lunedì 18 novembre 2019

Sergio Staino ed il suo Hello, Jesus!



SERGIO STAINO
su Robinson di Repubblica
di Riccardo Mannelli




 Anche se sono ateo, vi dico: non toccatemi Gesù. Sono sempre stato affascinato da questa figura, una persona gentile e pacifica che però si incazzava al punto giusto: per esempio la cacciata dei mercanti nel tempio...”.

Hello, Jesus!

Evviva! Evviva! Evviva! Laudata sia la casa editrice Giunti che con grande coraggio ha pubblicato ben 140 tavole di "Hello, Jesus!", la dolcissima e inquietante creatura rivisitata attraverso la mia penna.


"Aspetto con ansia il giorno in cui la vedrò bruciare tra le fiamme dell'inferno al fianco di
quell'attorucolo che oggi siede sul seggio di San Pietro". Questo fu uno dei messaggi arrivatimi nel periodo in cui ho pubblicato le avventure di Jesus sul generoso giornale Avvenire, poi la CEI mi ha ritenuto un po' troppo imbarazzante e mi ha fatto uscire dal giornale con gran dolore del suo direttore, il simpatico e bravo Marco Tarquinio.
Una quarantina delle 52 tavole pubblicate su Avvenire le potete ritrovare in questo libro insieme ad un centinaio di nuove. In pratica 140 tavole che aiutano a rileggere con riso e, spero, con tanta intelligenza una delle più grandi figure apparse sulla faccia della terra. Per me non solo grande ma, a saperlo leggere, imperitura fonte di grandi valori etici e politici. Se non ci credete leggete qui la bella introduzione che ha scritto per il mio libro Morgan.
Vi allego la copertina, già ricca di presentimenti. Ve lo aspettavate un Gesù che serenamente strimpella "Imagine" di John Lennon? Proprio quella frase che dice "Immagina che non esista il paradiso, è facile se ci provi". Come non volergli bene? Allora dimostrate il bene che si merita insieme all'affetto verso me correndo subito in libreria. Aspetto qui i vostri commenti.
Baci e abbracci
Sergio



Retrocopertina "Hello, Jesus!", Giunti Editore
Siccome siamo (quasi) tutti un po’ cristiani, credenti o no, ci succede continuamente di vedere in trasparenza le cose del nostro mondo attraverso quelle della famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, e i loro vicini. Attraverso la fuga in Egitto, per esempio. “Babbo, quando scappammo noi all’estero come eravamo catalogati: profughi, perseguitati o migranti economici?” “Che cavolo dici, Jesus? Siamo scappati in Egitto, mica in Europa”. Jesus somiglia al figlio di Bobo, Bobo somiglia a Giuseppe e così via. Maria: “Jesus! Sempre con questo computer… ti rovinerai la vista”. “Sto rispondendo ai messaggi di auguri, mamma”. “Ne hai tanti?” “Eh, sì”. “Gaspare, Melchiorre, Baldassarre?! Proprio loro?” “Certo”. “Ma non dovevano arrivare oggi?” “Dovevano… li hanno scambiati per giornalisti e sono in galera in Turchia”. Sergio Staino prende con quella sacra famiglia una confidenza affettuosa, piacque a Marco Tarquinio e dopo un anno dispiacque a qualche suo lettore geloso del proprio Gesù, fu una bella esperienza, avveniristica, un anno santo, diciamo. Ora è un bel libro, “Hello Jesus”, Giunti editore. L’amico fidato Peter lo accompagna alla cabina elettorale: “Mi raccomando, Jesus, vota bene!... E ricordati: DIO TI VEDE!” Lui lo guarda interdetto, e Peter si morde la lingua: “Mio Dio, che cosa ho detto? L’avrò offeso?” Ma Jesus s’illumina e lo abbraccia ridendo: “Ah ah, L’ho capita adesso! Fortissima Peter!” Io vedo spesso Staino, lo guardo disegnare, lui mi vede sempre meno, lui disegna, quasi a memoria, ma lasciando che la mano tremi libera, e disegni la rete, quella vera, quella delle ong: “Farò di voi pescatori di uomini”. Il libro è brevemente introdotto da Morgan, quel Morgan – matto da legare, come si deve. Gli sarebbe piaciuto Gesù, dice. Anche a Gesù. Sai che musica.
Adriano Sofri




 Per gentile concessione della casa editrice Giunti pubblichiamo l’introduzione di Morgan al nuovo libro di Sergio Staino ‘Hello, Jesus’(pp 144, euro 18). Ecco l’introduzione:

“La Santa Romana Chiesa non ha certo contribuito alla causa del rock and roll, eppure Gesù Cristo è il modello di quasi tutti i nostri beniamini. Ovvio, i Romani hanno commesso il delitto di torturare un idolo delle folle, un giovane colto e lucido, intelligente, che era decisamente capace di attirare attenzione e consensi senza l’uso della forza o delle armi ma con le parole e la gentilezza. Questo ha determinato la sua fine. I potenti dell’epoca hanno sentito minacciata quella autorità da loro ottenuta al costo di tante guerre e massacri. Probabilmente solo il costantiniano “in hoc signo vinces” determinò il passaggio di quel simbolo dalle mani degli umili a quelle dei potenti. Ma anche i seguaci più vicini a lui in status e sentimento, nella loro lunga sofferenza per le tante persecuzioni, hanno scelto di enfatizzare nel ricordo l’immagine di questo momento di suprema ingiustizia.
    Fortunatamente a fianco di quest’uso multiforme della croce, da simbolo di guerra a simbolo di pace e solidarietà, ha continuato a vivere una iconografia più umana e quotidiana di un Cristo legato al popolo o ai bambini e financo in veste di pastore di tante umili pecorelle. Credo sia questo sentimento che evocano queste immagini di vita comune che spinge molti di noi a distogliere lo sguardo da quella con- dizione disumana preferendo un Gesù vivo e nel pieno delle sue virtù. Sergio Staino sicuramente è uno di questi e il suo è il Gesù che si trova bene in mezzo alla gente, a quella più umile e semplice.
    Anch’io la penso così. Anch’io ho sentito sempre Cristo, sia come figura storica che come figura mistica che si incorpora.
    Uomo prezioso che faceva innamorare tutti. A me sarebbe piaciuto tanto conoscere quel Gesù, chissà che buon profumo emanava dalla bocca. E vedere come faceva i miracoli. Credo fossero qualcosa di molto simile a quello che ho letto e visto questa notte nelle pagine di Staino, ridendo parecchio della reazione degli astanti, le loro facce stranite e i punti di domanda nella zucca. Il miracolo non ha nulla a che fare con le stregonerie ma è il coraggio dell’intelligenza e dell’ingenuità, è un gioco da ragazzi, a patto che dentro si sia capaci di essere ragazzi e di giocare. Il miracolo, a quei tempi sanguinolenti e involuti, era qualcuno che limpidamente diceva: «Guarda che secondo me tu cammini benissimo, le tue gambe non hanno problemi, prova ad alzarti». «Ma come faccio? È da quando sono nato che tutti, a partire dai miei genitori e chiunque altro mi veda mi dice che io non cammino.» «Secondo me non è così. Proviamo a togliere quelle assurde fascia- ture che si ostinano a metterti, forse ti sentirai più libero.» Miracolo! Miracolo! Cammina! Esattamente come qui Jesus accorre per liberare dal maligno la bambina, e l’esorcismo si compie nello spegnere la tivù. In effetti era il vero gesto necessario, che nessuno era riuscito a concepire, neanche si erano accorti del televisore perché assuefatti.
    Jesus di Staino è il Personal Jesus di Johnny Cash, che è quello dei Depeche Mode, è il Cristo di Piero Ciampi, di Martin Scorsese, e, se vogliamo andare più sul recente, dell’ultimo album di Vinicio Capossela. Non è quello del vangelo apocrifo, e nemmeno quello della remissione dei peccati, è il Gesù che finalmente vive, è vicino, è dentro di me, perché siamo riusciti in tempo a tirarlo giù da quella tristissima croce e sul muro ci abbiamo messo l’articolo di giornale con le facce di tutti i delinquenti che lo hanno punito ingiustamente, tutti fotografati dietro le sbarre, e questo per ricordarci tutti i giorni che chi commette un delitto così grave se ne va in galera nei secoli dei secoli. E ora, sdrammatizziamo un po’.
    (ANSA).


Sergio Staino
Disegnatore, fumettista, regista, Sergio Staino è uno dei più noti interpreti della satira politica in Italia. Conosciuto da tutti per lo storico personaggio di Bobo, ha pubblicato con Giunti, nel 2016, "Alla ricerca della pecora Fassina. Manuale per compagni incazzati, stanchi, smarriti ma sempre compagni." Ha collaborato da ottobre 2017 a ottobre 2018 con il quotidiano «Avvenire» pubblicando una serie di vignette dal titolo "Hello, Jesus!"

C’è una rabbia tenue e malinconica sul volto di Sergio Staino. Come se l’ironia di un grande satirico si fosse lasciata divorare dal tempo. Guardo i suoi occhi spenti. Mi appaiono come un organo che mentre muore rinasce altrove. In nuove percezioni e sensibilità, come se la prova dolorosa di una perdita venisse ricompensata con qualche altra parte del corpo. La natura, penso per attimo, non ti lascia mai interamente solo. Ma potrei mai barattare questa frase con il dolore che quella mancanza provoca?
Siamo in un ristorante di Scandicci a qualche chilometro da Firenze. C’è Bruna, la moglie peruviana di Sergio che lo accompagna, lo cura e lo assiste senza drammi, con leggerezza. Sono insieme da più di quarant’anni, senza gli equivoci della malattia con semplicità. Almeno è così che mi appare la scena. Staino ha da poco pubblicato le sue strisce dedicate a Gesù. Un anno di lavoro per il quotidiano l’Avvenire, poi le dimissioni, infine questo libretto ( Hello, Jesus edito da Giunti) intelligente e spiritoso.
Come hai scoperto Gesù?
«Lui mi piace, da sempre. A parte la mania di sentirsi il figlio di Dio, è disponibile, umano, fa perfino qualche miracolo. Quando disse gli uomini sono tutti uguali, inventò il socialismo. Poi qualche secolo dopo arrivò Marx che aggiunse: uguali va bene, ma non basta, unitevi!».
Era nata la sinistra?
«Per forza, anche perché tu lo vedresti Gesù a un comizio di Salvini?».
Salvini bacia il rosario.
«Potrebbe anche fare la via Crucis o travestirsi da Padre Pio. Come spottone elettorale forse gli andrebbe bene».
Staino, di’ la verità: hai sostituito la politica con la religione.
«Ma no, è che da quella parte arrivano vibrazioni positive».
Bobo sarebbe d’accordo?
«Lui va per conto proprio. A volte sono io a seguire lui, altre è il contrario».
Gli devi molto?
«Non sarei Staino senza di lui. Oltretutto quando l’ho creato è stato come rifare me stesso».
Nel senso?
«Dopo vari tentativi, avevo perfino immaginato la figura di uno psichiatra, mi sono detto: se facessi me stesso, quello che sono, con i miei difetti, forse potrebbe funzionare. E ho fatto la mia caricatura. Mi sono imbruttito: un po’ grasso con un naso grosso, gli occhiali, la barba e i capelli radi».
Così ti vedi?
«Già da bambino non pensavo di diventare un adone».
Com’eri da bambino?
«La sola cosa che mi piaceva veramente era disegnare. Leggevo i fumetti, soprattutto Walt Disney disegnato da Carl Barks, provavo e riprovavo a copiarli. Fu mia madre a incoraggiarmi. Del resto era l’unica cosa che potesse fare, vivevamo confinati in montagna e in seria ristrettezza».
Intendi dire che hai avuto una vita complicata?
«Sono nato sull’Amiata, a Piancastagnaio. Mio padre, carabiniere e meridionale, vi fu trasferito alla fine degli anni Trenta. Negli anni giovanili e anche dopo fu importante lo scrittore e teologo Ernesto Balducci, anche lui nato nelle zone dell’Amiata. Lì c’erano le cave di mercurio e il padre di Ernesto era un minatore. Mi ricordo le vasche colme di questo liquido denso e Balducci che mi diceva: qui siamo tutti un po’ matti perché respiriamo il mercurio».
Quanto sei restato a Piancastagnaio?
«Quando avevo cinque anni ci trasferimmo a Firenze. A sei calpestai un pulcino e lo uccisi. Mio nonno si incazzò. La verità è che non l’avevo visto. Cominciai allora ad avere problemi seri agli occhi. Fu in terza elementare che un maestro disse ai miei: questo bambino vede poco. Sbagliarono gli occhiali, invertendo le lenti, e la vista peggiorò spaventosamente. Non bastasse tutto questo, nel 1951 mio padre, simpatizzante comunista, fu sbattuto fuori dall’arma. Aprì un negozietto. Ma andò in depressione. Ecco perché alla fine disegnare fu la sola ancora di salvezza».
Com’eri a scuola?
«All’inizio sembravo un bambino promettente. Saltai perfino un paio di classi alle elementari e andai direttamente in prima media. Mi iscrissero alla Giosuè Carducci, una scuola per ragazzini ricchi e viziati. Lì cominciarono le umiliazioni e io cominciai a non andarci. Giravo per Firenze aspettando che si facesse l’ora dell’uscita. C’erano insegnanti orribili. Classisti. Mi vivevano come un corpo estraneo. Fui buttato fuori».
Dove andasti?
«I miei mi indirizzarono a un istituto per giovani apprendisti. I corsi li aveva istituiti Giacomo Devoto, il lessicografo e italianista. C’erano professori socialisti che insieme al lavoro nei laboratori ci insegnavano la Costituzione. Cominciavo ad aprirmi al mondo della cultura. Mi fecero conoscere i romanzi di Pratolini e Moravia. Ridivenni bravo al punto che, in seguito, mi iscrissi ad architettura e mi laureai con Giuseppe Samonà».
Continuava la tua passione per il disegno?
«Il fatto che avessi scelto architettura era la prova di un interesse costante. Che per un certo periodo fu condizionato dalla militanza politica. Finii nel gruppo dei marxisti leninisti — il Partito comunista d’Italia come si chiamava allora. Fu un decennio insulso, perso inseguendo pratiche politiche deliranti. Avevamo come mito la Cina e l’Albania del dittatore Enver Hoxha. Nel 1979 decisi di staccarmi da tutto questo. Non sapevo bene che fare. Avevo trentanove anni, un posto come insegnante in un istituto tecnico che probabilmente non mi avrebbe confermato e una compagna, che poi sarebbe diventata mia moglie, che mi spingeva a seguire la mia vocazione di vignettista».
Avevi già cominciato?
«Facevo delle strisce su giornalini locali. Alla fine decisi di spedirne alcune a Linus, considerato in quel momento il tempio del fumetto italiano. Era la fine di ottobre e non seppi nulla per più di un mese. Poi, a dicembre, la mia striscia con Bobo protagonista comparve su quelle pagine. Fu tutto merito di Oreste Del Buono che vide in me qualcosa che probabilmente neppure sapevo di avere».
Che ricordo hai di lui?
«Non c’era aspetto della vita sociale e culturale che non lo interessasse. Tieni conto che tutto quanto faceva — nell’ambito del fumetto, del fotoromanzo, del giallo, del romanzo di appendice e perfino della cronaca sportiva — era visto con sospetto dalla cultura ufficiale. Era vent’anni in anticipo su quello che sarebbe accaduto e credo che senza di lui non avrei scalato così rapidamente la scala della satira».
Un posto speciale in questa scala è occupato da “Tango”.
«Fu l’inserto satirico dell’Unità che feci nel 1986».
Chi ti chiamò?
«Fu Emanuele Macaluso, allora direttore dell’Unità a volermi e io ero francamente sorpreso. Gli dissi: beh, io posso anche venire a fare l’inserto, ma a condizione che mi senta libero di poter attaccare anche il Pci. È quello che voglio, mi rispose. Credo sia stata questa presenza dissacrante l’ingrediente del successo di Tango. Chiamai a collaborarvi Michele Serra, Riccardo Mannelli, Davide Riondino, Gino & Michele, ElleKappa, Paolo Hendel».
Che reazioni ci furono nel partito?
«Molto contrastanti. Pajetta mancava poco che mi aggredisse, diceva che facevo una cosa orrenda. Ricevevamo lettere di insulti anche dai militanti del partito. Ci dicevano che eravamo fascisti o berlusconiani. Ma la gran parte della base del partito visse quel momento come una liberazione. Poi ci fu l’altra grande esperienza di Cuore fatto da Serra».
Era un’evoluzione della satira?
«Forse senza Tango non ci sarebbe stato Cuore. Con la differenza che io facevo satira dentro il Pci, Michele indirizzò la propria verso il rampantismo socialista, era la satira sul successo berlusconiano. Oggi c’è meno bisogno di satira. Oggi i politici si dissacrano da sé».
A un certo punto della tua storia sei diventato direttore dell’”Unità”.
«Mi chiamò Matteo Renzi. Disse: Sergio con la tua esperienza e la tua immagine sei la persona giusta. Ricordati, inoltre, che Bobo è un brand. Non voglio un giornale sdraiato su di me, sentiti libero di far scrivere quello che vuoi. Ti affido un progetto e i soldi per rilanciare il giornale».
E tu?
«Gli ho creduto. Poi mi sono accorto che non c’erano né soldi né libertà. Gli telefonavo, niente; gli scrivevo, niente. Nessuna risposta. Visto il suo atteggiamento dissi che era un cafone. A quel punto mi chiamò: tu puoi dire quello che vuoi di me, ma non puoi darmi del cafone perché offendi mia madre. Che c’entra tua madre? Gli chiesi. C’entra perché è lei che mi ha dato l’educazione. Quando è finita, tutti i miei amici mi hanno rotto i coglioni con “te lo avevamo detto”».
Non ti è venuto prima il dubbio che tu fossi la persona sbagliata? Un direttore, se gli va bene, si confronta con il potere, non lo dissacra.
«Vero. Ma uno non può fare una cazzata nella vita?».
Il tuo rapporto con “Avvenire”? Anche lì sei durato poco.
«È stato diverso, e poi mi sono divertito. Da non credente penso che Gesù sia stato e continui a essere una risorsa preziosa. Io l’ho messo in una strip. Per un anno è andata. Poi nel giornale dei vescovi, i vescovi hanno preso il sopravvento».
Ora che stai facendo?
«Continuo a disegnare. Lo faccio al computer perché in pratica non vedo».
Cosa provi con questa menomazione?
«È difficile da spiegare. O forse è la cosa più semplice, se la vedi come la sottrazione di un organo o di una funzione. È stato un progressivo perdere qualcosa, un lento scivolare dentro una diversa dimensione. Credimi, non è che la cosa mi faccia piacere. Ma alla fine ci si abitua. Le ombre diventano una parte di te».
Che cosa hai avuto esattamente?
«Si tratta di una degenerazione retinica in alta miopia. La retina insomma invecchia precocemente. È come se il mio occhio oggi non avesse la mia età bensì centotrenta anni. All’inizio è stato sconvolgente. Perdevo le forme e poi i colori. E ora, mi dicevo, che cosa faccio? Poi un bel giorno ho deciso di non piangermi più addosso. E ho capito che dal disastro potevo estrarre qualcosa di prezioso. Anche la sfiga, come spiegai a una platea di ragazzi, può essere motrice di creatività».
Per te lo è stato?
«Penso di sì. In fondo ho cominciato a diventare famoso nel momento in cui mi sono accorto che sarei diventato cieco. Ancora oggi, so che se traccio un segno questo allenta la mia tensione, attenua il mio malessere, mi rende un po’ più felice o meno infelice».
Secondo te la sinistra crede ancora nella felicità?
«Io questa sinistra la capisco sempre meno. Capisco che ci sono stati tempi anche più complicati. Perfino violenti. Mi ricordo di una poesia di Berltolt Brecht, quando provò a giustificare la violenza. Scrisse: “Ah, noi che volevamo preparare il terreno alla gentilezza, noi non potevamo essere gentili”. Se non sei gentile non potrai mai essere felice. Sei solo uno stronzo. Capisci?».
Ma come vivi questa fase?
«Si è acuito il disagio. La politica mi dà ormai poche certezze. Soprattutto non ho più la certezza, o l’illusione, di poter modificare lo stato delle cose; ma ho la certezza di sapere cosa manca. Manca la passione per individuare gli obiettivi del cambiamento; manca la percezione della sofferenza degli altri. Manca la decenza minima. Tutti sbraitano per il loro quarto d’ora di mediocrità. Mi manca la satira. Ma visto come vanno le cose, se fossi superstizioso, toccherei ferro».
Antonio Gnoli, Robinson – la Repubblica, 16 novembre 2019

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