Lando Buzzanca, all'anagrafe Gerlando Buzzanca (Palermo, 24 agosto 1935[1] – Roma, 18 dicembre 2022), è stato un attore e cantante italiano.
Quando ho sentito della sua morte mi sono ricordata del bellissimo ritratto che gli aveva fatto Riccardo Mannelli e così ho deciso di farvene partecipi:
LANDO BUZZANCA
su Robinson di Repubblica agosto 2019
Articolo di Antonio Gnoli e ritratto di Riccardo Manelli.
Quando ha accettato di vedermi mi ha chiesto: è sicuro di voler venire? Certo che sono sicuro, gli ho detto. E lui ha detto sarà dura. E io ho chiesto perché dovrebbe essere dura? Perché non mi ricordo quasi più un cazzo, ha detto. Brutalmente. E io ho detto: per essere uno che non ricorda un cazzo mi sembra abbastanza in sé. Beh allora proviamo.
Va bene e ho pensato che “il merlo maschio” aveva ancora tutte le penne. In effetti Lando Buzzanca, 84 anni compiuti oggi, conserva un’invidiabile forma fisica: asciutto, elegante nella sua camicia bianca aperta. Ha sandali ai piedi. È un signore curato che dimostra meno degli anni che ha. La stanza che mi accoglie è piena di libri e di tracce dei suoi film. Ci sono le immancabili foto di scena. Le donne che hanno attraversato la sua carriera. Qualche premio.
Le piace essere ricordato come una delle ultime versioni del maschio latino?
«Non mi piace, anzi no. Non me ne frega niente. Di che stavamo parlando?».
Vorrei fare una prova con lei.
«Che prova?».
Vorrei che lei mi dicesse che cosa prova in questo momento?
«Ho come la sensazione di un muro dentro la testa. Le parole ci sono ma devono arrampicarsi sul muro e scavalcarlo. A volte non ce la fanno a salire e poi a scendere».
Le parole sono importanti?
«Sono la risorsa principale in un uomo. Fino a quando sono rimasto in Sicilia parlavo solo dialetto. Mi uscivano le parole, ma non mi bastava».
Cosa non le bastava?
«Volevo di più, volevo la lingua italiana».
In quale parte della Sicilia è nato?
«A Palermo. Presi il nome di mio nonno, Gerlando, che era un uomo straordinario. Chissà poi perché tutti i nonni hanno qualcosa di straordinario».
E suo padre?
«Un uomo comune. Non ricordo segni particolari. So che quando smisi il liceo prima della maturità, mi guardò inorridito. Non capiva quel gesto che per me era pura ribellione».
Si ribellava a cosa?
«Ai confini dentro i quali ero destinato a restare. Ero magro, prestante, agile. Non uno sportivo. Ma qualcuno che nei propri sogni si vedeva già attore».
Cosa fece?
«Lasciai Palermo e venni a Roma. Fu la fame a segnare quel periodo. Abitavo in una pensioncina vicino alla stazione. Ma poi finii i soldi e le panchine divennero letti poco accoglienti. Mi aggiravo come un disperato con le piaghe ai piedi. Avevo 17 anni e addosso un odore insopportabile. Però ero bellissimo. Seppi che in un cinema non distante dalla stazione c’erano delle donne un po’ avanti nell’età che ti pagavano».
Si scoprì gigolò.
«Non avevo soldi e non c’era lavoro. Entrai in questo cinemino loschissimo. Si accontentavano di qualche bacio furtivo. Poi una sera una donna di cinquant’anni, lo sguardo lievemente strabico, mi chiese di accompagnarla in albergo. La seguii».
Cosa accadde?
«Lei si spogliò nuda. Mi sorprese perché aveva ancora un corpo bellissimo. Sentii una specie di attrazione. Mi chiese di dormire con lei tutta la notte. Accettai. Poi fui preso da un’ansia fortissima. Pensavo: ma che sto a fare qui? Sono scappato da Palermo per ridurmi a questo? Mi rivestii e feci il gesto di salutarla. Dalla borsetta estrasse una scacciacani e me la puntò addosso. Le dissi: ma che fai? Tu devi restare qui tutta la notte, gridò. Tutta la notte!».
Si spaventò?
«Forse sì, non me lo ricordo. Tentai di calmarla. Inventai che la mattina seguente avevo degli esami all’università. Le parlai a lungo. Si convinse a lasciarmi andare. E quella fu l’ultima volta che feci il gigolò»
Al cinema come arrivò?
«Feci tre anni di scuola di recitazione, una scuola americana che da anni non c’è più. Proprio gli americani stavano preparando il film Ben-Hur riuscii a farmi prendere per una particina. Interpretavo il ruolo di uno schiavo e dovevo chiedere da bere a Charlton Heston. Furono 4 giorni di lavorazione a 15 mila lire a giornata. Mi sembrava di essere diventato ricco».
Lo è diventato quando giunse a recitare ruoli importanti. Chi le offrì la prima occasione?
«Fu Pietro Germi che nel 1961 mi diede una parte secondaria in Divorzio all’italiana. Gli piacque il mio modo un po’ stralunato di recitare. Interpretavo il ruolo del fidanzato e poi marito della sorella del barone Fefè interpretato da Mastroianni. L’anno dopo feci I giorni contati di Elio Petri, ricordo un grandissimo Salvo Randone. Poi nuovamente Germi mi volle per Sedotta e abbandonata e infine mi offrì una parte per Signore e signori. Ma ero impegnato e gli dissi no a malincuore. Il film ebbe un successo straordinario, ottenendo perfino il Grand Prix a Cannes e quella fu la sola volta che mi pentii per un rifiuto».
Com’era Germi sul set?
«Non sprecava molte parole, a volte era duro e curava maniacalmente i dettagli. Mi dispiace che alla sua bravura non sia corrisposta l’attenzione della critica. Fu bollato come un regista di destra. Liquidato come un uomo d’ordine. Non c’era accusa peggiore negli anni sessanta per un artista».
Anche lei è stato considerato un uomo di destra.
«È vero, dicevano che i miei film incoraggiavano il peggiore sessismo. Poi quando, non tanti anni fa, ho interpretato il ruolo di un padre il cui figlio è gay, da destra hanno cominciato a dire che ero diventato di sinistra. La verità è che ho avuto la fortuna di poter scegliere».
E lei scelse “Il merlo maschio”, 1970.
«Le femministe insorsero senza capire che quel film era la tomba del machismo. Pasquale Festa Campanile aveva preso spunto da un racconto di Luciano Bianciardi. Mica l’ultimo arrivato».
La sua partner era Laura Antonelli.
«Fu scelta all’ultimo momento. Non sapevo nulla di lei. All’inizio ero contrariato, poi si dimostrò una grande professionista. Il merlo maschio ebbe un successo clamoroso in Francia e so che Jean-Paul Belmondo si innamorò di Laura vedendo quel film».
Cosa pensa del suo declino?
Terribile. Vidi le sue ultime foto, imbruttita in una maniera che non si poteva immaginare. Della donna bellissima che aveva avuto un ruolo nel Merlo maschio non c’era più traccia».
Quel film le ha lasciato appiccicata la fama di maschio latino.
«A me le donne sono sempre piaciute e non mi sono quasi mai tirato indietro. Però quando mi proposero la commedia sexy all’italiana ho rifiutato e sono passato a fare televisione e poi teatro».
Perché? In fondo l’erotismo pecoreccio di quegli anni divenne un fenomeno molto popolare. Un genere come gli spaghetti western.
«Ma erano commediole insulse. Le inquadrature di tette e culi superavano di gran lunga quelle del resto del corpo».
Eppure da lì uscirono attori come Lino Banfi.
«Mica parliamo di Lawrence Olivier. E poi Banfi si sarebbe imposto a prescindere».
So di un suo Don Giovanni tanto per restare in tema.
«Feci nel 1967 il film Don Giovanni in Sicilia per la regia di Lattuada. Poi, molto più tardi, portai a teatro la commedia di Molière. Tre anni in giro per l’Italia. Quello fu un momento di grande consapevolezza».
Che intende?
«Non lo so, non mi vengono le parole».
Pensava di essere maturato come artista?
«Esatto».
È diventato un attore completo.
«Mi hanno chiamato anche per ruoli drammatici e credo di non aver mai sfigurato».
Quanti film ha fatto?
«Più di novanta, non ho il conto preciso».
Quante donne ha avuto?
«Ci risiamo. Comunque tante, ma una sola ha contato veramente».
Chi?
«Mia moglie, siamo stati insieme per più di cinquant’anni. Non mi ricordo, scusa, quando è morta. Aspetta, aveva 73 anni. Ha sofferto molto e mi sono sentito un verme per tutti i tradimenti, le bugie, le implorazioni. Veniva da una famiglia ricca. Di gioiellieri. Suo padre le disse che aveva sposato un morto di fame. Forse era vero. Forse non doveva. Ma lei se ne è fregata».
Ho letto che da questa storia ne uscì con un tentativo di suicidio.
«Ma non è vero. Lo hanno scritto, ma non è vero. Stavo male, questo sì. Ma sono tutte minchiate. C’ho pensato. Ma sono tornato indietro. Non mi ricordo la dinamica. Ma sono tornato indietro. Come arretrare e poi uscire da un brutto sogno».
Torna mai in Sicilia?
«Tutto quello che ho dentro mi viene da lì. Ma non ci torno. Mi piace stare a Roma. Nonostante i topi, le buche, la mondezza è ancora la città che amo di più».
Ama anche qualcos’altro?
«Se è alle donne che pensi, ho una relazione con una che ha 40 anni meno di me. Le dico, lascia stare. Non vedi come sono ridotto? Non c’è verso. Si ostina a pensarmi come a una persona fondamentale».
Forse lo è.
«Forse la sposo, si chiama Francesca».
Fa ancora cinema?
«No, non sono in condizioni e poi, dico la verità, mi fanno proposte indecenti. Però c’è una cosa che se ci riesco mi piacerebbe dirti».
Quale cosa?
«Mi presento una mattina da Francesca e lei è davanti a me vestita da sposa. Io le dico: ti ho portato dei fiori. Lei mi guarda e con disappunto nota che sono vestito male. Poi dice: ma lo sai che dobbiamo sposarci e i testimoni sono nell’altra stanza che attendono? Io tiro fuori un foglietto dalla tasca dei pantaloni, lo leggo e le dico: qui non c’è scritto che dovevamo sposarci».
È un sogno?
«Non lo so più. Forse è un sogno, forse è la scena di un film che mi piacerebbe girare e interpretare».
Sogna spesso?
«Non molto, ma quando sogno in genere sono i personaggi che ho interpretato. È come se mi fossero restati attaccati addosso. Io ho una mia teoria sugli attori».
Quale?
«O ti cali nel personaggio fino a diventarlo interamente; oppure reciti una parte e allora sei un semplice attore».
Le viene in mente un esempio?
«Marcello Mastroianni era personaggio. Era come se non recitasse. In Divorzio all’italiana era veramente il barone Fefè. Vittorio Gassman fu più attore, con l’eccezione di due film in cui fu personaggio: Il sorpasso e Profumo di donna. Le piace la mia teoria?».
È stato più attore o personaggio?
«Io spero più personaggio, anche se non spetta a me dirlo».
Com’è una sua giornata?
«Non lo so, non ci penso. Però stamane mi sono alzato con la paura di doverti incontrare. Dal 2017 è come se nel mio cervello avessi innestato la retromarcia o il freno tirato. Non lo so. Mi prescrivono farmaci. Dicono: servono per la memoria. Ma quale memoria? Il futuro non mi spaventa. Il passato sì. Non riesco più a starci bene. È come un abito troppo stretto. Se morissi sarei contento, che cazzo mi significa più questa vita? Francesca è convinta che arriverò a cento anni. Ma a che mi serve, non è più vita è solo una stronzata».
Lando Buzzanca, l'istrione della commedia che non riuscì a farsi amare dalla critica
L’attore è morto a Roma a 87 anni. L’esordio con i maestri, i film sexy e un’etichetta, culturale e ideologica, che si portò dietro tutta la vita
Sgombriamo il campo da ogni equivoco: Lando Buzzanca, morto a Roma all’età di 87 anni, è stato un ottimo attore. E per alcuni anni – soprattutto per un decennio, gli anni 70 – è stato un divo, capace di raggiungere una popolarità tutt’altro che univoca. Era il divo dei film sexy, grazie a pellicole firmate da registi come Marco Vicario (Homo eroticus) e Pasquale Festa Campanile (Il merlo maschio) delle quali, poi, parleremo. Ma era anche un divo televisivo, quindi per famiglie, capace di tener testa a una vedette assoluta come Delia Scala in una commedia musicale (Signore e signora) che nell’inverno del 1970 fece ascolti pazzeschi sul primo canale della Rai. E la sua immagine di “homo eroticus” era talmente forte che venne intitolato Lando uno di quei fumetti scollacciati che venivano letti praticamente solo nelle caserme.
Anni dopo, Buzzanca aveva un rapporto ambivalente con questo passato così complesso. Era orgoglioso del successo che aveva ottenuto, e al tempo stesso sembrava volersene distaccare accettando ruoli lontanissimi dal proprio cliché, come quello di un anziano omosessuale nel film Chi salverà le rose? di Cesare Furesi, del 2017. Si lamentava spesso e volentieri di un presunto ostracismo esercitato nei suoi confronti “dalla sinistra”, e al tempo stesso parlava quasi con ironia della sua militanza in Alleanza Nazionale (raccontava che quando Gianfranco Fini gli aveva proposto di candidarsi alle elezioni, gli avesse chiesto quanto guadagnasse un deputato e avesse quindi rifiutato ridendo, perché quei soldi “io li guadagno in una settimana”).
E pensare che una delle prime cose importanti, al cinema, l’aveva fatta con Luchino Visconti, noto comunista: nel 1963 (a 28 anni) aveva doppiato il personaggio di Don Ciccio Tumeo, interpretato da Serge Reggiani, ne Il Gattopardo. È assolutamente vero che negli anni 70 i suoi film venivano stroncati “a prescindere”, avrebbe detto Totò, dalla critica di sinistra: da un lato sarà bene dire che molti erano veramente brutti, dall’altro è giusto rimarcare che una critica troppo attenta al cinema autoriale non si sforzò minimamente di capire alcuni dei ruoli che portarono Buzzanca alla popolarità. Proviamo a farlo adesso.
Buzzanca, al cinema, partì bene, con ruoli magari piccoli in film di grandi registi: Pietro Germi, Elio Petri, Antonio Pietrangeli, Luciano Salce, Steno, Dino Risi (appare in un episodio di I mostri). Poi apparve in ruoli “alimentari” in alcune parodie, come Ringo e Gringo contro tutti di Bruno Corbucci e Per qualche dollaro in meno di Mario Mattoli. Paradossalmente fu proprio un film d’autore, Don Giovanni in Sicilia di Alberto Lattuada (1967), a cucirgli addosso lo stereotipo del siciliano sessualmente focoso.
Al grande pubblico piacevano ovviamente gli aspetti più esteriori di quei personaggi; la critica non colse, però, quanto la messinscena del maschio italiota aggressivo nascondesse risvolti oscuri, quasi patologici. Homo eroticus è in sostanza la storia di una malattia: un uomo del Sud che ha successo fra le donne borghesi e insoddisfatte del Nord perché affetto da triorchidismo, ovvero da un numero eccessivo di testicoli. Il merlo maschio racconta di un uomo frustrato che sfrutta l’esibizionismo della moglie per fare carriera. L’uccello migratore di Steno è la storia di un insegnante meridionale completamente spaesato nella Roma della politica e della contestazione. Io e lui (di Luciano Salce, dal famoso romanzo di Moravia) è una storia in cui “lui”, l’organo sessuale maschile, porta il proprio “padrone” alla rovina. E così via. In questi film Buzzanca sarà anche un macho, ma è quasi sempre un disadattato.
L’attore, ovviamente, era tanto bravo e intelligente da saperlo benissimo. Infatti in questi film – e nei tanti film commerciali girati in quegli anni – il registro espressivo più utilizzato da Buzzanca è il grottesco, condito con abbondanti dosi di ironia. Non aveva il “fisico” del comico, ma di fatto lo era. Non lo si può assimilare né ai “colonnelli” della commedia all’italiana, né ai comici delle commedie di serie C (Bombolo, Alvaro Vitali…): di fatto frequentava un genere tutto suo, che ha contribuito ai favolosi incassi del cinema in un’epoca in cui gli italiani riempivano le sale come se non ci fosse un domani.
Successivamente, al cinema e in tv, ha avuto l’occasione di mostrare il proprio talento: ad esempio comparendo in I viceré di Roberto Faenza (2007), ispirato allo stupendo romanzo di Federico De Roberto; o in serie tv di qualità come Il restauratore, andata in onda su Rai 1 dal 2012 al 2014; e come Mio figlio (prodotta da Rai Fiction nel 2005) nella quale interpreta un anziano commissario che fatica ad accettare l’omosessualità del figlio. Ruolo per il quale, per i bizzarri giri della storia, dell’opinione pubblica e del comune senso del pudore, ha ricevuto critiche da parte di diversi esponenti del centrodestra.
Lando Buzzanca sembrava destinato a non accontentare mai nessuno, a cominciare da se stesso. Solo il pubblico non l’ha mai tradito. E in fondo, questa era la sua più grande soddisfazione.