradotto».
    Riecco il tono lamentoso, la sindrome di accerchiamento.
    «Magari mi accerchiassero, invece sento solo il silenzio attorno a me. Che è l' arma più subdola. Non mi stroncano neppure, mi ignorano».
    Non è che le fanno scontare le sue contaminazioni con il potere politico?
    «Se allude a Craxi, ebbene vidi in lui un leader e una speranza per il Paese. Mi sbagliavo. Politicamente sono sempre stato un socialdemocratico. E per questo gli amici del Gruppo 63 mi sottoposero, già allora, a una specie di processo, dal quale uscii indenne. Sono stato per il Psi responsabile nazionale per le arti. Ho tentato di fare qualcosa in quella direzione anche se, lo devo ammettere, talvolta ne ho approfittato per proporre le mie mostre».
    È anche pittore?
    «Certo. Ho perfino frequentato da giovane l' Accademia delle Belle Arti».
    Non capisco se sia più egocentrico, masochista o equanime nel raccontarsi.
    «Tenderei a essere equanime, talvolta ci riesco anche per una indubbia pulsione masochistica, tanto da riuscire a infliggermi le qualifiche più odiose. Ritengo di essere l' autore che, nonostante una produzione di ormai sessant' anni, viene più di frequente omesso. Con un pizzico di divertimento mi definisco ormai come un calviniano "critico inesistente". Ma in fondo, lo ammetto, in tutto questo ci può anche essere una punta di vanità e di egocentrismo. Conosco bene l' arte di giocare a rovescio, di capovolgere il tavolo. L' ho appresa da Robbe-Grillet, del quale rimasi amico fino a quando non stroncai il suo cinema. Faceva film duri, legnosi, prefabbricati. Mi tolse il saluto. E fui cancellato dalle sue volontà testamentarie. Credo di aver rivestito un ruolo importante per lui. Ma nelle sue memorie non c' è nessuna menzione, neppure marginale o di sfuggita. Nessuna traccia di me».
    ANTONIO GNOLI


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    mercoledì 28 marzo 2012

    Tabucchi

    Tabucchi di Marilena Nardi


    Antonio Tabucchi, Pisa, 24 settembre 1943 – Lisbona, 25 marzo 2012


     La vita non si racconta, te l'ho già detto, la vita si vive, e mentre la vivi è già persa, è scappata. (Tratto da Tristano muore A. Tabucchi)



    "Se scrivessi a penna queste parole sarebbero lettere tremanti e spezzate."
    Addio Antonio Tabucchi
    Roberto Saviano





    Tabucchi, uomo libero
     di Marco Travaglio 
    Ci sono momenti in cui il nostro mestiere è davvero feroce, impietoso. E questo è uno di quelli: scopri che un tuo amico è morto e, invece di startene in silenzio a ricordarlo, magari a pregare per lui, ti tocca subito scriverne. Pochi minuti fa ho saputo che è morto Antonio Tabucchi, a Lisbona. Dicono che “era da tempo malato”. Non l’aveva detto nemmeno agli amici. Sapevo, me ne aveva parlato nell’ultima telefonata dal Portogallo qualche mese fa, di una frattura a una gamba, che aveva aggravato i suoi problemi alla schiena. Altro non so. Quello che so di lui è che era uno dei pochissimi intellettuali internazionali rimasti all’Italia (non direi “in Italia” visto che ci viveva poco, e con sempre maggiore disagio). Temo che la parola “intellettuale” non sarebbe piaciuta a lui così schivo, minimalista, autoironico, antiretorico, quasi autobeffardo. Ma, se la parola “intellettuale” aveva ancora un senso, è proprio perché c’era lui. (continua)



    ****

    **** L'intervista: ''Che fatica il mestiere di scrivere''

    L'incipit de "Il piccolo naviglio":
    Ne sarebbero dovuti passare degli anni dall'inizio di questa storia, quando Leonida (o Leonido) stava attraversando a nuoto un torrente gelido, prima che Capitano Sesto si mettesse a percorrere a ritroso tutta la sua rotta. A quel tempo Leonida doveva essere il giovanotto tutto ossa e baffi del ritratto che Capitano Sesto ritrovò nel solaio della casa paterna, e non disse mai esattamente i motivi che lo avevano spinto alla fuga né come erano andate le cose quella notte. Certo doveva essere una notte d'inverno, i gendarmi dovevano essere in due perché andavano sempre a coppia e l'unico bene che Leonida portava con sé, oltre i vestiti che aveva indosso, doveva essere un vecchio ricettario di famiglia avvolto in una tela incerata. Anche l'anno in cui tutto questo succedeva fu impossibile stabilirlo con sicurezza, nonostante tutta la buona volontà con cui Capitano Sesto cercò di fare i calcoli; cer-, to era un anno in cui l'altra sponda si chiamava ancora Regno * delle Due Sardegne e in qualche modo anche lui, Capitano Sesto, era presente: come ipotesi biologica navigava infatti nei lombi di Leonida (o Leonido) che nuotava come un disperato nei flutti del torrente ghiacciato. Cominciando dunque a raccontare quella lontana fuga, Capitano Sesto ricostruì la scena
    con la sua immaginazione

    sabato 16 gennaio 2010

    Carlo Sgorlon, scrittore e narratore Friulano


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    [disegno a matita, Raffaella Spinazzi/fany]

    È morto a Udine il giorno di Natale lo scrittore Carlo Sgorlon. (1930 – 2009)

    "Come potremmo vivere in una dimensione totalmente razionale, quando siamo circondati di mistero da tutte le parti? Si dirà: ma la scienza mette in fuga il mistero... Falso. La scienza non fa che spostare il mistero sempre più in là, alza la soglia...
    (Carlo Sgorlon)

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    DA Il trono di legno

    Incipit

    Da ragazzo vissi sempre con la testa piena di vento. Vidi una volta un bambino che correva nel cortile con uno straccio sugli occhi e un'estrema sicurezza che fu distrutta bruscamente quando andò a sbattere contro la palizzata dell'orto. Per molto tempo io andai avanti alla maniera di quel bimbo. Non mi chiedevo il perché delle cose, mi limitavo a starci dentro con fervore avventuroso, con la faccia rossa e piena di stupore, come uno che abbia fatto una lunga corsa.

    Citazioni

    • «Ognuno di noi crede di essere libero di scegliere la propria esistenza, ma non fa altro che seguire orbite prestabilite»
    • «Noi riteniamo di vivere la vita come individui separati da tutto il resto. Ma non siamo che attimi insignificanti della sua eternità».
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    Sgorlon magia della parola
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    Parte del discorso della laurea honoris causa(14/0907):

    «Per salvare la Terra bisognerebbe tornare a forme di vita simili a quelle della civiltà contadina, con il vantaggio però di possedere la miracolosa tecnologia dei nostri tempi». Lo ha detto oggi Carlo Sgorlon nella lectio doctoralis pronunciata in occasione del conferimento al settantasettenne scrittore friulano della laurea honoris causa in Scienze della formazione primaria da parte dell’Università di Udine. La cerimonia si è svolta al cinema Visionario di Udine nell’ambito delle celebrazioni per il decennale della facoltà di Scienze della formazione. «O smettiamo di alimentare l’effetto serra e gli infiniti inquinamenti del nostro pianeta – ha affermato Sgorlon –, o su di esso la vita diventerà presto impossibile. Bisognerebbe radicalmente cambiare cultura, tornare a forme di vita parsimoniosa e sacrale». Ma per fare questo, ha spiegato l’autore di libri straordinari come Il trono di legno, La conchiglia di Anataj, Il vento nel vigneto-Prime di sere, per citarne solo alcuni, «bisogna che l’Essere, la Natura, la Vita, che ci hanno in qualche modo creati, siano sentiti in modi religiosi anche da coloro che non riescono ad attingere col pensiero a un Dio personale».

    All’interno di quest’ottica, «la mia opera di narratore – ha aggiunto Sgorlon – non pare più quella di un conservatore chiuso alla modernità, ma quella di uno scrittore che indica una nuova, rivoluzionaria, concezione del progresso». Un po’ tutti i suoi romanzi, siano storici, o favole moderne imperniate su bizzarri personaggi caratterizzati dallo spirito dell’accoglienza e della donazione, sono d’impianto epico. «I miei libri – ha sottolineato il neo dottore – non si limitano a rappresentare i mali e le deformazioni del mondo, ma cercano di offrire modelli umani e di comportamento positivi, simili, almeno in alcuni versanti, a quelli della civiltà contadina, caratterizzata dalla parsimonia e da una religiosità istintiva e totalizzante». La sua narrativa va controcorrente: «Rifiuta – ha spiegato Sgorlon – ogni sofisticazione e segue le poetiche fondate sulla convinzione che la poesia sia soprattutto il risultato di una condizione di naturalezza, di semplicità, di capacità di vedere il mondo con occhi pieni di meraviglia». Gli uomini di oggi, denuncia lo scrittore, «perlopiù sono ubriachi di un eccessivo senso dell’ego e pensano solo a realizzare se stessi».

    Per il rettore Furio Honsell, «Sgorlon ha fatto diventare il Friuli un modello universale. Ho quasi un sentimento di soggezione nei confronti di una mente così lucida, ma al tempo stesso così delicata. È riuscito, con una leggerezza anche di scrittura, a rendere tutto ciò che sembrava noto, che sembrava conosciuto, molto più profondo, molto più universale. Non si può concludere la lettura di un libro, di un passo di Carlo Sgorlon senza sentire di conoscere meglio se stessi e il Friuli».

    Secondo il preside della facoltà di Scienze della formazione, Franco Fabbro, «ciò che più colpisce di Sgorlon è la sua autenticità, l’impressione che il suo messaggio sia fuori dal tempo, il coraggio di essere una voce fuori dal coro, dalla media, dalla moda e dalla mediocrità». I suoi romanzi Prime di sere e Il dolfin costituiscono, per Fabbro, «una delle strade maestre per far vivere, in maniera poetica ed eroica, la cultura e la lingua friulana».

    Sgorlon ha ricevuto la laurea honoris causa, come spiega la motivazione, «per la consistente produzione letteraria che gli ha valso riconoscimenti nazionali e internazionali; per aver ricoperto nel corso della sua vita l’incarico di docente nelle scuole superiori, distinguendosi per l’impegno didattico e affiancando così la sua attività, volta all’educazione dei giovani, a quella dello scrittore; per aver esportato le tradizioni culturali al di fuori della nostra regione, veicolando l’immagine di una terra depositaria di sentimenti e di valori culturali, civili e umani».

    Allegati
    Tipo Titolo Dimensione
    Lectio, prof. Carlo Sgorlon 65.4 kB
    Laudatio, dott.ssa Fabiana di Brazzà 168.6 kB
    Intervento del preside, prof. Franco Fabbro 100.0 kB