lunedì 3 dicembre 2018

Ritratto di Patty Pravo





PATTY PRAVO
su La Repubblica
testo di Antonio Gnoli ritratto di Riccardo Mannelli

Nel momento in cui sto per congedarmi dalla sua casa romana le chiedo se posso farle una foto. Mi guarda con la circospezione di chi sembra appena scesa da un’astronave; poi con gentilezza mi dice di attendere. Va in un’altra stanza e torna con un paio di occhiali scuri. Le chiedo che bisogno aveva di metterli. Mi dice che non è un problema di sicurezza o di estetica. Semplicemente gli occhiali segnano il confine tra il fuori e il dentro. «Il buio è una condizione che amo. Contrasta con il chiaro del mio corpo. Fin da bambina prediligevo il nero». Erano parecchi anni che non incrociavo Patty Pravo, non la sua voce — che è stata quasi sempre presente — ma la sua figura levigata, tenue, minuta, i suoi gesti che in scena accennano senza interferire, senza promuovere, in una specie di teatralità minimalista. Siede su un divano sotto un grande Tano Festa che la ritrae con un cappellone che sembra quello del lui dei Coniugi Arnolfini e che fa molto anni Settanta. Periodo pazzesco, sottolinea. La guardo e non riesco a trattenere il pensiero che sia una delle pochissime artiste che può vivere di rendita. Ora è appena uscito un suo nuovo cd: «È un pezzo della mia storia », dice, «ma la mia storia ha molto altro dentro». Tra tutti i grandi interpreti lei mi sembra la meno ossessionata dalla musica. «Le attribuisco lo stesso valore che do al silenzio. Forse hanno bisogno l’uno dell’altra». Cosa apprezza del silenzio? «Aiuta ad autosospendersi dal mondo. Un esercizio di purificazione. Mi accade ogni tanto di desiderare il silenzio sotto qualunque forma si manifesti: un viaggio da sola, una sosta in un luogo sconosciuto o, magari, essere semplicemente davanti a un uomo che ti guarda e tace. Questo mi fa tornare alla mente un episodio». Quale? «Ormai adolescente a Venezia, dove sono nata e dove ho vissuto, incrociai una coppia piuttosto anziana. Procedeva lentamente. Non sapevo chi fosse. Lei guardandomi sorrise. Lui sembrava un Jimi Hendrix invecchiato: i capelli erano una torre scomposta di riccioli, la barba rada e il pizzo gli davano un’aria mefistofelica. Lui era Ezra Pound e lei Olga Rudge, la compagna dell’uomo che non parlava mai. Mangiammo un gelato. Ci rivedemmo un’altra volta soltanto». Cosa accadde? «Nulla o almeno nulla di apparentemente significativo. Quella coppia che viveva alle Zattere e scendeva dall’imbarcadero sembrava fuori dal tempo. Lui non parlò mai. Seppi in seguito che era stato un grande poeta. Ma allora avevo quattordici anni ed ero solo Nicoletta Strambelli. Conservai quel ricordo come una preziosa gemma veneziana». Lasciò Venezia quando? «A diciassette anni andai a Londra. Chiesi il permesso a mia nonna, con la quale vivevo. Ho avuto un rapporto fantastico con lei. Capiva perfettamente le mie esigenze. Un giorno le raccontai che avevo fatto l’amore con un ragazzo. Si preoccupò solo che [...]

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