Su la
Repubblica un grande ritratto di
Riccardo Mannelli
e l'intervista di
Antonio Gnoli
a
Zerocalcare
Zerocalcare: "L’armadillo è la mia coscienza, che fatica stare con le persone"
Il fumettista, al secolo Michele Rech, dall’adolescenza frequenta il mondo dei centri sociali romani. Ed è grazie a questa rete che nel 2015 va a Kobane, per dare solidaretà al popolo curdo: dall’esperienza nasce la storia di "Kobane Calling"
di
ANTONIO GNOLI
Come la gallina di Cochi e Renato, anche il mammut è un animale intelligente. Me lo vedo comparire effigiato su un muro della stazione della metropolitana di Rebibbia, quartiere periferico di Roma. Il pachiderma ha un'aria rassegnata. Sembra una mongolfiera uscita dalla preistoria. Sul groppone è salita un po' di gente. Sono personaggi disegnati da Zerocalcare. Questo esempio di street art porta la sua firma. Leggo delle scritte. La più eloquente dice: "Qui ci manca tutto", "Non ci serve niente". Nella sua asciutta e ironica sintesi, vale un trattato di sociologia urbana. C'è anche scritto, sulla testa del bestione: Welcome to Rebibbia.
Benvenuto dove: nel paese dei sogni, dell'autarchia, della disperazione? Rebibbia, carcere a parte, ha un'aria solida e tranquilla. Zerocalcare, al secolo Michele Rech, ci vive da sempre. Vado a trovarlo. Per la sua fama di fumettista merita di essere stanato. Ho appena letto la nuova edizione de La profezia dell'armadillo (Bao Publishing), l'esordio con cui si è imposto su lettori e critica. Zerocalcare scrive e disegna storie malinconiche e surreali, ma tutte inclini a raccontarci il suo mondo quotidiano: la famiglia, i vicini di casa, gli amici e gli insopportabili.
Sei uno complicato?
"Preferirei definirmi "complesso", mi immagino come una persona che difficilmente si lascia decifrare".
Posso dirti una cosa?
"Di' pure".
Fa troppo caldo in questa casa.
"Patisco il freddo. Vivo la casa come un rifugio. È orribile dirlo così, ma è la verità: qualunque dentro è meglio di qualunque fuori".
Ne " La profezia dell'armadillo" vivi in casa con questo animale che sembra un incrocio tra un pitbull e una tartaruga. Chi è l'armadillo?
"Rappresenta la mia coscienza, che tende a chiudersi su di sé. Ho una parte inaccessibile e so di esserne anche molto geloso. Ti sto mostrando il lato più meschino".
È un animale della preistoria, un sopravvissuto.
" Ha aggirato le leggi dell'evoluzione, attraversando il tempo. Se credessi nella reincarnazione vorrei reincarnarmi nell'armadillo".
Basta che sia il tuo alter ego.
"È la voce principale. Poi ce ne sono altre. A volte mi ritrovo ospiti in casa. Gente che si accampa nel salone per una settimana. L'armadillo si allarma; entra in ansia; mi rimprovera; mi dice: che cazzo fai, non reagisci? Buttali fuori!".
E tu?
"Provo a ignorarlo. Ma so che è la mia voce autentica. Però mi sforzo. Lascio che il flusso delle altre voci invada il mio spazio. Si lotta spesso per la vita o per la morte. Chi mi legge pensa di conoscermi, ma non è così. Per me è faticoso passare molto tempo con le persone. È faticoso andare in vacanza, anche in coppia".
Faticoso perché?
"Mi costringe a indossare una deprimente maschera sociale. Dopo qualche ora ho nuovamente bisogno di stare solo".
Quando sei solo che ti succede?
"Mi rigenero".
Voglio dire che gesti fai?
"Non lo so. A volte incastro la testa tra due cuscini del divano, da un'angolazione tale per cui riesco a vedere la televisione. Oppure vado a correre. Oppure leggo. Gesti per me normali. Mi sono molto mancati quando sono andato a Kobane".
Ti riferisci al viaggio da cui hai ricavato "Kobane calling"?
"Sì, parliamo del 2015".
Come era nato quel progetto?
"Dai centri sociali legati al popolo curdo. Abbiamo chiesto alla comunità curda di raccontarci quello che accadeva e ci sembrava tutto molto intenso e drammatico. Abbiamo deciso di andare lì, portare medicinali e imparare qualcosa da quella situazione".
In quanti siete partiti?
"In sei. Il primo viaggio è durato una decina di giorni. Siamo rimasti sul confine tra la Turchia e la Siria. La seconda volta dalla Turchia siamo entrati in Iraq e poi in Siria".
Come hai vissuto l'impatto?
" Ogni cosa che pensavo o dicevo mi sembrava, all'inizio, filtrata dalla fascinazione dell'esotico. Quando ho scoperto che era tutto vero, ho provato una grande emozione".
Questa è la tua parte accessibile?
"C'ho messo parecchio a rendermene conto".
Più o meno quando è successo?
"Potevo avere sedici anni, è coinciso con la scoperta dei centri sociali. Mi sono immerso in una vita comunitaria che crea legami molto forti. Col tempo è diventato quasi tutto il mio mondo esterno".
Non ti spaventa una dipendenza così forte?
"No, mi spaventa piuttosto sapere che questi mondi hanno difficoltà legate alla burocrazia comunale, alle minacce di sfratto e al fatto che si sta sui telegiornali solo perché sei considerato violento".
Non mi hai spiegato cosa fa un centro sociale.
" La cosa importante sono i servizi che offre al quartiere: scuole per grandi e per immigrati, palestra, cibo, concerti. Tutto a prezzi popolari, fuori dal mercato".
Resta un mondo chiuso.
"C'è un equivoco su questo. La parte chiusa, che non ha bisogno di aprirsi verso l'esterno, è quella punk, una sottocultura musicale con i suoi codici. Il lavoro politico del centro ricomprende anche la gestione dei concerti, ma non si esaurisce con essi".
Come hanno reagito al tuo successo?
" Una parte con indifferenza, un'altra storcendo un po' il naso, infine ci sono quelli cui il mio lavoro è piaciuto".
Si erano accorti della tua bravura?
"Non credo proprio. Del resto il lavoro che ho fatto per il centro sono disegni di locandine, manifesti, cose del genere su cui non interviene nessuna decisione individuale".
Nel senso?
"È l'assemblea che decide cosa disegnare e cosa scrivere".
Non ti provoca disagio?
"No, si tratta di regole. Se le accetti non ti puoi lamentare. Il disagio lo provavo per un'altra cosa. Avrei preferito spillare birra al bancone o strappare i biglietti ai concerti piuttosto che disegnare".
Perché?
"Perché il mio lavoro si svolgeva a casa, da solo, e mi atterriva questa specie di piccola catena di montaggio".
Non hai detto che ti piace stare da solo?
"Sì, ma quello che svolgevo era un lavoro comune e non accettavo di doverlo fare in solitudine".
Nella solitudine si fa altro?
"Nella solitudine stai con te stesso, con la tua parte inaccessibile. Ti racconto una cosa. Quando ho cominciato a immaginare 'sta storia e ho preso a disegnarla, mi si è aperto un problema enorme. E mo' che faccio? A chi lo dico? Come reagiranno?".
Reagiranno chi?
" Le persone del centro sociale. Avevo disegnato queste piccole storie e mi vergognavo di farle vedere. E allora le ho tenute per me, finché un giorno le ho messe sul Facebook personale".
Era un modo per raccontarti?
"Direi di sì e a pensarci credo che la molla di tutto questo sia stata la morte di un'amica".
Che cosa ti ha fatto scattare?
" Pensavo a cosa, fino a quel momento, era stata la morte di persone vicine a me. Compagni e amici che se ne erano andati e che venivano ricordati dal mio mondo politico attraverso i suoi codici: un manifesto, un concerto, un incontro. Invece la morte di Camilla mi era da subito sembrata estranea a quel mondo. Avevo il terrore che se non avessi fissato la sua immagine non l'avrei più ricordata, l'avrei persa definitivamente, cancellata anche dalla memoria".
Hai un rapporto angoscioso col tempo?
"Ce l'ho con il passato; ma anche con quello che sto vivendo. Ora, ad esempio, ho l'ansia opposta".
Cioè?
"Disegnando Camilla, mi chiedo se non stia sostituendo il simulacro alla persona vera; se quell'immagine che realizzo di lei non impoverisca la Camilla che era stata e che non sarà più".
C'è sempre uno scarto, un resto con cui fare i conti.
" Per me più che un resto è un vuoto che non riesco mai a riempire del tutto. Non è un discorso razionale che ti sto facendo; ma so che la memoria, con i suoi riti e le sue forme, tradisce immancabilmente lo spirito autentico del ricordo".
Forse è inevitabile.
"Forse è solo il frutto della mia ansia. Il mio rapporto angoscioso col tempo, si manifesta nel vedere ogni cosa dalla prospettiva della sua fine".
Hai provato a superarlo?
"Ogni tentativo di risolvere questo rapporto, mi pone immancabilmente davanti ad altre domande".
Una scappatoia è provare a viverle certe cose, senza chiedersi dove andranno.
"Non riuscirci mi fa campare male. Vorrei crearmi delle solide fortezze che mi facciano scivolare addosso tutto. Forse è questa la ragione per cui reputo molto importante l'ambiente comunitario".
Com'eri da bambino?
"Una frana introversa. Alle feste, da adolescente non ballavo, non mangiavo, non parlavo. Poi avvenne l'incontro con Camilla. All'inizio degli anni Novanta. C'era una canzone che ci coinvolse: Bailando bailando. Anche qui, l'emozione che provai allora si trasformò in routine quando trasferii quella colonna sonora nel mio fumetto".
Forse stai ancora cercando il tuo limite.
"Che intendi?".
Dove finisce il dentro e comincia il fuori. Sono due legislazioni diverse che vanno accordate.
" Per me è difficile che comunichino. Mi piacerebbe che si fondessero. Ma non ci riesco. Mi tengo la mia zona invalicabile".
Hai mai lavorato fuori dai fumetti?
"Ho lavorato in aeroporto. Cronometravo le file al check-in, cioè quanto tempo impiegava una persona per lasciare il bagaglio e avere il posto in aereo".
Che lavoro era?
"Serviva a valutare l'efficienza di chi stava allo sportello. Tra le altre cose che facevo c'era anche l'intervista al passeggero. Dovevo interrogarlo, con una scusa, e scoprire i suoi gusti, i suoi spostamenti, e alla fine farmi dare il suo cellulare che sarebbe stato usato dall'azienda per scopi pubblicitari. Venivo pagato a seconda del numero di cellulari che riuscivo ad ottenere".
Un incubo per uno come te.
"Neanche tanto, l'aeroporto mi dava la sensazione di appartenere a un mondo più ampio".
Lo rimpiangi?
"No, anche se quello che venne dopo non fu molto meglio. Trovai una collocazione in uno studio di animazione. Facevo gli storyboard. Tutte le mattine da Roma a Formello. Per strapparmi l'ansia di dosso, mi fermavo una mezz'ora a guardare un gregge di pecore".
Ansia, perché?
"Non sapevo se sarei stato capace di realizzare quello che mi veniva imposto. Un giorno mi fu chiesto di disegnare un cavallo dal basso, cioè dalla soggettiva di uno gnomo dentro un fosso. C'ho provato, senza riuscirci. E allora ho detto che stavo male e me ne sono andato. E non sono più tornato. È stato un lavoro senza talento. Non era richiesto. Anzi guai a manifestarlo".
Quando hai cominciato a disegnare fumetti?
" Il primo fumetto fu quello legato ai fatti del G8 di Genova, nel 2001. Poi sono venute le cose più personali".
Che rapporto hai con i tuoi genitori?
"Vivono nel mio stesso quartiere. I miei erano separati; sono cresciuto con mia madre. A 23 anni sono andato via di casa. Non ce la facevo più. La distanza di qualche centinaio di metri ci ha fatto bene".
Hai conservato un buon rapporto?
"In questo senso sono molto figlio. A volte mi mette in crisi vederli così fragili. Mi fa quasi rabbia".
Cosa intendi?
"Si risvegliano degli istinti orribili. Se li vedo piangere mi verrebbe voglia di allontanarli a spintoni. In quei momenti non provo nessuna empatia. È disumano. Non riesco a gestire il dolore dei miei".
Perché è troppo forte?
" Non lo so, ma è come se riversassi su di loro un'immagine che non è restituita. Uno specchio cieco".
Hai imparato a lavorare sulle tue crisi?
" Da molto tempo non faccio altro. E sono le uniche cose che riesco a raccontare bene".
La sofferenza può diventare un impedimento.
"I fumetti che mi riescono meglio sono quelli influenzati dal dolore. Quelli fatti con mestiere non mi piacciono. Il problema è che non puoi dare tutte le tue crisi in pasto al pubblico. Devi decidere quale è l'asticella. E poi saltare".
Hai molto successo, come te lo vivi?
"Non ci penso; negli ultimi anni sono stato impegnato nel lavoro. Poco tempo fa mi sono concesso un'intera giornata libera e ho sentito una nostalgia fortissima e inspiegabile. Ho ricordato di quando avevo otto anni e sentivo quella stessa malinconia verso il passato. Ho ripensato al quartiere in cui sono nato e nel quale vivo e dal quale non riuscirei mai a separarmi".
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