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domenica 5 maggio 2013

Concorso 13th World Press Freedom International Editorial Cartoon Canada

13th World Press Freedom International Editorial Cartoon Competition

Venerdì 3 Maggio 2013 a Ottawa, presso il centro Congressi sono stati annunciati i vincitori del

13th World Press Freedom International Editorial Cartoon

La giuria, riunitasi il mese scorso era composta da Rod Macdonell, Shawn McCarty e Guy Badeaux.

Vincitore 2013 Leslie Ricciardi



Grand Prize: Leslie Ricciardi (Uruguay)

The theme:
Il tema:
Hard times and free speech
Momenti difficili e la libertà di parola.

When journalists and cartoonist face economic uncertainty or threats to their employment, there is great pressure to give up on tackling tough stories, give in to self-censorship or give attention to sensationalist journalism in the service of commercial sustainability. But can free speech survive hard times?
Quando i giornalisti e i cartonists devono affrontare l'incertezza economica o la minaccia del posto di lavoro, vi è una forte pressione di rinunciare ad affrontare storie difficili, cedere all'autocensura o di dare attenzione al giornalismo sensazionalista al servizio della sostenibilità commerciale. Ma può la libertà di parola e di disegno(aggiungo io) sopravvivere ai tempi duri?





Second Prize: Dale Cummings (Canada)



Third Prize: Peter Chmela (Slovakia)



Awards of Excellence



Pierre Berthiaume (Canada)


Roger Tweedt (France)


Simone Orlandini (Italy)


Oleg Loktyev (Russia)


Faruk Soyarat (Turkey)


Hessam Dadkhah (Iran)


Kap (Spain)


Karry (Peru)


Stefano Antonucci (Italy)


Marc Pageau (Canada)

( fonte )
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Soddisfazione nel vedere due opere italiane nelle menzioni d'onore Stefano Antonucci e Simone Orlandini. Complimenti!

PS: ha partecipato anche l'amico Marco Tonus con una simpatica rielaborazione del mitico Snoopy, sempre alle prese con la macchina da scrivere.

World Press Freedom Day - Marco Tonus
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sabato 4 maggio 2013

Disegni per il 3 maggio, giorno mondiale per la libertà della stampa.

3 maggio giorno mondiale per la libertà di stampa
Ogni anno WAN-IFRA mette a disposizione una serie di disegni per promuovere Press Freedom Day mondiale, che i giornali possono pubblicare liberamente.
Quest'anno in collaborazione con Cartooning for Peace sono stati scelti questi:




Plantu: Having started medical school, Jean Plantureux moved to Brussels to attend drawing lessons at Ecole Saint-Luc founded by Hergé. In 1972 he joined the newspaper Le Monde with a first cartoon on the Vietnam War. From 1980 to 1986 he collaborated with the newspaper Phosphore and since 1991 he has been publishing a weekly page in L’Express. In 1992 he won the "Rare document award" at the Angers Festival du Scoop for managing to get signatures by Yasser Arafat and Shimon Peres on the same drawing. In 2006 Plantu turned the wish he shared with Kofi Annan into reality – a large number of cartoonists were brought together and Cartooning for Peace finally saw the light of day.


 
Boligan: Originally from Cuba, Angel Boligán Corbo graduated in Fine Arts in Havana in 1987. He has lived in Mexico since 1992, where he works as a cartoonist for the newspaper El Universal, the magazine Conozca Más and the political humour magazine El Chamuco. He also chairs the agency CartonClub (latin caricature club).

Hassan: Artistic director, graphic designer and freelance cartoonist, Hassan Karimzadeh works for several Iranian publications, including Etemaad-e Melli (Confidence of the People). Hassan was jailed in 1992 for having produced a caricature representing the Ayatollah Khomeini. After countless campaigns of protest, Lawyers Without Borders were able to get him released after two years in prison.

Zlatkovsky: Zlatkovsky Mikhail lives and works as a political cartoonist in Moscow. Between 1999 and 2001, he moved to the United States before returning to Moscow where he is artistic director of a publishing conglomerate. He has won more than 200 awards worldwide and is considered by his peers as one of the greatest among them. His drawings are large frescoes where he deals with the major themes of freedom and democracy. Today, he is forbidden to draw Vladimir Putin, which prompts him to miss the liberal era of Boris Yeltsin.



Boukhari: Baha Boukhari has been a cartoonist since 1964. Working mainly for Al-Ayyam newspaper in Ramallah since 1999, he participates in many debates in Jerusalem and has had several problems with Hamas as a result of his cartoons.
fonte per richiedere i disegni in alta risoluzione
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World Association of Newspapers (WAN) (Associazione mondiale della carta stampata) è un'associazione no-profit, non governativa costituita da 76 associazioni nazionali di giornalismo, 12 Agenzie di stampa, 10 organizzazioni regionali di media e redattori e giornalisti in 100 paesi.

Fondata nel 1948, l'associazione rappresenta più di 18 000 pubblicazioni in cinque continenti. I giornali rappresentano circa un business di 190 miliardi di dollari USA con 1,6 miliardi di lettori al giorno. I giornali veicolano pubblicità con la percentuale seconda al mondo (29,8%), superiore a bilancio combinato di radio, all'aperto (sul suolo pubblico ecc.), cinema, riviste e internet. Combinato con le riviste periodiche, la stampa è il mezzo di pubblicità più grande del mondo con una quota del 42 per cento.
Gli scopi principali sono:

  • difendere e promuovere la libertà di stampa e l'indipendenza economica dei giornali come una condizione essenziale per tale libertà.
  • sostenere lo sviluppo editoriale della carta stampata nel mondo e promuovere comunicazioni e i contatti tra i redattori di giornali di diverse regioni e culture.
  • promuovere la cooperazione tra le organizzazioni aderenti, a livello nazionale, regionale o mondiale.

sabato 20 aprile 2013

La Carta è Morta evviva la CartA di Maurizio Maggiani disegno di Marilena Nardi



La Carta è Morta evviva la CartA 
 
Italiani popolo di navigatori, non di lettori: in trent'anni dimezzate le copie di giornali


Maurizio Maggiani 

"Il Fatto Quotidiano", 18 marzo 2013
Magari non sarà bello dirlo proprio qui, su questo i giovane e speranzoso supporto di cellulosa editoriale, ma, sono più che certo che la storia della carta in generale e di quella stampata nel particolare, ecco, ciò che gli appassionati definiscono come l'era, o addirittura la civiltà della carta stampata, è finita, conclusa, estinta. Faccio una semplice, ragionevole constatazione sull'oggi e sul domani mattina. 
Innanzitutto e sopra ogni altra cosa perché imprimere informazioni su supporto cartaceo, e diffonderle con i collaudati mezzi di distribuzione perché giungano nei pressi dei potenziali interessati, è l'attività più straordinariamente antieconomica del sistema produttivo universale. La più dispendiosa e la più inefficiente. 
La carta è un manufatto molto costoso, lo è sempre stato e continua ad esserlo, anche se non si usano più stracci ma cellulosa e sono stati inventati degli alberi apposta,per fare molta cellulosa in poco tempo. Riciclare la carta, poi, costa più che coltivarla vergine. Infatti la carta fa sempre più schifo. Chi legge libri e giornali da un po' di tempo, sa quanto sia peggiorata la sua qualità negli ultimi decenni. Ovviamente la carta non serve solo per stamparci sopra, e gli industriali del ramo, dovendo lavorare sulla qualità si orientano sui prodotti cartacei dove possono provvedersi di maggiore guadagno. Infatti, decennio dopo decennio, migliora ad esempio la qualità della carta igienica, un mercato incomparabilmente più aggressivo e lucroso, dove la clientela non è disposta a tollerare i difetti del prodotto come invece assai generosamente fanno gli acquirenti di carta stampata. Quando ascolto lo straziato lamento di quegli appassionati della lettura che inorridiscono all'idea che un giorno non potranno più godere dei sensuale piacere indotto dai libri cartacei, e non potranno più in particolare, così riferiscono, gustare l'odore della carta, mi chiedo se si rendano conto che oggi la carta da stampa odora di indicibili eiezioni corporali, visto che è praticamente con quella materia che è prodotta. A tal proposito, non credo che circa la carta igienica si rifletta con la dovuta ponderatezza. A quel prodotto che siamo ormai abituati a considerare di primissima necessità, è destinata una gran fetta della cellulosa prodotta nelle apposite coltivazioni, e tra la migliore; per quel prodotto nei mercati ricchi l'uso della carta riciclata è ridottissimo, e chi incidentalmente ne ha fatto l'esperienza ne conserva un duraturo, spiacevole ricordo. 
ORDUNQUE, dei sette miliardi di umani abitatori del pianeta, a tutt'oggi almeno due non accedono a quel bene primario; Asia, sub continente indiano, Africa e persino America Latina, paesi sofferenti ma emergenti. Per quanto tempo ancora quei due miliardi di umani saranno disposti a provvedere altrimenti? Non è lecito pensare per molto. Un anno, tre anni, dieci? Poi, chi e come potrà negare loro il diritto a consumare carta igienica? Quanta? Essendo popolazioni di millenaria abitudine alla morigeratezza, non molta. Diciamo 5 segmenti giornalieri cadauno? Constatando le nostre abitudini di consumo, un metro al giorno è veramente un'inezia, ma facciamo che sarà così, magari con l'aiuto di apposite politiche repressive dei governi. Fanno venti milioni di chilometri di carta igienica da fabbricare in più ogni giorno. A questo aggiungerei la cellulosa necessaria alla fabbricazione di pannolini per l'igiene intima femminile e per neonati, a cui attualmente un miliardo di umani non ha costante e certo accesso, e anche se non è proprio giusto, lascerei al momento da parte, i fazzolettini per il naso, e le lacrime, a cui accede ancor meno umanità. E allora il giorno che il genere umano avrà finalmente accesso universale alla cellulosa per uso personale, il globo sarà interamente ricoperto da un manto di pioppi transgenici. E se mai volessimo conservare qualche boschetto e qualche parchetto, saremo chiamati a scegliere. Allora come sarà possibile contrastare chi vorrà tutelare i suoi a lungo vagheggiati cinque segmenti giornalieri e ci imporrà, a noi sperperatori di risorse, di scegliere tra boschetto e libretto? Tra brossura e parco? Non lo sarà, perché la carta da stampa è indifendibile. 
PARLIAMO DEI LIBRI, degli adorati volumi cartacei. Tanto per dire, il 15% del loro costo è dovuto alla carta e alla sua stampa, il 40% al sistema di distribuzione del prodotto stampato. Dopodiché, una volta distribuiti, l'80% di quei volumi viene reso all'editore e avviato al macero. Il solo fatto di dover tenere nei magazzini quella montagna di carta prima di essere distribuita e dopo che è stata resa, costa quanto il compenso che riceve l'autore delle parole che ci sono scritte dentro. Che senso economico ha tutto questo? Dov'è l'affare? E dove il rispetto delle limitate risorse? Non ce n'è. C'è solo un'industria tipografica e una editoriale, un sistema distributivo e di vendita destinati allo spreco, nutriti da costi intollerabili. 
Ma non tutto è materia, c'è anche lo spirito. Ed è disumano sottrarre allo spirito il nutrimento della saggezza libresca. Dunque non aboliamo i libri, e a tal fine, ringraziando Iddio, abbiamo a disposizione la sezione elettronica dell'editoria, l'estensione digitale" 

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La grande invenzione cinese
 DAL PAPIRO ALLE TAVOLETTE Gli antichi inventarono molti mezzi per riuscire a scrivere: dai rotoli di papiro alle tavolette di cera. La carta arrivò dopo. Secondo la tradizione, il primo a produrre la carta fu Ts'ai Lun, eunuco della corte cinese Man dell'imperatore Ho Ti. Correva l'anno 15 avanti Cristo. Il materiale usato dagli inventori della carta era molto verosimilmente la corteccia del gelso da carta (Brussonetia papyrifera) trattata e filtrata in uno stampo di bastoncini di bambù. Recenti ritrovamenti hanno portato alla luce enormi quantità di carta risalente al II secolo avanti Cristo. Dopo sei secoli, intorno al 610, la carta fu introdotta in Giappone e, intorno al 750, nell'Asia centrale. La carta comparve in Egitto all'incirca nell'800. 
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della pagina scritta, gli e-books. Una gran fortuna che li abbiano inventati in tempo. Personalmente sono anni che acquisto e leggo quella roba lì. Ed è come essere rinati, per diverse e straordinariamente felici e infelici ragioni. 
Ho cominciato a leggere sullo schermo a Ied del mio ipad senza avere un'ideologia alle spalle, ma spinto dalla necessità di vederci meglio. I miei occhi sono troppo poco specializzati per stare al passo con la politica di riduzione dei costi, e del nitore e del corpo di carattere, dell'editoria cartacea. A parte il disgusto per la polta cellulitica a cui sono ridotte le edizioni "dure" al pari delle molli, non avevo più occhiali buoni per una lettura anche solo decente. Adesso non solo mi scelgo il corpo che meglio mi conviene, ma, usando le opzioni tipografiche a disposizione, mi compongo sullo schermo l'edizione che più mi aggrada; adesso torno ai bei tempi delle edizioni da nababbi che manco mi potevo permettere, nell'età d'oro di Millenni e compagnia. Dire che anche l'occhio vuole la sua parte è un po' troppo riduttivo: la lettura è prima di ogni altra cosa, prima ancora di una faccenda dell'anima, una questione dell'occhio. E con l'acuirsi dei fatti artrosici, pure una questione di dolenti giunture degli arti superiori, che trovano non secondario sollievo dal peso assai ridotto di un lettore digitale rispetto alle suntuose edizioni di cui si diceva. 
NATURALMENTE più si riempie la memoria dell'ipad e più faccio spazio in casa mia. Non sono mai stato un esibizionista di interessanti librerie, affascinanti cataste di libri nel cesso, dotti cumuli di dispense sull'acquaio, ma adesso posso davvero pensare che quello che leggo è affar mio, nutrimento dello spirito e non delle relazioni sociali. Ora la mia biblioteca si sta facendo dovutamente interiore, custodita nel mio cuore e nel ben protetto cip di memoria dell'ipad. Non è poca cosa nell'epoca che ci consegna alla sobrietà come all'ultima delle virtù. Dopodiché, rinascendo, sono tornato ignorante, ma parecchio ignorante. Il fatto è che, così come parlo e scrivo, parimenti leggo in lingua italiana. È un limite, ma non arrivo al punto di ritenerla una colpa. Certo, è una magagna, visto che, differentemente dai parlanti e leggenti in inglese, tedesco, spagnolo, cinese, giapponese, coreano e francese la mia biblioteca digitale non può che essere ridicolmente limitata, appena sufficiente ad una frettolosa alfabetizzazione; non avessi letto qualcosina al tempo della carta ora non saprei quasi niente del mondo. Il fatto è che l'editoria nazionale non si è arrischiata ad investire capitali in un settore così incerto. Riferendo l'espressione di uno di loro, di uno dei lungimiranti, seppur avveduti, industriali dell'editoria: "abbiamo fatto i conti della serva". Non mi giunge nuova; gli industriali italiani dovrebbero farla incidere sul frontone della sede del loro sindacato la frase "Abbiamo Fatto i Conti della Serva". Fatto sta che i titoli digitali a disposizione in italiano sono pochi o niente. Zero in saggistica, zero virgola uno nei classici. Tanto per capire come suonano in moneta i conti della serva, si sappia che digitalizzare un libro a stampa, fosse pure Guerra e Pace, costa a voler esagerare un migliaio di euro, se il lavoro è eseguito a regola d'arte. E così ciò che si trova nel net sono le novità, dei maggiori editori, e un pochino di catalogo che era già disponibile sotto forma di file, ovvero, adatto per la versione digitale senza doverci spendere. In verità non è che sia disponibile tutto quanto ciò che sarebbe facilmente digitalizzabile. Non è disponibile, ad esempio, Infinite Jest di Wallace, mentre gli altri suoi titoli sì, come mancano alcuni dei titoli migliori di Philip Roth, e manca il mio amato Stephen King. Gli editori danno la colpa agli agenti italiani degli autori, che sarebbero smodatamente famelici. Non stento a credere cjje gli agenti letterari nazionali siano di indole predatoria, privi come sono per deontologia professionale di senso delle proporzioni, ma oso pensare che la battaglia che ingaggiano con gli editori sia una Ardenne delle serve. Ovviamente, nel solco dei conti serveschi, le edizioni digitali italiane costano mediamente di più, e anche molto di più, di quelle delle più fortunate e rifornite lingue già citate. Perché? Forse per la stessa ragione per cui in questo paese il latte per neonati o l'arnica per i dolori costano il doppio che in Germania? Forse. Oltre al tema della particolare venalità degli agenti letterari e dei loro autori, gli editori aggiungono che hanno investito parecchio nel settore, e ritengono che l'investimento non se lo devono tenere sul groppone solo loro, ma anche un pochino la spettabile clientela.

RISCHIO ESTINZIONE Prima i computer. Poi internet. E oggi il colpo quasi di grazia di app e tablet, sottili quasi come fogli. Ecco allora che la carta, ma soprattutto i libri e i giornali, sono entrati in crisi e devono ormai dividersi tra siti internet, edizioni cartacee e altre cosiddette pdf consumabili dal computer.                                                                                                                                            
È di pochi mesi fa la notizia che uno dei più noti giornali del mondo, il settimanale americano Newsweek, ha cessato di uscire in edizione cartacea per comparire soltanto online. È soltanto l'ultimo più clamoroso caso. Prendete l'inglese Guardian, quotidiano tra i più prestigiosi del mondo: le copie vendute in edicola sono calate da 380 mila (nel 2008) a 210 mila nel 2012. In compenso gli utenti unici dell'edizione online sono passati da 15 a 70 milioni nello stesso periodo. Calano i lettori e, in un circolo vizioso, anche la pubblicità (-8,7% in un anno in Italia). Il giornale più famoso del mondo, il New York Times ha registrato recentemente il sorpasso delle entrate da vendite rispetto a quelle prodotte dalla pubblicità: 233 milioni l'anno contro 220. Un segnale non positivo, ma almeno si registra un aumento degli abbonamenti, soprattutto online. Non accade a molti altri giornali. La situazione in Italia non è certo migliore che altrove. Basti pensare che negli ultimi trent'anni le copie di quotidiani vendute ogni giorno sono più che dimezzate. Nel 1983 gli italiani compravano ogni giorno oltre otto milioni di copie di giornali. Oggi sono scesi a meno di quattro milioni, ma si prevede che nel giro di altri cinque anni si assisterà a un ulteriore dimezzamento: due milioni di copie. Così qualcuno si aggrappa a proposte singolari: Grimsby Telegraph, giornale britannico, viene stampato su una       carta che, grazie agli additivi chimici, dovrebbe profumare di pane. circondariale.                                

 COMUNQUE io leggo giorno e notte, perché c'è tanto da leggere anche così; non leggo quello che vorrei ma solo quello che trovo. Anche il sommo Dante nei lunghi decenni dell'esilio non leggeva quello che gli sarebbe piaciuto ma solo quello che trovava in giro per le altrui scale. Compro gli e-books che leggo; non mi avvalgo della facoltà di sgraffignarli, se non altro per solidarietà con chi vive di diritti d'autore. Come il sottoscritto. Compro nei siti appositi. Quei siti sono la forma digitale delle odierne catene di librerie, e dunque brutti, scomodi, chiassosi, dispersivi, ignoranti. Si basano sul principio che vendere un libro o un videogioco sia la stessa menata, probabilmente perché i loro allestitori sono stati scelti tra i sagaci marketing dei video games. Un sito copia digitale di una bella, austera, confortevole classica libreria, ancora non l'ha costruito nessuno. Come a suo tempo le case discografiche, anche gli editori sono in preda alla paranoia per il pirataggio digitale, e se non trovano il modo di rilassarsi, sono destinati alla stessa dolorosa fine dei discografici. Perché i sistemi di protezione sono insultanti e creano un'infinità di contrattempi agli onesti, mentre sono sempre e comunque inefficaci con i ladri. Il più odioso e diffuso sistema di protezione consiste in questo capolavoro: io compro dall'editore e pago, l'editore consegna il mio acquisto alla ditta Adobe che lo critta ben bene e me lo restituisce, sempre se tutto funziona come dovrebbe, riservandosi di controllare i miei sistemi di lettura. Come se il mio libraio venisse a casa mia a controllare se per caso il libro che ho acquistato da lui lo stia per caso, leggendo anche la mia ragazza per chiedermi qualcosina in più. Come è nei conti della serva,gli editori per le loro edizioni digitali non si son messi d'accordo per un unico standard e un'unica crittatura, cosicché mi devo arrangiare con almeno tre diversi programmi di acquisto. Come se dovessi entrare in tre diversi negozi, tenere in casa tre diverse librerie, leggere in tre diverse stanze con tre diverse serrature. Mah, è più facile e sicuro acquistate sul internet un'arma letale e per strada un etto di coca. 

EPPURE all'edizione digitale non c'è alternativa. È così, come è stato così quando si è passati, con tutto l'umanissimo sconcerto degli utilizzatori e la comprensibile angoscia degli addetti al ramo, dalle tavolette di argilla al papiro, dagli amanuensi di Granada agli stampatori di Magonza. Come accadde allora, qualcosa del vecchio sistema rimarrà ancora per anni, decenni, forse secoli. Lussuose edizioni in carta uso mano per nababbi bibliofili, qualcosa di un po' più economico per gli amatori del ceto medio, cose più tecniche per le biblioteche e gli archivi. Ma inutile negare che per gli addetti al ramo, dagli operai tipografici ai distributori, sarà una strage. Non sono invece convinto che debbano straziarsi i librai, quei librai che sono veri librai. A parte le grandi catene, che potranno mettersi a vendere qualunque altra cosa, perché mai dovrebbero sparire le librerie indipendenti, le piccole, leggiadre, amabili librerie con dentro dei bravi, colti, affidabili librai? A chi ha bisogno di leggere, a chi ha voglia di leggere, saranno necessari in eterno e in eterno faranno piacere un luogo e un umano che gli offrano un servizio che i siti di vendita non sono interessati a dare e non possono offrire. Il servizio esclusivo del libraio, che non è quello di andare a prendere un libro da uno scaffale, ma è la competenza e la sensibilità intorno alle necessità e ai desideri del cliente. Un tutore? Un confessore? Un prosseneta? Sì, un libraio è quella roba lì. E può fare benissimo, e magari anche meglio, il suo mestiere in una libreria dove, assieme ai pochissimi, esclusivi acquirenti di opere cartacee di lusso, ce ne saranno molti che andranno in ambienti, tradizionalmente amichevoli e accoglienti come nessun sito potrà mai essere, a scaricarsi i libri sui loro tablet, ben disposti a pagare qualche centesimo in più in cambio delle sue intellettuali cure e premure. E comunque sia, come ci spiega quotidianamente il governo più amato dagli italiani, di carta non ce n'è più per nessuno. 

PUBBLICITÀ TORMENTONE La trovate ovunque su internet. Il marito che sbeffeggia la moglie basta post it sul frigo. Basta giornali. Basta libri a letto. C'è l'ipad. Ma poi, nel momento del bisogno, l'antica vecchia carta vince sulla tecnologia 


IL PRIMATO ITALIANO La carta arriva tardi in Europa, soltanto nel XII secolo, oltre un millennio dopo l'invenzione del materiale che rivoluzionerà la comunicazione umana. Ma la prima cartiera europea nasce in Italia, nel 1268, a Fabriano che per secoli resterà uno dei luoghi specializzati nella lavorazione della cellulosa. 
1268 SI APRE LA PRIMA CARTIERA D'EUROPA A FABRIANO IL RECORD AMERICANO L'Europa, nonostante la crisi, è ai primi posti nel mondo per il consumo della carta e dei suoi derivati con oltre 393 chilogrammi l'anno a testa. L'America anche in questo primeggia con 504 chili. Al terzo posto l'America Latina con 94 chili, quindi l'Asia con 90. In Africa il consumo è di 16 chili pro capite. 
393 KG IL CONSUMO DI CARTA PRO CAPITE L'ANNO IN EUROPA "Mi dispiace dirlo, ma la storia della carta stampata è finita. Imprimere informazioni sulla cellulosa e diffonderle con i collaudati mezzi di distribuzione perché giungano ai potenziali interessati, è l'attività più antieconomica del sistema produttivo universale. La più dispendiosa e la più inefficiente. Oltre che inquinante".


Maurizio Maggiani (Il Fatto Quotidiano, 18/3/2013)
Nel 1995 con "II Coraggio del pettirosso" ha vinto il Premio Mareggio e il Premio Campiello; nel 1998 con "La Regina disadorna" il premio Alassio e nel 1999 il premio Stresa di narrativa e il Letterario Chianti. Nel 2005 il premio Strega con il romanzo "II viaggiatore notturno" tutti editi da Feltrinelli. Oltre all'attività di scrittore collabora con "II Secolo XIX" e "La Stampa".

sabato 22 dicembre 2012

La crisi di Pubblico travolge gli amici vignettisti

merda

o per dirla più elegantemente, pupù
il nome di un giornale nato morto
una bella cosa
morta
neanche il tempo di formulare una promessa
figuriamoci mantenerla
belle firme bella gente bei pensieri
di sinistra
quella che tutela i lavoratori
che ricorda l'articolo uno
della costituzione più bella del mondo
una costituzione da 5.800.000 euro a puntata
a un comico di sinistra
che ha avuto in braccio berlinguer
perché il lavoro va pagato
sempre
quasi sempre
a volte
se insisti se pretendi se hai quel sano senso pratico
se non pensi stupidamente che chi te lo propone
il lavoro
poi debba ricompensarti col  giusto
senza che tu lo chieda
figuriamoci un direttore di sinistra di un giornale di sinistra
ero al suo funerale
ma berlinguer non l'ho potuto prendere in braccio
piuttosto ho mia figlia
alla quale cerco di spiegare perché
questi disegni
che lei ha visti nascere
per i quali mi ha fornito consigli
ha visti stampati
col suo cognome impresso su un lato
perché non saranno pagati
perché non lo saranno
eppure sa che viviamo di questo
non potrà capirlo
forse non è abbastanza di sinistra
dovrò lavorarci
ora
prima che vada ad iscrivermi ad alba dorata
ecco le tavole realizzate
sui bei testi di francesca fornario
che ringrazio
in attesa di occuparci ancora insieme di bellezza














22/12/2012
Fabio Magnascciutti


 Dalle pagine di FB:
 Ho raccontato più volte sulle pagine di «Pubblico» il dramma del lavoro precario in un paese il cui presidente del consiglio sentenzia che «Il posto fisso è monotono» un secondo dopo aver accettato la nomina di senatore a vita (Il posto fisso è monotono? Lo racconti ai precari che tentano di farsi prestare i soldi da una banca per comprare un monolocale! Ieri nella mia filiale sono entrati quattro precari armati, con le maschere dei presidenti americani Regan, Carter, Nixon e Johnson: volevano chiedere un mutuo. Il posto fisso è monotono?! Parla lui che è sposato da 40 anni! Abbiamo opinioni molto diverse riguardo al concetto di «monotonia»). Ho raccontato su Pubblico il dramma dei consulenti, delle finte partite Iva pagate con un ritardo che una volta era di 60 giorni, poi di 120, ora, mediamente, si viene pagati nella prossima vita (se l’ultimo bonifico che hai ricevuto era in sesterzi significa che nel 30 avanti Cristo eri un consulente.
E sono andata in giro per l’Italia, gratis, mettendoci la mia faccia, a raccontare quanto ero orgogliosa di collaborare per un giornale che avrebbe pagato tutti i collaboratori e degnamente, perché il lavoro va pagato. Così non è stato. Dunque, pur dovendo rispettare un contratto che mi obbliga a scrivere un corsivo satirico al giorno (questo), sono alquanto in difficoltà a fare satira su chi sfrutta il lavoro su un giornale che sfrutta il lavoro. 


Anche se l'azienda non è ancora inadempiente nei miei confronti, rescindo il mio contratto di collaborazione con Pubblico, perché il mio lavoro vale quanto quello dei miei collaboratori Fabio Magnasciutti, Valeria Petrone, Gavagnin Marco, GianLorenzo Ingrami e quello del generoso capitano @bruno tognolini che con me hanno dato vita a «Pupù, il giornale che fa nascere i fiori». Ringrazio le belle persone che ho incrociato, su tutte Paola Natalicchio Mariagrazia Gerina, Luca Sappino, Simone Salis, Boris Sollazzo, Marco Filoni Pasquale Videtta e tutte le altre che fb non mi fa taggare. Ringrazio tutti i lettori, di tutte le età. Spero di incrociarvi ancora, lavorare con voi è un privilegio e una gioia. Buona fortuna, così è la vita (21/12/12
Francesca Fornario 


Bertolotti e DePirro


   La situazione economica della testata Pubblico diretta da Luca Telese, è tanto grave da rischiare la liquidazione immediata.

Lunedì scorso lo sciopero  e il comunicato stampa.

 Riporto di seguito alcuni estratti del comunicato dell'assemblea dei redattori:
"Nelle ultime ore l’azienda, con una tempistica inaccettabile, ci ha comunicato che la tenuta economica è grave al punto da palesare già nei prossimi giorni uno scenario di messa in liquidazione della Pubblico edizioni srl. E tutt’ora non abbiamo nessuna certezza né garanzia su cosa verrà dopo. Di sicuro non accettiamo di essere liquidati in modo così brutale. Qualsiasi decisione dovrà avvenire nel confronto con la redazione e le rappresentanze sindacali."
"Davanti abbiamo mesi cruciali e una campagna elettorale decisiva per il futuro del Paese. Noi vogliamo esserci. E per esserci abbiamo il dovere di far fronte alla situazione di difficoltà che il nostro giornale vive in queste ore con la stessa dignità e lo stesso coraggio delle persone che abbiamo raccontato in questi mesi. Lo dobbiamo a loro. E lo dobbiamo a noi stessi, che in questo progetto abbiamo investito tutto. Vogliamo continuare a crederci. Ai lettori chiediamo di sostenerci scegliendo questo giornale ogni giorno. Ma lunedì 17 dicembre 2012 nelle edicole Pubblico non ci sarà. Mentre il sito domenica 16 non è stato aggiornato. Scioperiamo in difesa del nostro lavoro, di queste pagine e della possibilità di continuare a scriverle, senza perdere diritti e dignità.
L’assemblea dei redattori di Pubblico."

martedì 27 marzo 2012

Monti con tanto di vignetta sull' Economist

Monti ed il diritto del lavoro
Peter Schrank 24/03/2012
Peter Schrank ritrae Monti alle prese con un aggrovigliato mucchio di spaghetti (Art.18) sul cui piatto
c'è la scritta Labour Laws (diritto del lavoro) per The Economist il 24 marzo scorso.
la notizia

Yet whatever the merits of his latest reforms, they set a precedent. Italians have glimpsed a style of government that does not aim for consensus, and that acknowledges opinions but not vetoes. Paradoxically, it has taken a mildly spoken economics professor to give Italy the political leadership it has lacked for so long.

PS: ancora stereotipi in questa vignetta ; spaghetti e fiasco di vino.

mercoledì 1 febbraio 2012

Stereotipi, razzismo ed europei.

Stereotipi
Gianfranco Uber

Si è parlato con molto clamore nei giorni scorsi, del giornalista dello Spiegel,Jan Fleischhauer,
che si domandava, se un capitano inglese o tedesco, avrebbe mai abbandonato una nave, come ha fatto Schettino:
" Hand aufs Herz: Hat es irgendjemanden überrascht, dass der Unglückskapitän der "Costa Concordia" Italiener ist? Kann man sich vorstellen, dass ein solches Manöver inklusive sich anschließender Fahrerflucht auch einem deutschen oder, sagen wir lieber, britischen Schiffsführer unterlaufen wäre?"
Non si prendeva,  nemmeno in considerazione, la possibilità che esistano, inglesi e tedeschi paurosi e italiani coraggiosi, ma che solo gli italiani possano essere così codardi, salvo poi un po' ipocritamente lamentarsi che
gli stereotipi sono duri a morire.
I titoli poi di Libero e la copertina del  Giornale, purtroppo sono stati squallidi come l'articolo dello Spiegel.
 L'articolo sembra non fosse stato tradotto correttamente e si volesse parlare solo di stereotipi e che quindi la polemica italiana fosse tutta una bufala. L'ambasciatore italiano, ha scritto una lettera alla direzione del giornale, e c'è chi dice che se la poteva risparmiare mentre per altri ha fatto addirittura troppo poco, tanta è l'indignazione italiana.
Lo Spiegel purtroppo non è nuovo a campagne anti-italiani, famosa, è una sua copertina raffigurante una pistola fumante sopra un piatto di spaghetti altrettanto fumante (foto in fondo al post). E neppure Libero ed Il Giornale danno splendidi esempi di democrazia visti gli articoli che pubblicano spesso sulle loro pagine.

Mentre imperversa la polemica  6 giornali, famosi quotidiani europei The Guardian, Le Monde, La Stampa,  Suddeutsche ZeitungGaceta Wyborcza , El Pais,  per il  Progetto Europa  chiedono a 6 giornalisti ed a 6 disegnatori, dei loro staff  di individuare gli stereotipi del proprio paese, per sfatare i pregiudizi. Qui di sotto, prediligendo per il mio blog, la parte grafica,  riporto le sei vignette ed i link per chi volesse leggere gli interessanti articoli.


AUREL (LE MONDE)

British stereotypes: do mention the war, please!

 scritto da  Jonathan Freedland di The Guardian
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PAUL BOMMER (THE GUARDIAN)
French stereotypes: arrogant and good in bed? Bien sûr!
scritto da  Jean-Michel Normand di Le Monde


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CHIOSTRI (LA STAMPA)

German stereotypes: Don't mention the towels

scritto da  Rainer Erlinger del Süddeutsche Zeitung
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FORGES (EL PAÍS)
Italian stereotypes: yes, we are all individuals!
scritto da Massimo Gramellini della La Stampa
"Il nostro peggior difetto lo avrai (o lo avrete) intuito leggendo questo articolo, è l'auto-compiacimento"(M. Gramellini)
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OLIVER SCHOPF (SÜDDEUTSCHE ZEITUNG)

Polish stereotypes: hard-drinking Catholic zealots? Nie!

scritto da  Adam Leszczynski per Gazeta Wyborzca
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JACEK GAWLOWSKI (GACETA WYBORCZA)

Spanish stereotypes: statistics tell us they have Mondays, too

 scritto da Carmen Moràn di El Pais.
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 The Guardian ed El Pais riportano tutti i sei articoli. Sotto ai disegni ho messo i link delGuardian
e qui di seguito quelli in spagnolo di El Pais
Repasa en estos artículos seis estereotipos europeos:
»También hay lunes en España
»Reino Unido, vivir de las glorias pasadas
»Los alemanes y las toallas en las tumbonas
»Italianos: Valientes, no, pero sí astutos
»¡Cuidado con la vanidad francesa!
»Polacos: más católicos que creyentes

Ma cos'è il  Progetto Europa?

Sei paesi, sei quotidiani, milioni di lettori.
Una Europa.
L'Unione europea è alle prese con la sua più profonda crisi in 60 anni, un malessere che va oltre la debacle dell'euro e la marea di un enorme del debito che sta inondando il continente. L'unione sembra esaurita. L'espansione è a un punto morto. Rallentamento delle economie dell'UE sono eclissata da rivali in Asia e America Latina. "Bruxelles" è diventata una parola sporca, non più solo in Gran Bretagna. l'euroscetticismo è in aumento in tutto il continente. Il tabù è stato sollevato su stereotipi nazionali e capro espiatorio - Greci pigri, tedeschi prepotenti, sciovinisti francesi, inglesi altezzosi. In questa congiuntura critica, sei principali quotidiani dei più grandi paesi dell'Unione europea si sono riuniti in un progetto comune per costruire un quadro più sfumato dell'UE ed esplorare ciò che l'Europa fa bene e cosa non così bene. Cominciamo indagando i benefici l'Unione europea ha portato a 500 milioni di persone e poi oggi esaminare i leader nazionali lavorando per guidare fuori delle sue difficoltà attuali. Domani guardiamo euroscetticismo e stereotipi nazionali. Alla fine della settimana, si può prendere il nostro test "Come europei si sono" e vedere come te e gli altri europei rango lettori.
(fonte The Guardian)


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Le considerazioni di Carletto Darwin, un manager italiano che risiede da molti anni in Germania

Tuesday, January 24, 2012


Farsi prendere la penna

Un giornalista di Rep legge un po' al volo un articolo di Der Spiegel e ne trae tutta una serie di considerazioni razziste e contro razziste.
Che era proprio quello che voleva dire l'articolista teutonico: ci sono regole politically correct e poi nella vita quotidiana ci si scontra contro i pregiudizi, dal capitano della nave fino alla questioni economiche. E che, anche a identificare differenze climatiche o di cultura, se ci si allontana troppo dalle differenze che pure ci sono, si cade in una situazione culturalmente ingestibile.
L'articolo di Rep. è veramente pessimo. (fonte)

L'opinione di Ferdinando Camon


 Giornata della Memoria: Razzismo tra noi e contro di noi
Quotidiani locali del Gruppo "Espresso"-"Repubblica" 27 gennaio 2012 
Quando un leghista canta (i vertici della Lega, deputati e senatori, l’han fatto in tv): “Senti che puzza / scappano anche i cani, / sono arrivati / i napoletani”, fa una graduatoria: prima i cani, poi i napoletani. I napoletani fanno schifo ai cani. Quindi, a maggior ragione, fanno schifo a noi. È razzismo. I napoletani fanno schifo come razza, come sono per natura, non per storia. Un senatore che canta così dovrebb’essere espulso dal senato. Ma non succede. Dunque si può inneggiare al razzismo in tv, senza che scatti una punizione. Siamo nella Giornata della memoria, il 27 gennaio è il giorno in cui quattro soldati a cavallo dell’Armata Rossa entrarono nel Lager di Auschwitz, e l’umanità ha scelto questo giorno perché vi si ricordi lo Sterminio, figlio del razzismo. Noi italiani abbiamo inventato il fascismo, che fu il maestro del nazismo. Dovremmo stare attenti al razzismo non nel suo stadio finale, lo Sterminio, perché quando si è in quello stadio è troppo tardi, ma nel suo stadio iniziale, la predicazione dell’odio, del disprezzo e della calunnia. Noi italiani in questo stadio dell’odio-disprezzo-calunnia ci siamo. La Giornata della Memoria dovrebbe ricordarcelo. Perché non deve ricordare soltanto l’eliminazione degli ebrei, ma anche la loro ghettizzazione e la loro conversione coatta: le tappe che hanno portato all’eliminazione. Non si può più credere che tutto sia cominciato con Hitler. Questo lo credevano alcuni ebrei illustri, anche Primo Levi. È una visione “corta”, miope, della storia. Da vent’anni alcuni storici illustri ricordano come il rapporto con gli ebrei abbia conosciuto diverse tappe, a partire da quella in cui si diceva agli ebrei (l’ho già ricordato qui): “Potete vivere in mezzo a noi, a patto che diventiate come noi”, cioè vi convertiate. Era l’epoca delle conversioni coatte. Seguì l’epoca della separazione: “Non siete diventati come noi, andate a vivere da un’altra parte”, cioè nei ghetti. Hitler è venuto secoli dopo per concludere: “Né fra noi né lontano da noi, non potete vivere da nessuna arte, dovete morire”. Quest’ultima tappa non sarebbe stata possibile se non ci fossero state le tappe precedenti. Per evitare l’ultima, bisognava evitare le prime. L’errore che causa tutto è quando si tollera. Io non so come finirà la storia del console italiano a Osaka, filmato mentre in un concerto rock fa il saluto fascista e canta inni fascisti. È stato richiamato in patria, adesso è a Roma. Si difende dicendo che quando cantava quegli inni fascisti era fuori servizio. Inammissibile. Non si tratta di vedere se uno “fa” il fascista, ma se “è” fascista. È stato commesso un errore a monte: un fascista non doveva avanzare nella carriera diplomatica, non può rappresentarci nel mondo. Il presidente del governo iraniano ripete che l’“entità ebraica”, Israele, va distrutta. Sta lavorando alla bomba atomica per questo. L’umanità ha un problema: come impedire la costruzione di quell’atomica. È difficile fermare quel presidente. Bisognava evitare che diventasse presidente. Ma lo è diventato perché quel che sostiene è in linea con l’opinione pubblica ufficiale del suo paese: dove si dichiara che lo Sterminio non c’è mai stato, è un trucco degli ebrei. E’ quel che sostiene il presidente turco nei riguardi degli armeni. Questa è ignoranza. L’eterna madre di ogni razzismo. La Giornata della Memoria serve a combattere il razzismo combattendo l’ignoranza. È l’unica strada, non ce ne sono altre. Il giornale tedesco “Der Spiegel” vorrebbe cacciarci dall’Europa: “Si può fidarsi di un popolo di Schettini? Schettino è il perfetto italiano, potete immaginare che fosse un tedesco? Merita di stare in Europa un popolo che ha fatto Napoli?”. È un razzismo idiota. E sarebbe idiota rispondergli: si può fidarsi di un popolo che ha ucciso e bruciato 6 milioni di ebrei? Merita di stare in Europa un popolo che ha fatto Auschwitz? Ieri usciva un sondaggio in Germania: sotto i 35 anni, un tedesco su 4 non sa cos’è Auschwitz, mai sentito. Oggi è la Giornata della Memoria. Funziona se entro sera quel 25 % di giovani tedeschi finalmente sa. Soltanto dopo potranno dirsi europei.

Le copertine:

Der Spiegel -luglio 1977
Il Giornale- 27 gennaio 2012
LINK:

How European are you? (interactive quiz)
L'ITALIANO (STEREO)TIPO SECONDO BERLINO(Gian Antonio Stella)
 Gli stereotipi nella stampa europea
Spiegel online: "Ma vi sorprendete che il comandante fosse un italiano?"(la Repubblica)
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Sempre di FANY-BLOG ti può interessare:
Elchicotriste alla ricerca degli stereotipi 'in peace'!

sabato 6 agosto 2011

Omaggio a Giuseppe D'Avanzo


OMAGGIO A GIUSEPPE D'AVANZO
Pubblicato da Grieco -http://www.coriandoli.it/vignette.aspx?sezione=satira&categoria=&view=

Giuseppe D'Avanzo (Napoli, 10 dicembre 1953 – Calcata, 30 luglio 2011) è stato un giornalista e scrittore italiano, firma del quotidiano la Repubblica.
Queste le sue inchieste più famose:
  • Il "Nigergate" - che vide approdare nel discorso sullo Stato dell'Unione di George W. Bush la falsa notizia del tentativo di Saddam Hussein di acquistare uranio del Niger, del tipo "yellowcake" - fu da lui ricollegato a un dossier costruito a Roma in ambienti contigui ad ambasciate africane e al Sismi, il servizio d'intelligence militare italiano (ma un anno prima, luglio 2004, Daniele Luttazzi aveva proposto lo stesso collegamento in un articolo pubblicato dal mensile Rolling Stone).[1]
  • Il rapimento di Abu Omar fu da lui ripetutamente ricollegato non solo a un'attività clandestina della CIA in territorio italiano, ma a una vera e propria operazione congiunta degli statunitensi con il Sismi: la pubblicazione di indizi in tal proposito si valse delle prime indagini condotte dalla Procura di Milano, ma parve anche indirizzarle in un feedback alquanto inusuale, accennando alla possibilità che la rilevazione satellitare delle utenze di telefonia mobile dei rapitori indicasse che sul luogo del rapimento vi fossero anche agenti italiani.
  • Scandalo Telecom-Sismi: La strada così aperta condusse all'individuazione della sinergia illecita tra il cosiddetto "Tiger team", una squadra di esperti informatici della Telecom-Italia e Sismi, che si sarebbe svolta sia per depistare le precedenti indagini, sia per mettere sotto controllo una serie di personaggi pubblici italiani. L'indagine in proposito è ancora in corso, ma le notizie sul "centro d'ascolto" di via Nazionale si sono arricchite nel 2006 della novità che lo stesso D'Avanzo sarebbe stato tra gli intercettati.
  • Il caso delle "dieci domande" al Presidente del Consiglio, inaugurato dalle rivelazioni di Conchita Sannino della redazione partenopea di Repubblica in merito alla partecipazione di Silvio Berlusconi alla festa di compleanno di Noemi Letizia, una diciottenne di Portici, e, dopo la seconda lettera pubblica di Veronica Lario, oggetto di uno "speciale multimediale"[2] curato da D'Avanzo per rimarcare le presunte incoerenze nella ricostruzione pubblica della vicenda.
  • Il caso delle "escort di Tarantini", saldato alla precedente inchiesta dalla decisione di Ezio Mauro di trasporvi parte delle domande rivolte dal suo giornale al Presidente del consiglio.
fonte Wikipedia

Riporto qui un articolo di D'Avanzo sul rugby. I giocatori di rugby sono leali, fanno squadra e non ammettono pastette.

Giuseppe D'Avanzo e il rugby per salvare l'Italia

Noi appassionati del rugby - diversi e un po' sfigati come può esserlo in Italia chi non ama il calcio - abbiamo un sogno: vedere l' 8 settembre a Marsiglia, quando l'Italia giocherà con gli All Blacks la partita di esordio dei Mondiali, il premier, il leader dell' opposizione. Perché no?, il capo dello Stato. In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese. Per un motivo elementare: abbiamo la convinzione che l'Italia abbia bisogno del rugby; che i princìpi del rugby consentano di guardare meglio lo «stato presente del costume degli italiani».

Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l'Italia. È un mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno esattamente di che cosa si tratta. È un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo. Dalla sua, il football può vantare moltissimi scrittori che si sono misurati con quest'impresa. Qui da noi con il rugby si è misurato soltanto, che io sappia, Alessandro Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che, per noi del rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di quelle cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne conoscono le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da psiche cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della scrittura. Mi sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco che nel rugby è chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa contestare l' accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il rugby. 

Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico. L'omogeneità dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di Braque mi appare l'immagine rovesciata del rugby dove i giocatori devono irrompere continuamente nello spazio altrui. Il fatto è che faccio molta fatica a vedere nella leggiadria nuda e molle de Les demoiselles d'Avignon di Picasso l' di una "linea trequarti", nella certezza che non si possa trattare di un "pacchetto di mischia" (gli "avanti" hanno troppo da fare là sotto per essere leggiadri). Soprattutto i tempi non tornano. 

Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d'Automne, il rugby era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è vero che uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d' irlandese di William Webb Ellis - nel Bigside della "pubblic school" di Rugby - di afferrare la palla con le mani e di non giocarla con i piedi, il 1 novembre del 1823. Qualcosa sulla natura del gioco vorrà, dovrà pure svelarsi se è nato nel terzo decennio dell' Ottocento e non nel primo del Novecento. La differenza - mi pare - è addirittura decisiva per comprendere quale cultura, nella sua fase originaria, sia custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel 1823 in Inghilterra è in corso una rivoluzione. 

Il Paese - il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia - è "l'officina del mondo", un vortice impetuoso di scienza, tecnologia, industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le antiche demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori nelle campagne e artigiani nelle città. La forza di quel processo di modernizzazione in movimento in quegli anni divide più che unire. Nella grande Isola, scrive Benjamin Disraeli, ci sono "due Nazioni": «Non vi è comunità in Inghilterra. Crediamo di essere una Nazione e siamo due Nazioni sullo stesso territorio, due Nazioni ostili nei ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui qualche eco della nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci). 

Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare ragioni comuni, l'urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi, medici, funzionari dello stato, scienziati che sappiano - sì - lavorare con efficienza, ma siano anche consapevoli dell' interesse pubblico e dotati di "buone maniere". In questo bisogno prende forma l'idea di Thomas Arnold, preside della Rugby School, l'autentico padre del gioco, al di là del mito fondativo che fa di William Webb Ellis l'eroe. Egli immagina un nuovo modello educativo fondato su una "cristianità energica", sul servizio alla collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una formazione innervata da valori che, senza rallentare "l'officina del mondo", cancelli la frattura che si è creata tra le "due Nazioni" con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più "inconciliabile", ma condiviso. (Quanto questo sia necessario - oggi - all' Italia è inutile dire). 

Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale in questa missione. Il corpo lo si può dire veramente "formato", conclude, soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della "formazione morale". Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l' avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare serenamente e senza alibi l'esito della competizione. Una partita - soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby - apre il solco entro cui si definisce un ethos, un'idea di gentleman, un modo di stare al mondo e con gli altri. Offre la possibilità di dimostrare forza d' animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quella etica del fair play, che trova il suo slogan nell'esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo

Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di "follia", di "caos", di «una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l'area di meta e schiacciarvi l'ovale. 

Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l' apparenza, è l'esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture. 

Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l'odio è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l'arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l'ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L'inventiva e mai la preparazione. Il "miracolo" e mai l'organizzazione. L'individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del "gruppo chiuso" e mai il desiderio di farsi stimare da chi al "gruppo" (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l'ammirazione che suscita nell' avversario. Il rugby - la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine - spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme. 

Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all'identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla. L'appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l' 8 settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man! 

Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica





D'Avanzo e il motto del rugby

Articolo di Massimo Bordin pubblicato su Il Riformista, il 02/08/11

Non avevo mai letto un articolo di Giuseppe D'Avanzo sul rugby, di cui era grande appassionato. L'ho sentito leggere ieri al funerale laico di Peppe da Bruno Arpaia, uno scrittore suo amico. Quell'articolo mi è servito a capire una cosa in più. Non quanto fosse bravo D'Avanzo a scrivere, perché lo sapevo già. Nemmeno che lo sport sia una metafora della vita, perché questo è quasi un luogo comune.

L'elogio che D'Avanzo fa del rugby in quell'articolo è in realtà una affilata disamina dei nostri vizi nazionali. Uno sport che ha poche e semplici regole, infrangere le quali ha poco senso. Non c'è spazio per la furbizia né per estenuanti contestazioni e recriminazioni, anche perché la forza dello scontro fisico è ammessa e regolamentata al minimo indispensabile. Non c'è spazio per la furbizia e il dolo ma solo per la lealtà. Non c'è spazio per il funambolo ma solo per la squadra. Non ci si salva con un colpo di genio o di fortuna ma solo con l'organizzazione e l'altruismo. Insomma i valori del rugby sono l'esatto contrario di come si vive da noi la politica e non solo essa. Siamo un paese malato di calcio e di moviola. Ascoltavo quell'articolo e pensavo quante volte, anche molto recentemente, sui giornali vicini al governo si sia tessuto l'elogio di Berlusconi proprio come l'uomo che ha saputo portare in politica lo spirito, anzi il sogno del calcio. E pensavo che c'entrano fino a un certo punto le leggi ad personam o il "giustizialismo ", il partito di plastica o il giornale partito. Aiuta molto più il motto del rugby: «Gioca e sii uomo». Che è poi quello che ha fatto D'Avanzo, finché il suo cuore ha retto. (fonte)
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi_8-lpZKJ6Hv0s-3e8XEuJq4ivvz9g-gH2lA33w6QmhUEQ_3Ar2DYRNAOQnwp7KbvR_KQ1dpYFrQW8sjSN0jLO1Bra-B4iZp64T7F4QrNM82DwZaAXBTc04zsF2ZALzbUmFGgxlMV4jkxJ/s1600/v2246.jpg
Tutti...tranne uno - Paride Puglia
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjHrSlgTcwMYUdkeNmFPxI0l9WV2UZ21VbjLJCIkB3dwSnKGHeJl1fqc2d04YfXPSnZ9IZyq-l0yHm22MWoanIoud06iwSpZdRjqsZ0GFdRO3_qywvdwdt0qmhUmYn6UZwxbmrGB4Iy_ic/s1600/r.i.p.davanzo.jpg
Signor Stalin
Morto il giornalista Giuseppe D'Avanzo.
Pubblicato da Marco Tonus


Link:

Giuseppe D'Avanzo, le grandi inchieste
"Ecco che cosa mi ha insegnatol'amicizia con Peppe D'Avanzo"(Roberto Saviano)