Visualizzazione post con etichetta cultura. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta cultura. Mostra tutti i post

lunedì 17 novembre 2014

Ritratto di Gioacchino Lanza Tomasi

 Il 12 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Gioacchino Lanza Tomasi




Gioacchino Lanza Tomasi: "Tutti i fantasmi del Gattopardo sono qui a farmi compagnia"

Una vita accanto al padre adottivo, Tomasi di Lampedusa, che si ispirò a lui per il personaggio di Tancredi. Ma le sue vere ossessioni erano il teatro e la drammaturgia
di ANTONIO GNOLI

CAPITA , a volte, di chiedersi cosa vuol dire vivere nella vita di un altro. Abitarla, come si abita una stanza, una tana, uno spazio vuoto che si riempie degli enzimi della conoscenza. E una risposta plausibile è quella che si appella al sentimento del sacrificio o alla dedizione a una causa. Si diventa custodi di una storia, di una biografia con la quale si cresce e ci si confonde.

Quel divario iniziale che distingueva dall'altro si attenua fino, in certi casi, a sparire. Fino a non sapere se sei ancora tu o l'altro.
Colgo un pensiero che alla fine di una intensa conversazione Gioacchino Lanza Tomasi formula così: "Nel momento in cui ho avuto l'impressione di essere stato emarginato, e perfino trattato come un paria, non mi è restato che attaccarmi alla memoria. Così come ci si attacca al cannello di ossigeno. Respiro. Sopravvivo. E i ricordi vanno, con gratitudine, al principe, a lui che ha abitato parte di questo palazzo e reso a suo modo immensamente celebre e terribile questa terra. La mia terra".

mercoledì 12 novembre 2014

Ritratto a Enzo Ragazzini

 Il 5 ottobre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Enzo Ragazzini








Ragazzini: "Io, reporter sull'isola di Wight, ai Beatles ho preferito la realtà"

Parla il fotografo che nei lontani anni Settanta era andato al seguito di Franco Basaglia per visitare i manicomi del Sudamerica: "Il mio metodo era speciale. Da A sangue freddo di Truman Capote ricavai la tecnica di montaggio. Pensai che non aveva senso andare in giro a fotografare un quartiere in modo casuale. Scelsi un personaggio. Una prostituta. Si chiamava Enzina. Fotografai tutto quello che era il suo mondo"
di ANTONIO GNOLI 

 IL NOME dirà poco. A me quasi nulla. Tranne il vago ricordo di un fotografo che nei lontani anni Settanta era andato al seguito di Franco Basaglia per visitare i manicomi del Sudamerica.

martedì 11 novembre 2014

Ritratto di Mario Andreose

Il 22 settembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Mario Andreose


Andreose: "Il mondo dell'editoria sta sparendo
salviamo ciò che abbiamo imparato"

Gli inizi da correttore di bozze, la gavetta e la direzione dei gruppi più importanti Il rapporto con Moravia, Mondadori e Umberto Eco. I ricordi "e qualche rimpianto" di un uomo del libro
di ANTONIO GNOLI

NEL mondo editoriale, Mario Andreose, ottant'anni compiuti da poco, appare come un'eccezione. È ancora sulla breccia, come usa dire. Lavora per la Bompiani, segue come un'ombra tutto ciò che fa Umberto Eco. Ed Eco non fa nulla senza la presenza di quest'ombra. Discreta, rarefatta, impalpabile. Frutto di un'inclinazione che ha portato Andreose ad essere sempre un passo dietro le luci della ribalta: "Ho lasciato il protagonismo fuori dalla mia vita. Faccio questo mestiere da troppo tempo  -  direi da sessant'anni  - 

lunedì 3 novembre 2014

Ritratto di Mario Tronti

 Il 28 settembre  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
Mario Tronti






Mario Tronti: "Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del '900"
È stato comunista teorico dell'operaismo, critico del Sessantotto e ora teologo della politica deluso dalla Storia I ricordi, le battaglie e i rimpianti del filosofo

di ANTONIO GNOLI


SOTTO la suola delle sue scarpe è ancora riconoscibile il fango della storia. "È tutto ciò che resta. Miscuglio di paglia e sterco con cui ci siamo illusi di erigere cattedrali al sogno operaio ". Ecco un uomo, mi dico, intriso di una coerenza che sfonda in una malinconia senza sbavature. È Mario Tronti, il più illustre tra i teorici dell'operaismo. Ha da poco finito di scrivere un libro su ciò che è stato il suo pensiero, come si è trasformato e ciò che è oggi. Non so chi lo pubblicherà (mi auguro un buon editore). Vi leggo una profonda disperazione. Come un diario di sconfitte scandito sulla lunga agonia del passato che non passa mai del tutto, che non muore definitivamente. Ma che non serve più.

"Sono gli altri che ti tengono in vita", dice ironico. Quando la vita, magari, richiede altre prove, altre scelte. Forse è per questo, si lascia sfuggire, che ha cercato un diversivo nella pratica del Tai Chi: "I gesti di quella tecnica orientale rivelano, nella loro lentezza, un'armonia segreta. Tutto si concentra nel respiro. L'ho praticato per un po'. Con curiosità e attenzione. Ma alla fine mi sentivo inadatto. Fuori posto. L'Oriente esige una mente capace di creare il vuoto. La mia vive di tutto il pieno che ho accumulato nel tempo".

Come è nata la curiosità per il Tai Chi?

martedì 7 ottobre 2014

Ritratto di Ruggero Savinio

 Il 31agosto  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Ruggero Savinio




Ruggero Savinio: Io, "figlio di" e "nipote di" ho ereditato 
le loro ossessioni

Il padre era Alberto, lo zio Giorgio de Chirico. Nonostante questo peso ha deciso di seguire 
la stessa strada. Tra ricordi di Parigi e di amici perduti, racconta "la stagione dei superuomini", 
ormai finita
di ANTONIO GNOLI
La verità ha sempre qualcosa di impassibile. Un po' come la grande arte. Dove mi trovo, 
nell'ampia casa di Ruggero Savinio, in un quartiere popolare di Roma (non distante da piazza 
 Vittorio) penso, istintivamente, che ci voglia molto coraggio ad affrontare la verità di un passato familiare segnato dalla presenza di due geni. Due fratelli che hanno a loro modo segnato una 
parte non trascurabile del Novecento europeo: Andrea e Giorgio De Chirico.

Per distinguersi Andrea prese il nome di Alberto Savinio: "Non si sa bene come nacque Savinio. 
Ho conservato il cognome per una continuità con mio padre e con le sue storie", dice

sabato 4 ottobre 2014

182 licenziamenti al teatro dell'Opera di Roma

Esternalizzazione dell'Opera di Roma
vignetta di Tiziano Riverso



Il primo trombone
massimo gramellini

L’unico capolavoro da sempre in cartellone all’Opera di Roma è l’ottusità di certi sindacati. Pur di difendere privilegi di casta, il partito del demerito è riuscito a fare perdere il posto a duecento orchestrali e coristi. L’Opera è l’Alitalia dei teatri: ha costi da Metropolitan e produttività da banda di paese (con molte scuse alle bande di paese). Appena il piatto ha cominciato a piangere, ci si è trovati a scegliere tra l’aumento dei concerti e la riduzione degli stipendi. Ma i burocrati dello spartito hanno optato per una terza soluzione: ridurre i concerti, lasciando inalterati gli stipendi. E poi si chiedono perché Muti è scappato ululando. Perlomeno non hanno preteso l’aumento, anche se si vocifera di un braccio di ferro con l’amministrazione del teatro sulla diaria giornaliera per le trasferte: 190 euro tra pranzo e cena. I contabili volevano ridurlo a 160, appena sufficienti per un pieno di champagne, ma la proposta è stata respinta come un attentato alla cultura.



Saputo dei licenziamenti, un sindacalista che per ironia della vita occupa lo scranno di primo trombone ha intonato la solita romanza del complotto contro l’arte, confondendo la sacralità di quest’ultima con le bizze da divo di chi talvolta impugna il suo strumento come una pratica d’ufficio da sbrigare con il minore dispendio possibile di energie. Ora i martiri del posto comodo hanno due possibilità. Pretendere da qualche giudice compiacente la restaurazione di un mondo che non tornerà. Oppure fondare una cooperativa e mettersi a lavorare il doppio. Come succede nei teatri di mezza Europa. In giro ci sono troppi diritti da difendere per potersi ancora occupare dei capricci.


 
Opera Lirica
Natangelo
----------------------------------------------------------------------------

Giovedì 2 ottobre il consiglio di amministrazione del Teatro dell’Opera di Roma - che è presieduto dal sindaco di Roma Ignazio Marino – ha approvato una procedura per fare in modo che orchestra e coro siano gestiti con un servizio esterno (esternalizzazione) e l’avvio della conseguente procedura di licenziamento collettivo. La decisione è arrivata dopo mesi di crisi, dissidi, accuse interne e scioperi. Lo scorso 14 settembre, inoltre, Riccardo Muti aveva annunciato la sua rinuncia a dirigere l’Aida e gli altri appuntamenti previsti per la stagione. Muti era stato nominato Direttore Onorario a vita nel 2011.
Il licenziamento riguarderà 182 persone. La procedura prevede dei giorni per le trattative sindacali e altri giorni per la trattativa nei tavoli istituzionali (dura al massimo 75 giorni). Poi si procederà al licenziamento effettivo: nei prossimi tre mesi tutti i dipendenti manterranno posto e stipendio. L’idea è di trovare un soggetto esterno che si faccia carico di gestire i servizi di orchestra e coro. I risparmi conseguenti al licenziamento saranno di circa 3,4 milioni di euro.
(continua)

venerdì 26 settembre 2014

26 settembre "La notte dei ricercatori"

"La notte dei ricercatori"
Sergio Staino



LA NOTTE EUROPEA DEI RICERCATORI: Una notte, centinaia di città Europee e non

Comunicazione della scienza attraverso esperimenti scientifici dal vivo


Non mancare alla Notte Europea dei Ricercatori, venerdì 26 Settembre 2014!

Si tratta di una mega manifestazione che si svolge simultaneamente ogni anno in una sola notte di Settembre in centinaia di città Europee e non.

Con la famiglia, la scuola, gli amici o da solo potrai assistere dal vivo ad affascinanti esperimenti scientifici.

Cosa fanno realmente i ricercatori e perché ciò è importante per la tua vita quotidiana?

  • Le opere d’arte, possono essere conservate per sempre?
  • Come si analizza la qualità dell’acqua e la fertilità del suolo?
  • Può una mano bionica essere sensibile quanto una vera?
  • Quali sono i problemi dei rifiuti spaziali e come possiamo liberarcene?
  • Come possiamo sentire cantare una balena sotto l’acqua?

Troverai le risposte a queste ed ad altre domande grazie a visite guidate dietro le quinte dei laboratori di ricerca che sono normalmente chiusi al pubblico, e potrai assistere a spettacoli di scienza interattivi, esperimenti pratici o seminari.

La mappa interattiva per sapere dove.
Il sito della comunità europea

-------------------------------------------------------------
Nel mio territorio


Ricchissimo il programma, che permetterà ai visitatori di “toccare con mano” i tanti ambiti di ricerca in cui sono impegnati il personale dell’Università di Parma e di Imem – Cnr.
Si potrà partecipare a una speciale “Caccia al tesoro della scienza” e immergersi nelle “notti bianche” di Gogol’ e Dostoevskij; diventare ricercatori per un giorno partecipando a un progetto di censimento e monitoraggio delle formiche – con tanto di kit di raccolta – e vedere da vicino “la magia del mondo microbico”; sfidare i robot giocolieri e riconoscere – aiutati dai Maestri del gusto – come funzionano i cinque sensi in relazione agli alimenti; parlare di diritti umani al cinema e ammirare il simulatore di UniPR Racing Team; andare  “A spasso nel nanomondo” e conseguire – con 5 lezioni – una (simbolica) laurea in una notte.
E poi ancora: laboratori alla scoperta degli organismi viventi seguendo il filo dell’evoluzione, appuntamenti dedicati al binomio sport & salute, laboratori di avvicinamento alla progettazione architettonica e urbana, momenti golosi come “la fabbrica delle caramelle”, un filo diretto con i ricercatori del CERN di Ginevra, incontri sull’evoluzione del credito nel nuovo millennio, esperimenti per capire come funzionano fibre ottiche, robot mobili e veicoli a guida automatizzata, conferenze sullo stress e sulle ultime novità in tema di terapia chirurgica mini-invasiva endoscopica di emicrania e iperidrosi, focus sulla cura degli animali “non convenzionali” (dalle tartarughe di terra e d’acqua dolce a gechi e serpenti, dai pappagalli ai porcellini d’India) e visite alle stalle del Dipartimento di Medicina Veterinaria, osservazioni biologiche e zoologiche nell’Orto botanico, inviti ad ascoltare il suono delle onde gravitazionali, percorsi di approfondimento su come nasce un farmaco e tanto altro ancora. Il tutto guidati da docenti, ricercatori,  dottorandi, assegnisti e studenti dei diversi Dipartimenti.
Tra gli appuntamenti speciali: “Una notte in biblioteca, apertura straordinaria della Biblioteca del Polo umanistico presso “I Paolotti” in via D’Azeglio dalle 18 alle 22; Mangio sano e sicuro, ciclo di brevi seminari che si terranno nel pomeriggio nella sede dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA); Brindiamo alla nostra salute! Come ricerca e sviluppo migliorano le condizioni di vita delle persone", con il coinvolgimento diretto di alcune aziende del territorio.
Evento speciale al termine  della Notte dei ricercatori sarà l’inaugurazione di “Erasmus and International Home” in Piazzale San Francesco, il nuovo punto di riferimento di Ateneo per gli scambi didattici internazionali e per l’accoglienza di docenti e studenti stranieri: sarà una vera e propria festa che si svolgerà a partire dalle 21,30, con interventi di musica dal vivo e che si concluderà con Dj set di Marco Pipitone dalle 23 all’1 di notte.
- Bus navetta
Per spostarsi da un polo all’altro sarà approntato un servizio di bus navetta gratuito. Fermate: Piazza Garibaldi, Via del Taglio (Dip. di Medicina veterinaria), Campus. Frequenza bus: ogni ora dalle 15 alle 20.
- Sul web: sito e social media
Gli studenti del corso in Giornalismo e Cultura Editoriale seguiranno e commenteranno con un reportage la Notte dei ricercatori 2014.
Un sito dedicato alla Notte dei Ricercatori, unitamente a una pagina e a un evento Facebook (facebook.com/comunicarelaricerca), è stato predisposto con la collaborazione degli studenti dell’Università, e con il contributo attivo del pubblico gli eventi saranno commentati attraverso i social network.
#nottericercatori #comunicarelaricerca #ndrparma2014.
Per informazioni: info@comunicarelaricerca.it
- Aperture straordinarie di mostre e musei
In occasione della Notte dei Ricercatori è prevista un’apertura straordinaria fino alle ore 23 dei Musei civici di Parma, con ingresso gratuito. Saranno aperti il Castello dei Burattini, la Pinacoteca Stuard e i musei della Casa della Musica (Museo multimediale dell’Opera, Casa del Suono, Casa Natale di Arturo Toscanini).
Apertura straordinaria, sempre fino alle 23, anche per le mostre “Alfred Hitchcock nei film della Universal Pictures” e “Stanislao Farri. Sulle tracce della luce”, a Palazzo del Governatore.
Apertura in anteprima, infine, per la mostra “Sfogliare stanze. Munari e altre storie per raccontare Corraini Edizioni”, dalle 18 alle 22 a Palazzo Pigorini.
Il programma completo delle iniziative della “Notte dei ricercatori”, costantemente aggiornato, è consultabile sul sito www.unipr.it, al banner “Comunicare la ricerca”.



Comunicato stampa congiunto Università di Parma, Comune di Parma, Imem - CNR



giovedì 25 settembre 2014

Ritratto di Milena Vukotic

Il 17 agosto  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Milena Vukotic




Milena Vukotic: "Io, protagonista non protagonista tra Buñuel e la signora Fantozzi"

L'attrice nota al grande pubblico nei panni della "signora Pina": "Paolo Villaggio mi ha messo in uno schema che ho cercato di alleggerire e forzare con altre parti"
di ANTONIO GNOLI

 Lettera a Milena. Piacerebbe iniziare questo "straparlando" con una lettera a Milena Vukotic. Per dirle: "Cara Milena, lei è una straordinaria attrice che da sola avrebbe potuto arricchire un pezzo di storia del cinema e del teatro italiano. E se ciò non è accaduto è per l'insipienza e la pigrizia di tutti coloro, tra i registi importanti e no, che l'hanno usata senza accorgersi del dono prezioso che avevano tra le mani".

Ma poi penso che le vite vanno prese per quello che sono e che anche nel piccolo, soprattutto nel piccolo, c'è, inatteso, del grande. Sovente misconosciuto. In una mattina di sole aspro Milena Vukotic mi attende nella sua casa romana del quartiere Salario. Una blusa leggera, pantaloni chiari e un trucco lieve che adorna due occhi in permanente stupore mi accolgono con calma e un moto di apparente tristezza. Tutto intorno, nella stanza che è poi lo studio dove l'attrice lavora, libri e foto di famiglia dove un passato musicale sembra affiorare con evidenza: "Vede, quello grande è il ritratto della nonna. Una donna straordinaria. Pianista eccelsa, dicono. Morì di febbre gialla a Rio dopo aver dato alla luce mia madre che dunque per caso, e per sventura, nacque in Brasile. E il governo di quel paese, per quei fatti drammatici, le assegnò una pensione a vita".

E restò lì?
"No, tornò in Italia e fu affidata a una famiglia per bene che le fece a sua volta studiare pianoforte".

Che anni erano?
"Nonna Gemma era del 1867. Era nata a Pisa e cominciò a fare concerti a sette anni. C'era già allora la moda dei bambini prodigio. Morì a 26 anni. Fatti due conti direi che la mamma cominciò a studiare pianoforte e composizione ai primi del Novecento. Fu allieva di Casella e Respighi e tra i compagni di corso a Milano ebbe Victor de Sabata".

Che ricordo ne ha?
"Di una donna libera e generosa. Non avendo avuto una vera madre ha sempre sognato di esserlo pienamente. Nonostante la carriera di concertista ebbe 4 figli".

E il nome Vukotic?
"Da mio padre, le cui origini erano slave, precisamente montenegrine. Strana figura di letterato e diplomatico. Studiò un po' di musica, venne a Roma e all'inizio entrò nella cerchia dei futuristi. Parlava a volte della sua esperienza con il teatro di Bragaglia. Alla fine, la carriera di diplomatico prese il sopravvento. Ho passato la mia infanzia viaggiando: Londra, Vienna, poi in Olanda e a Istanbul e soprattutto a Parigi che fu la mia città formativa. Coincise con la separazione dei miei genitori".

E lei?
"Ero giovane, un po' turbata e silenziosa. Mio padre se ne andò, fu un addio senza veri traumi. Mia madre aveva il suo lavoro, necessario per provvedere a tutto. Fui sistemata in un pensionato e mi dedicai alla danza. Anni importanti che arricchirono la formazione artistica. Nel saggio finale al Conservatorio ebbi il primo premio e questo mi consentì di entrare all'Opera di Parigi".

Sorprende un po' questo esordio nella danza.
"Perché? Dopotutto per alcuni anni è stata la mia compagna, la mia abitudine. Per sei mesi lavorai con Roland Petit e poi, avendo bisogno di guadagnare, entrai nella compagnia del maestro de Cuevas. Fu un'esperienza meravigliosa che durò tre anni. La compagnia, sotto l'egida di quest'uomo straordinario, per importanza era succeduta ai balletti russi di Diaghilev. E molte stelle come Hightower, Skibine e un giovane Nureyev vi presero parte. Ma quando arrivò Nureyev io non c'ero già più".

Perché decise di abbandonare un mondo così promettente?
"In Italia la danza era considerata un'arte per pochi eletti, un piccolo mondo chiuso. E anche vagamente pretenzioso. D'altro canto, a Parigi avevo studiato anche teatro ".

E il cinema?
"Arrivò in modo curioso, dopo che vidi La strada di Federico Fellini. Fu un colpo di fulmine. Un incantamento. Io che non sono mai stata sicura di niente fui sicura di volerlo incontrare. Giunsi al suo cospetto con una lettera di presentazione che dimenticai di dargli. Restai a lungo muta. Ma era un silenzio senza imbarazzi. Mostrò interesse alla mia storia. Promise un suo interessamento. Furono le basi per una collaborazione e un'amicizia che sarebbe durata nel tempo. Fino alla fine".

Negli ultimi anni, si dice, fosse un uomo amareggiato.
"Sentiva che le porte del cinema, che per lui erano sempre state spalancate, non si aprivano più. Una sera venne da me a cena. C'era anche Paolo Villaggio. Scoprii, improvvisamente, un uomo malinconico. Paolo era scintillante, provocatorio, surreale. Federico si ritraeva come a giustificare un'assenza. Quando ci fu il commiato, guardandomi si scusò di non essere quel maestro di ironia alla quale ci aveva abituati. Disse: "Scendere a patti con la vita è meno piacevole di quello che può sembrare". Sono sicura che non si sarebbe ammalato se avesse continuato a lavorare".

Lo ha visto negli ultimi giorni?
"Passò le ultime settimane al Policlinico. Andavo tutti i pomeriggi. Ricordo l'assembramento dei fotografi e dei giornalisti. Federico era in coma. Poi arrivò la notizia della sua morte. È strano. Ma, quella domenica, non c'era nessuno ad accoglierla. Solo io, il suo parrucchiere e un suo aiuto. Ci guardammo e l'aiuto disse: "Forse dovremmo farlo sapere al Vaticano che Fellini è morto. E che suonino le campane di Roma". Telefonammo. Ci risposero che solo i papi e i sovrani avevano diritto alle campane della città".

Non ha lavorato molto con Fellini.
"Non tantissimo. È prevalsa l'amicizia. Del resto, non ho mai chiesto nulla. Una volta che eravamo assieme mi disse: sai tra i miei sensi di colpa, e sono tanti, c'è anche quello di non averti dato dei ruoli importanti".

Come reagì?
"Mi sembrò di arrossire. Non me lo aspettavo. Gli risposi: tu sei il cinema. Tu decidi. Ed è vero. Ricordo che quando Buñuel mi chiamò per un ruolo nel Fascino discreto della borghesia , Fellini fu il primo a cui lo dissi. Ne fu felice. Stimava tantissimo Buñuel: "È il solo che sia riuscito a trasformare i sogni in realtà", commentò e aggiunse: "Ma quanti anni ha?". A Parigi, dove giravamo, riferii a Buñuel l'apprezzamento. "Ah, grande Fellini. Che età ha?", chiese divertito".

Com'era Buñuel sul set?
"Poteva farti fare qualunque cosa. Ma senza imporla. Solo con il fascino e la delicatezza dei suoi modi. Interpretavo una cameriera che doveva dire di essere stata lasciata dal suo fidanzato. Lui cambiò il copione e aggiunse: perché troppo vecchia. Venne da me e mi disse: non le dispiace sembrare una donna di 70 anni?"

E davvero non le dispiacque?
"No, siamo strumenti, in un certo senso involontari. Con Buñuel ho fatto tre film, tra cui l'ultimo: L'oscuro oggetto del desiderio . Ero stato a trovarlo a Parigi e mi disse che non aveva ruoli per me. Poi incontrai a Roma Fernando Rey che mi avvertì che stava cambiando la sceneggiatura: scrivigli e vedrai che qualcosa uscirà. Ero scettica. Ma gli scrissi. Mi rispose, era il 1976, con una letterina dall'Hotel Aiglon, dove soggiornava e mi ribadì, insieme agli elogi, che non aveva parti per me".

E lui?
"Mi guardò con l'infinita pena che hanno certi vecchi e disse: "Dovevo essere completamente ubriaco". Poi si fece portare una penna. Prese il libro. Lo aprì. E scrisse: " Nous sommes toutes des hommes, soi disant, libres. Croyez moi, Milena" . Ecco cosa intendo: il suo cinema, tra le diverse cose raccontava anche la sua disillusione".

E poi come arrivò a fare il suo ultimo film?
"Una mattina mi arrivò un telegramma nel quale si diceva che c'era un ruolo anche per me".

Come è stato passare da Buñuel al ruolo della "signora Pina" la moglie di Fantozzi?
"Quel ruolo non fu creato per me. Sono subentrata. Avevo conosciuto Villaggio in televisione: una personalità prorompente. La sua intelligenza per me è stata un arricchimento continuo. Ha creato la maschera di Fantozzi attorno alla quale ha fatto ruotare una galassia di facce straordinarie. Tra cui la mia. Che ho interpretato con la consapevolezza di stare recitando un cartone animato".

Una figura totalmente disincarnata?
"Senza contatti con la realtà".

Eppure condannata in un certo senso a essere riconosciuta come la "signora Pina".
"Effettivamente, Paolo mi ha messo in uno schema. Ma ho cercato di alleggerirlo e di forzarlo con altre parti, altri ruoli".

Lei dà l'idea di una donna molto schiva.
"Sì, ma sono migliorata. La timidezza è oggi meno evidente ".

La timidezza è stata una forma di sofferenza?
"Ci si sente meno normali. Incapaci di partecipare alla vita come vorremmo".

E sulla scena?
"Ci si disfa delle paure, dei pudori, delle resistenze. C'è una parte di noi che ha bisogno di esprimersi. E ringrazio coloro con cui ho lavorato: Strehler, Zeffirelli, Enriquez, Missiroli e il mio amico fraterno Paolo Poli. Sto parlando di teatro".

E il cinema?
"Mi dà più felicità, ma anche meno coinvolgimento. Ho lavorato con quasi tutti i registi e con i più grandi attori. E pensare che al mio esordio Renato Castellani, al quale ero stata presentata mi disse: per fare cinema dovresti essere o bella come Gina Lollobrigida oppure profonda come Anna Magnani. E tu non sei né l'una né l'altra. Lascia perdere ".

È sempre stata così martoriata?
"Abbastanza da potermene alla fine fregare. Non ho quasi mai scelto io le cose da fare. Sono le cose che hanno scelto per me, quello che mi è stato proposto ho valutato come affrontarlo".

Si sente in credito con la vita?
"È buffo. Ma non ho rimostranze. In fondo mi ritrovo più a mio agio nel surreale che nel reale".

Perché?
"Mi fa volare, mi fa andare oltre. È come il passo di danza che si sforza per vincere la gravità del peso".

La realtà diventa così più leggera?
"La si guarda con altri occhi e si finisce con l'accettarla con altri occhi".

Crede in dio?
"Dio non ha avuto un posto privilegiato. Niente nella mia famiglia è stato all'insegna della normalità. Il legame più forte fu con mia madre. Totale. Fino alla sua morte. Solo dopo sono riuscita a sposarmi. E quanto alla fede penso che da qualche parte c'è un'energia da cui si può attingere. Ma senza che tutto questo venga regolarizzato. In nessun modo. Dio è come leggere un libro pieno di sorprese".

Cosa sta leggendo?
"Un libro sul silenzio".

Le piace il silenzio?
"Non posso dire che mi piace. Amo la compagnia. A volte sono attratta dalla possibilità che attraverso il silenzio si possano sentire altre voci, altri suoni. Una musica parallela o alternativa".

È una donna alternativa.
"In che senso?"

Una protagonista senza protagonismo.
"Sono contenta per tutto quello che ho realizzato. Anche se qualche rimpianto può esserci".

Per il fatto che il cinema non le ha dato la centralità che meritava?
"Penso sempre che non sia mai troppo tardi. Sono qui in attesa. Intanto vado avanti".

Non pensa di essere fuggita dalla sua bravura, a cominciare dalla danza?
"Evidentemente non ero così brava. Ma non sono mai fuggita da niente, soprattutto da me stessa. E non è questione di responsabilità, ma di modo di essere e di stare al mondo".

Che impressione le faceva, non come regista ma come uomo?
"Credo che la grande esperienza surrealista degli anni Venti e Trenta lo avesse segnato definitivamente. C'era in lui la malinconia dell'anarchico".

Cosa intende dire?
"Glielo posso tradurre con un episodio. Quando terminò l'impegno nel primo film, acquistai la monografia di Freddy Buache su di lui. Nel congedarmi volevo chiedergli di firmarmela. Ma non ebbi il coraggio. Poi, durante la notte sognai che Buñuel apponeva sul libro la seguente dedica: "Siamo tutti uomini liberi". Il giorno dopo, sull'onda di quel sogno, tornai sul set. Durante una pausa mi avvicinai raccontandogli della dedica che avevo sognato".

venerdì 5 settembre 2014

"LA DANZA MACABRA DELLA GRANDE GUERRA"

1914-2014
Quest'anno ricorre il centenario della Grande Guerra
L'estate del 1914, cent'anni fa, segnò l'inizio della Prima guerra mondiale, il  più grande conflitto mai visto, una carneficina che coinvolse quasi tutti i continenti, gran parte delle Nazioni e dei loro abitanti, cambiandone per sempre il destino.
Quando furono firmati gli armistizi tra i belligeranti nel 2018, le vittime si contavano a decine di milioni, mentre i sopravvissuti dovettero adattarsi ad un mondo nuovo e fortemente instabile. Crimini e orrori in vasta scala, armi nuove e micidiali, indifferenza per le spaventose perdite militari e civili hanno accomunato quasi tutti i numerosi fronti aperti.
Tante le manifestazioni per ricordare, anche il mondo della satira ha voluto farlo.
A Forte dei Marmi una grande mostra: LA DANZA MACABRA DELLA GRANDE GUERRA

di Ezio Castellucci, Il Kaiser sopra una montagna di teschi
 

 Forte dei Marmi

LA DANZA MACABRA DELLA GRANDE GUERRA

 Galantara - Il Kaiser
Prosegue con grande successo al Museo della Satira e della Caricatura di Forte dei Marmi la mostra “La Danza macabra della Grande Guerra”. In esposizione al Fortino, a cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, le opere satiriche dei grandi artisti del tempo raccolte nella Collezione Isolabella. La mostra resterà aperta fino al 28 settembre, tutti i giorni, dalle 17 alle 20 e dalle 21 alle 24 (ingresso libero). L’esposizione di ben 150 opere, tratte da una collezione unica al mondo, è un’irripetibile occasione per ammirare i capolavori pittorici di artisti del calibro di Mario Sironi, Alberto Martini, Aroldo Bonsagni, Francesco Cangiullo, Lorenzo Viani, Giò Ponti, Lucio Venna, Gabriele Galantara, Antonio Rubino.

 Sironi - Sarabanda finale

A cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale le opere satiriche dei grandi artisti del tempo raccolte nella Collezione Isolabella.
Si può raccontare la tragedia di una guerra di trincea, di sangue e fango, con le opere d’arte? La risposta è sì: i grandi artisti satirici furono in grado di narrare il conflitto che trasformò in modo irreversibile il Novecento e combatterono la loro guerra con le armi sferzanti della satira, dando luogo a una produzione artistica che non ha eguali in nessun altro conflitto e che riuscì a svelarne le contraddizioni e le assurdità. A cento anni dall’attentato di Sarajevo - il casus belli che diede formalmente inizio alla prima guerra mondiale - Il Museo della Satira e della Caricatura di Forte dei Marmi propone la mostra “La danza macabra della Grande Guerra” (a cura di Cinzia Bibolotti, Franco Calotti e Linda Gorgoni Gufoni), con opere provenienti dalla Collezione di Lodovico Isolabella, sicuramente la più importante al mondo nel suo genere.

Per le foto vedere il link a dropbox https://www.dropbox.com/sh/ljw6xokq35nrcay/AABI_9ep2q7DgSetJExnkS-ia

E’ online il sito con il catalogo della Mostra "LA DANZA MACABRA DELLA GRANDE GUERRA"
http://www.museosatira.it/mostre/danzamacabra/


Per informazioni:
Museo Della Satira - Forte di Leopoldo I - Piazza Garibaldi
tel. 0584 280262 (Uffici) - 0584 876277 (Museo) museosatira@gmail.com www.museosatira.it

L’Ufficio Stampa
Demetrio Brandi 3356141086


Walter Trier - Karte von Europa im jahre 1914

Nota:
Per le mappe satiriche potrebbe interessare
Satirical maps of the Great War, 1914-1915

lunedì 28 luglio 2014

Nadine Gordimer, 90 anni di lotte contro l'apartheid e le ingiustizie.


Nadine Gordimer
di Tiziano Riverso
Minuta ma con una straordinaria energia, Nadine Gordimer ha visto con i suoi occhi vispi, nitidi e un pò severi, come la sua scrittura, l'apartheid e ha sempre combattuto contro le ingiustizie, tutte. Era, come dice Inge Feltrinelli, il suo editore italiano, "una minuscola, piccola grande donna. Una battagliera fantastica per tutti i diritti umani e civili".
Amica di Nelson Mandela ("se non ci fosse stato lui il Paese sarebbe sprofondato nella guerra civile, ci e' andato vicino" diceva) e di tanti leader della lotta contro l'apartheid è stata fra i membri fondatori del Congress of South African Writers. Fino all'ultimo la scrittrice sudafricana Premio Nobel nel 1991, morta oggi a 90 anni nella sua casa a Johannesburg, ha combattuto con coraggio anche una battaglia personale, quella contro il tumore al pancreas che aveva annunciato di avere lo scorso marzo dicendo addio alla scrittura. "Scrivere mi fa stare male e sono troppo critica, troppo esigente verso il mio lavoro, non credo che accetterei qualcosa che non mi soddisfa" aveva detto. Così come si era più volte dichiarata convinta che il valore di uno scrittore stia nelle sue opere, in quello che scrive.
Nel 1974 vincitrice del Booker Prize, nel 2002 del Premio Internazionale Primo Levi e nel gennaio 2007 del Premio Grinzane Cavour per la Letteratura, il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia è 'Ora o mai più' (Feltrinelli) del 2012 che racconta una storia del dopo apartheid ma che affonda le sue radici nel prima con protagonisti la nera Jabu di una povera famiglia della tradizione zulu e il bianco, benestante e borghese Steve. Poi è arrivato, nel 2014, 'Racconti di una vita'. E il 15 ottobre uscirà per Feltrinelli 'Tempi da raccontare', una raccolta di saggi, articoli e conferenze, scritti nell'arco di mezzo secolo, in cui sono al centro le sue passioni, convinzioni, letture, l'impegno e la lunga lotta di contro l'apartheid. Figlia di un ebreo russo e di un'ebrea inglese, nata nel Transvaal, nel borgo minerario di Springs a est di Johannesburg, il 20 novembre del 1923, la Gordimer, ha più volte detto che "la sua sensibilità alle ingiustizie" veniva "dall'essere cresciuta in Sudafrica". Ma fino all'ultimo ha invitato anche a guardare avanti, al Sudafrica del dopo apartheid, dopo aver vissuto l'euforia della realizzazione di un sogno che aveva paragonato a quella "della caduta del muro di Berlino", e consapevole che il razzismo non era sconfitto.
Con il suo stile secco, essenziale, nitido, distaccato ha messo nei suoi romanzi ognuno di fronte a se stesso a partire dal Toby di 'Un mondo di stranieri', che troviamo nella sua prima opera tradotta in Italia da Feltrinelli nel '61 e scritta nel '58 alla vigilia delle prime rivolte nere organizzate e delle durissime repressioni. Ne 'I giorni della menzogna' (The Lying Days), sua opera prima del '53 c'è invece una ragazza che con dolore si allontana dalla sua famiglia bianca, ostile ai neri. Mentre ne 'La figlia di Burger' una giovane donna, figlia di un uomo morto in prigione, cerca di fuggire dal suo destino e dal Sudafrica e finisce anche lei in cella.
La famiglia, i bianchi rifiutati dai bianchi, i neri visti con sospetto, il futuro come un'incognita sono i temi al centro della maggior parte dei suoi romanzi e racconti che insieme ai saggi costituiscono una sterminata produzione. Cosi' in 'Luglio' uscito per Rizzoli nel 1984 una famiglia bianca, nei giorni vincenti della rivolta, viene nascosta dal proprio servitore. Mentre in 'Sveglia!' del 2006 il protagonista Paul Bannerman è un ambientalista malato di cancro reso radioattivo dalla cura che sta facendo. La costante di tutte le sue opere è "quel coraggio nella vita e talento nelle opere" che dovrebbe essere il credo di tutti gli scrittori come ricordò invocando Camus nel suo discorso per il Premio Nobel.
 ANSA


Obituary: Nadine Gordimer 1923 - 2014 

Zapiro for Times

13 July 2014: Writer, political activist and nobel prize laureate, Nadine Gordimer( 90) died peacefully in her sleep. Gordimer wrote 15 novels as well as several volumes of short stories, non-fiction and other works. She was published in 40 languages around the world. Friend of Nelson Mandela, Gordimer was an unwavering critic of apartheid and an outspoken advocate of black majority rule. Her fiction, which she saw as part of the struggle against apartheid, documented the havoc that institutionalised racism wrought on private lives. Three of her works were banned by the government for varying periods because of their outspoken messages. In an 1990 interview she said Gordimer said “I used the life around me and the life around me was racist,” In a 1990 interview she said “I would have been a writer anywhere, but in my country, writing meant confronting racism.
This drawing was done twenty two years ago by Zapiro as a tribute to Nadine Gordimer for the cover of a 1992 edition of the progressive Afrikaans journal, Die Suid-Afrikaan.



Links


  •  Nadine Gordimer: “Il Sudafrica ha tradito il sogno di Mandela”


  • “Io, Madiba e il mio Sudafrica” Addio al Nobel Nadine Gordimer la scrittrice che sfidò l’apartheid


  • È morta Nadine Gordimer


  • Nadine Gordimer: evergreen, ageless and an inspiration to all writers


  • Morta Nadine Gordimer, piccola grande donna contro l'apartheid


  •  http://it.wikipedia.org/wiki/Nadine_Gordimer



  • Related Zapiro cartoons

    giovedì 24 luglio 2014

    Ritratto di Arturo Schwarz

    L' 08 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Antonio Gnoli
    ad Arturo Schwarz 


    Arturo Schwarz: "A novant'anni sono avido di vita mi sento più trotskista che mai"

    Dalla creazione in Egitto di una sezione della Quarta Internazionale, che gli costò le torture, all'arrivo in Italia, dove divenne gallerista e grande collezionista del movimento surrealista
    di ANTONIO GNOLI

    CHE cos'è che mi assilla durante tutta la conversazione con questo signore che alterna la memoria precisa dei fatti con i piccoli spazi regalati all'oblio? Sono qui, nella sua casa milanese a due piani (forse tre considerando la parte sotterranea), in mezzo ai 40 mila volumi e alle opere d'arte che con sincretica abilità ha messo insieme lungo il corso di una vita. Sono qui, seduto davanti ad Arturo Schwarz che mi fissa attraverso le spesse lenti e chiede domande esatte, precise, circostanziate. E mentre chiede si accarezza la barba. Detesta la vaghezza.

    Ha accanto la nuova compagna. Si chiama Linda. Apprendo che stanno insieme da sei anni e che si sono sposati da poco. Il vecchio maschio alpha sorride alla donna bionda. Premurosa e taciturna, lei lo guarda senza frenesia. Si nota la grande differenza di età. Ma invece di sorprendermi mi fa pensare a due corpi finiti, per caso e forse felicemente, nella stessa orbita. Che cos'è che mi assilla allora? È l'idea che la natura si possa forzare? Cambiarne le leggi? Stravolgerle? Sarebbe comunque troppo. Eccessivo. E allora cos'è? È il fatto che non riesco a capire quanta percentuale "levantina" si nasconda in quest'uomo dalle dichiarate ascendenze egiziane: "Sì, sono nato ad Alessandria d'Egitto e la mia vita è stata una grande avventura", dice con l'aria di chi stia fornendo una biografia dai tratti romanzeschi.

    Il nome Schwarz farebbe pensare a origini tedesche.
    "Mio padre era di Düsseldorf. Ebreo, sposò un'ebrea milanese: Margherita Vitta, figlia di un colonnello italiano che andò di stanza in Egitto. Fu lì che si conobbero".

    Cosa faceva suo padre?
    "Era un chimico. Attraverso dei processi di liofilizzazione, inventò un sistema di conservazione del cibo. Fu la nostra fortuna con il governo egiziano".

    Com'era Alessandria?
    "Popolosa, strana, dal sapore cosmopolita; abitata da commercianti greci, italiani, armeni; da finanzieri libanesi e da diplomatici inglesi e francesi. Ricordo il vociare dei venditori d'acqua e l'intenso profumo dei narghilè. Mio padre mi iscrisse al "Victoria College". Feci le scuole e l'università francese e inglese: la Sorbonne aveva laggiù un suo distaccamento. Come Oxford, del resto".

    E cosa ha studiato?
    "Filosofia e scienze naturali. In seguito aprii una libreria. Ma la vera passione in quegli anni giovanili fu la politica. Creai una sezione egiziana della Quarta Internazionale ".

    Quella fondata da Trotsky nel 1938?
    "Sì. E oggi compiuti i novant'anni mi sento più trotskista che mai. Allora, a causa della mia attività politica, fui arrestato e condannato all'impiccagione".
    Che anno era?
    "Gennaio 1947. Lo ricordo come fosse ieri. Mi prelevarono la mattina presto. Fui trascinato in prigione. L'accusa era sovversione. Mi sbatterono nei sotterranei. Una cella asfissiante, piccola e come unici compagni topi e scarafaggi. Mi rasarono a zero. Mi torturarono strappandomi le unghie dei piedi. Sopraggiunse una cancrena per cui persi l'alluce del piede destro. Infine fui trasferito nel campo di internamento di Abukir".
    Come ha fatto a salvarsi?
    "Due anni di prigionia in attesa che si eseguisse la sentenza. Prevista per il 15 maggio del 1949. In corso c'era la guerra arabo-israeliana. Che ebbe varie fasi. Nel febbraio del 1949, giunse l'armistizio tra Egitto e Israele. Nel mutato clima fui liberato in aprile".
    I suoi genitori?
    "Mia madre era morta da tempo. I miei divorziarono che avevo cinque anni. Per un po' stetti con lei, una donna rancorosa. Cominciò a maltrattarmi: rivedeva in me piccolo quello che un giorno era stato suo marito. Alla fine mio padre riuscì ad ottenere l'affidamento. La mamma morì nel 1939. La Germania dilatava i suoi deliranti sogni di guerra e io non sapevo più chi fossi".
    In che senso?
    "Non avevo più un'identità. Nel 1933, come ebreo, persi la cittadinanza tedesca. Presi quella di mia madre. Fu cancellata nel 1939. Ero dunque un apolide. Finita la guerra accettai di riprendermi la cittadinanza italiana. Per cui, quando si trattò di espellermi dall'Egitto, fui mandato in Italia".
    Dove?
    "Con il piroscafo arrivai a Genova e poi, con il foglio di via, finalmente a Milano. Non avevo soldi, né vestiti, ero solo. Sapevo che per sopravvivere avrei dovuto trovarmi al più presto un lavoro. Feci la sola cosa che avevo già fatto ad Alessandria: misi in piedi una libreria con annessa una piccola casa editrice. La Banca Commerciale, grazie a un cugino che era un funzionario, mi concesse un fido. Che poi mi fu tolto".
    Perché?
    "Sospetto che ci fosse lo zampino di Togliatti. Pubblicavo i libri di Trotsky e il Pci non amava certo quella figura che era stata fatta assassinare da Stalin. L'anno in cui morì per mano di un sicario avrei dovuto incontrarlo a Coyoacán in Messico dove viveva. Era il 1940. Avrei affrontato un lungo viaggio per mare. Con tutti i rischi della guerra. Ma non feci in tempo. Mi restò un suo biglietto da visita che avrebbe dovuto funzionare da lasciapassare. Deve essere da qualche parte. Conservato come una reliquia".
    Mi fa venire in mente le sue considerevoli collezioni?
    "Odio la parola collezionismo. Tutto quello che ho raccolto non è stato fatto nel nome della proprietà privata, ma per amore verso l'arte, in particolare verso il surrealismo, che ha segnato la mia vita".
    Come è nata la passione surrealista?
    "Tutto avvenne dopo aver letto il Manifesto di André Breton. Nei primi anni Quaranta gli inviai le mie poesie. La risposta arrivò sei mesi dopo. Tenga conto che l'Atlantico era infestato dagli U-Boot tedeschi. Mi rispose incoraggiandomi. Da allora decisi di far parte del gruppo surrealista".
    Con quali effetti?
    "Per me unici. Ero felice di stare in contatto con artisti straordinariamente liberi e onesti".
    Onesti?
    "Intendo intellettualmente. Breton fu descritto cola me una specie di dittatore che imponeva le sue scelte culturali. Non è vero. L'ho conosciuto bene. Era di una dolcezza e di un'ironia uniche. E poi Duchamp, che incontrai nel 1954. Chi meglio di lui ha interpretato lo spirito dei tempi? E Yves Tanguy? Semplicemente strepitoso. E Max Ernst? Lo conobbi a Parigi. Grande. Ma non ho avuto molta simpatia per lui. Gli rimprovero di aver tradito Breton".
    Nelle sue mani, si dice, siano passati parecchi capolavori di quel periodo.
    "È vero. Li ho avuti, tenuti appesi, venduti e donati. Duchamp, Man Ray, Masson, Tzara, Dalí, Ernst, Pollock che non era un surrealista, ma proveniva da quel mondo".
    Perché dice "donati"?
    "Perché circa un migliaio delle mie opere sono finite in quattro grandi musei internazionali".
    Cosa ha chiesto in cambio?
    "Che le opere fossero catalogate, documentate, accompagnate da una dignità scientifica. È il solo modo per far sopravvivere l'arte".
    Tra i musei che cita è compresa anche l'Italia?
    "Dopo molte complicazioni burocratiche un consistente nucleo delle mie opere dada e surrealiste sono
    finite alla Galleria d'Arte Moderna di Roma".
    Complicazioni in che senso?
    "Non fu per niente facile. Si giunse al paradosso che ero io che dovevo giustificare il lascito e non lo Stato quello di fornire le garanzie per la gestione. La cosa più comica accadde con la mia biblioteca di testi dada e surrealisti che era compresa nella donazione. E che gli specialisti consideravano un pezzo unico. Fu rifiutata perché qualcuno allora insinuò che era robaccia pornografica! Il Getty Museum aveva offerto due milioni di dollari. Alla fine la donai a Israele".
    Mi faccia capire meglio questo atteggiamento del "donare".
    "Cos'è che non va?".
    Lei è un gallerista. Ha trattato opere. Le ha comprate e vendute. Voglio dire: non sto di fronte a una classica figura di mecenate.
    "Ma un uomo è tante cose assieme. E non c'è contraddizione tra un'attività mercantile e il bisogno di trasmettere un patrimonio, per quanto piccolo, senza smembrarlo. C'è  -  come dire?  -  una volontà spirituale che reagisce al puro dominio del denaro. Non sarei ancora un trotskista e un surrealista se non pensassi questo".
    Se non pensasse che la proprietà è un furto?
    "Ecco, leggiamo Proudhon e soprattutto Stirner, ma anche la Cabala e l'Alchimia che ho studiato a fondo ".
    Cosa c'entrano queste ultime?
    "I primi scritti alchemici distinguevano chiaramente l'oro come metallo dall'oro spirituale o "filosofale". Nelle esegesi talmudiche vengono presi in considerazione sette diversi tipi di oro. In molti testi alchemici Dio stesso è paragonato all'"oro dell'alto". Siamo in pieno antimaterialismo".
    La frequentazione dei testi sacri come la relaziona con il buon Dio?
    "Dio è un'ipotesi culturale. Sono ateo da sempre. Con gli anni invece di indebolirsi questa posizione si è rafforzata".
    Davvero?
    "Eh, già. Certe volte mi chiedo come qualcuno abbia potuto creare un mondo così di merda. Se ci fosse un Dio che avesse realizzato tutto questo, sarebbe un sadico".
    In fondo in un mondo così non le è andata poi tanto male.
    "Forse perché tutta la mia vita si è svolta sotto il segno dell'amore".
    È una parola impegnativa e anche un po' scivolosa.
    "Non me ne frega niente che sia scivolosa. Mi riferisco alle persone che ho amato e che amo".
    A chi per esempio?
    "Penso alla mia prima moglie: Vera. L'ho amata in maniera totale. E quando è morta, vent'anni fa di tumore, la mia vita ne uscì sconvolta".
    Che cos'è un uomo cui viene sottratta una delle ragioni principali della sua esistenza?
    "È un essere finito. Posso solo dirle che a un certo punto quel disagio è talmente cresciuto in me da togliermi ogni ragione di vivere. Ero una ridicola mosca senza più ali che si dibatteva freneticamente".
    Ha pensato al suicidio?
    "Più volte. Ho pensato di farla finita anche prima di incontrare lei, Linda, che ora vede sedermi accanto. Ero stanco. Con problemi fisici seri dopo un'operazione alla schiena andata di schifo. Linda mi ha salvato. Mi ha dato un'altra chance".
    Cosa la spaventa della morte?
    "Non ne ho paura. Sono avido di vita. Lo sono più ora che ho superato i 90 anni che quando ne avevo 30. Ma so che arriverà il momento in cui sarò nuovamente stanco di vivere. Non so se avrò ancora la forza di ribellarmi. Tutte le ribellioni, però, sono sacre".
    Anche quelle contro la natura?
    "È difficile ribellarsi alla natura. In questo mi sento molto spinoziano. Quando verrà la mia ora me ne andrò spero senza troppo protestare".
    Si percepisce in lei tutto e il contrario di tutto.
    "Non capisco se lo intende come un segno di ricchezza o di ambiguità".
    Forse entrambi.
    "L'uomo è un coacervo di sentimenti contraddittori. Ha un lato sublime e accanto uno deteriore. È generoso e vile; disinteressato ed egoista. È la vita. Prendiamola per il verso giusto. Spero solo di non aver fatto troppe cazzate. Alla fine ciò che avrò dato e anche quello che riceverò. Poi, come tutti, lentamente sbiadirò, senza lasciare traccia".
    Lei ha scritto una settantina tra testi di saggistica e di poesia. Mai un libro di memorie. Rientra nella convinzione che tanto tutto è destinato a finire?
    "Non lo so, sinceramente. E poi: ho cose più interessanti da fare che mettermi a scrivere le mie memorie. Se qualcosa resterà di me, e dubito fortemente, sarà attraverso i gesti concreti. Non nelle parole".
    Cosa vorrebbe indietro che oggi non ha più?
    "Non mi manca nulla. Non soffro di nostalgia. Ho perfino conservato intatte le mie radici ebraiche".
    Come le definirebbe queste radici?
    "Sono la linfa di tutto. E quel tutto ha assunto per me la forma del desiderio di conoscenza e di fratellanza. Nel Tanàkh  -  cioè nel Vecchio Testamento  -  si dice, ancor prima che nei Vangeli, una cosa fondamentale: ama il prossimo come te stesso e non fare male a nessuno. È il fondamento della nostra etica civile. Non ne vedo altri".
    © RIPRODUZIONE RISERVATA
    DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI
     

    domenica 13 luglio 2014

    Ritratto di Carla Vasio

    Il 1 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Antonio Gnoli
     a  Carla Vasio





    Carla Vasio: "Ho fatto la guerra del Gruppo '63, ora vivo per dimenticare tutto"

    La scrittrice, saggista, storica dell'arte e poetessa italiana, nata a Venezia nel 1932 e poi trasferitasi a Roma, in occasione del cinquantenario della nascita del movimento ha pubblicato il libro di memorie Vita privata di una cultura (Nottetempo, 2013) che ne ripercorre la storia
    di ANTONIO GNOLI  

    E poi c'era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo '63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: "Eravamo nati a un giorno di distanza l'uno dall'altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l'immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno", ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

    Ma quello che non capisco è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo '63 non si parla mai. Guardo la Vasio  -  una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura , Nottetempo)  -  e mi aspetto una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: "Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana".

    Erano maschilisti incalliti?
    "Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale".

    C'è una foto in cui ballate avvinghiati.
    "Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo".

    Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
    "Adorabile nevrotico. Fu un'amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali".

    A cosa si riferisce?
    "Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un'angoscia terribile".

    E Manganelli?
    "Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all'ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi".

    Ma il Gruppo '63 non amava Pasolini.
    "Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri".

    La racconta come fosse una guerra.
    "E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento ".

    Quanto è rimasta a Venezia?
    "Fino all'adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c'era Rossana Rossanda".

    E com'era
    "Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze".

    Frivoli?
    "Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l'uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso".

    Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
    "Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane".

    Come fu il dopoguerra a Roma?
    "Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l'università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un'idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò".

    Cosa intende per esoterico?
    "Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall'Ashram di Aurobindo".

    Il santone indiano?
    "Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l'India. Si incamminò verso l'India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma".

    E qui cosa accadde?
    "Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po' tutti quando, all'inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down".

    E lei in tutto questo che c'entrava?
    "Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso".

    Quale?
    "A Roma si era formata una enclave di junghiani".

    Lo dice come fosse una setta.
    "In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona".

    Chi era?
    "Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista".

    E cosa decise?
    "Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso "romanzo storico", scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino".

    Cosa le disse Calvino?
    "Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni".

    Che anno era?
    "Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l'ultimo sussulto lo ebbe con l'estate dei poeti nel luglio del 1979".

    Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
    "Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c'era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie".

    E cosa accadde?
    "Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l'evento poté finalmente decollare".

    Fu un canto del cigno.
    "Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci".

    Come reagì la Pivano?
    "Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C'era nell'aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell'estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone".

    Al quale in seguito ha dedicato un libro.
    "Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell'Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito".

    Lasciando qualche trauma?
    "No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere".??Chi per esempio??"La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo '63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l'oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l'inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi".

    Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
    "Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all'arte di dimenticare".

    Curioso per una donna che ricorda tutto.
    "Sono d'accordo, ma considero quell'arte suprema".??Perché??"Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un'immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C'è la dea Maat che sta sulla soglia dell'aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no".

    E come conosce l'anima dei defunti?
    "Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull'altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell'aldilà".

    Lei crede nell'aldilà?
    "Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita".

    sabato 12 luglio 2014

    Ritratto di Eugenio Borgna

    Il 26 maggio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
    e l'intervista di Antonio Gnoli
    a Eugenio Borgna 

    Eugenio Borgna: "L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra"

    Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina
    di ANTONIO GNOLI

    LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. Nelle movenze dinoccolate di quest'uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l'altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell'ascolto. Ci fermiamo, vista l'ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: "Qui veniva Scalfaro", ricorda Borgna.

    E ho l'impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.

    Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
    "Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita".

    Che ha avuto inizio dove?
    "A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l'adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l'ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo".

    Quanto durò?
    "Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l'Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose ".

    Perché quel tipo di scelta?
    "Sulle orme paterne avrei potuto fare l'avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza".

    Essere autentici è un dovere?
    "Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".

    Mi faccia capire.
    "Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".

    Perché?
    "Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".

    Non le bastava la verità clinica?
    "No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".

    E invece?
    "Decisi  -  tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici  -  di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".

    Una scena irreale?
    "Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".

    Come reagì?
    "Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".

    Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
    "Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".

    Non è facile trovare un varco per la comprensione.
    "Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".

    Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
    "La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".

    Si insinua nel mutamento degli orizzonti di vita?
    "Esattamente. E può essere vista come un'anarchica e totale perdita di senso, oppure essere riconosciuta, compresa e utilizzata solo se si riesce a guardarla con un forte atteggiamento interiore".

    Intende dire che ci si deve porre alla stessa altezza della malattia?
    "Intendo dire che le radici della malattia sono esistenziali e non cliniche. E questa convinzione fa venir meno il rapporto asimmetrico tra medico e paziente".

    Ma è pur sempre il medico che decide per l'eguaglianza.
    "È vero. Ma con quella decisione è il medico a mettersi in discussione. Negli anni della mia professione ho capito che o si tenta di rivivere le cause del dolore e dell'angoscia degli altri, con tutte le risonanze e i rischi personali, oppure si è destinati al fallimento".

    C'è un modo certo per registrare questo fallimento?
    "La nostra maschera portata davanti a chi vive immerso in una condizione schizofrenica è immediatamente percepita nella sua insopportabile finzione e lontananza ".

    Cos'è per lei la guarigione?
    "Parlando di guarigione in psichiatria c'è il rischio di sconfinare in una segreta violenza".

    Cioè?
    "Intesa in senso dogmatico la guarigione vorrebbe sanare tutto; risolvere ogni problema legato alla malattia ".

    E invece?
    "La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L'altra faccia, se vuole, del modo in cui la scienza dell'anima si è lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest'ombra ".

    Non ha mai temuto di essere lei stesso avvolto o sfiorato da quell'ombra?
    "Mi sta chiedendo se il peso di ciò che ho sostenuto in questi lunghi anni mi abbia in qualche modo coinvolto più del dovuto?".

    Sì. Nel senso che se si fa propria la sofferenza del paziente cade ogni distinzione.
    "Viene meno la distanza e con essa ci si apre alla sofferenza dell'altro. Penso anche che la sofferenza sia una condizione necessaria alla via della conoscenza" .

    Ma è una domanda più diretta che vorrei farle e che spieghi la sua "posizione scomoda": ha mai sofferto di depressione?
    "Sì, è un universo che in alcune fasi della mia vita mi ha inghiottito".

    E cosa si prova?
    "Nella depressione si vive come sprofondati nel passato. Non si vede più il futuro né la speranza. Si blocca la percezione del cambiamento; si sprofonda nelle cose avvenute che non mutano mai. E poi affiora l'esperienza fiammeggiante della colpa: una delle ragioni del nostro strazio. Ma nei miei quarant'anni di manicomio ho imparato che ci sono tante forme di depressione a seconda dei nostri caratteri e delle nostre emozioni. Teresa di Lisieux vedeva nella malinconia il sentiero per conoscere Dio".

    C'è un nesso tra psichiatria e misticismo?
    "Ovviamente no se si considera la psichiatria solo una scienza positiva. Ma le esperienze mistiche ci inducono a riflettere sugli abissi dell'anima, sulle sue lacerazioni. E non può immaginare quante volte mi sia trovato davanti alle oscure notti dell'anima".

    Si nota quasi un desiderio di ricorrere alla religione.
    "Non alla religione in quanto tale. Ma a certe sue pratiche: voler camminare con l'altro, immedesimarsi nell'altro. Si parla tanto di etica. Dove pensa debba stare tra il cuore di ghiaccio e il cuore segnato dal dolore? Dalla sofferenza occorre uscire. Ma guai non averla mai provata in vita".

    Crede in Dio?
    "Credo in senso pascaliano all'idea del mistero. Non credo a un Dio razionale che ordina il mondo. Oltretutto, visti i risultati, sarebbe stato un pessimo architetto. Ciascuno deve fare bene il proprio lavoro".

    E il suo, ora che non ha più l'ospedale?
    "Continuo a dedicare parte del mio tempo ai pazienti. Senza di loro mi sarei trasformato in un piccolo funzionario. Decida lei se del bene o del male".

    E il resto della giornata che fa?
    "Leggo e scrivo i miei libri. È un'altra maniera di raccontare il dolore e le fragilità umane. A volte per mesi non riesco a scrivere. È come se il buio calasse in me. Durò a lungo dopo la scomparsa di mia moglie".

    Cosa accadde?
    "Soffriva di una malattia autoimmune. Se la trascinò per buona parte della vita. E provai spesso dolore e disperazione. Morì 14 anni fa. Era una psichiatra infantile. Con un carattere molto dolce. Ancora oggi ne avverto il vuoto".

    Cos'è la mancanza?
    "Qualcosa che ci accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra parentesi. Ma si può ingabbiare ciò che non avremo mai più?".

    Le cose passano. Destinate come sono a finire. Soprattutto nell'orizzonte della vecchiaia.
    "Muta la luce, non necessariamente la materia".

    E la vecchiaia di uno psichiatra?
    "Perché dovrebbe essere diversa da quella di un fabbro o di un insegnante di matematica? Conta molto il destino di come è stata la propria vita".

    Destino è una parola impalpabile.
    "Sono le migliori. Le meno usurate. Il destino non lo intendo come la macchina inesorabile del fato. È sapere ancora una volta leggere dentro di sé. Riconoscersi. Freud lo fece da giovane e da vecchio. Fino a quando le forze lo sorressero continuò a lavorare. L'importante è non farsi divorare dall'homo faber. Solo così si ha più tempo per ascoltare".

    Non teme il tempo della clessidra?
    "Lo temo oggi come lo temevo da giovane. Ho sempre avuto la percezione acutissima dell'imprevedibile. Il morire era per me una possibilità immanente a trent'anni e adesso".

    Citava Freud. Che rapporto ha con la psicoanalisi?
    "Nessuno in particolare. È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la schizofrenia".

    Perché?
    "Gli schizofrenici non possono raccontare i loro sogni perché non sognano. Servono altre strade. Altre parole. Starei per dire altri dolori. Sa una cosa che vorrei?".

    Dica.
    "Vorrei che non ci fossero più giorni muti e senza parole. Vorrei che anche quando il silenzio avvolgesse le nostre vite esso avesse la forma della dignità e non dell'indifferenza ".