OMAGGIO A GIUSEPPE D'AVANZO
Pubblicato da Grieco -http://www.coriandoli.it/vignette.aspx?sezione=satira&categoria=&view=
Giuseppe D'Avanzo (Napoli, 10 dicembre 1953 – Calcata, 30 luglio 2011) è stato un giornalista e scrittore italiano, firma del quotidiano
la Repubblica.
Queste le sue inchieste più famose:
- Il "Nigergate" - che vide approdare nel discorso sullo Stato dell'Unione di George W. Bush la falsa notizia del tentativo di Saddam Hussein di acquistare uranio del Niger, del tipo "yellowcake" - fu da lui ricollegato a un dossier costruito a Roma in ambienti contigui ad ambasciate africane e al Sismi, il servizio d'intelligence militare italiano (ma un anno prima, luglio 2004, Daniele Luttazzi aveva proposto lo stesso collegamento in un articolo pubblicato dal mensile Rolling Stone).[1]
- Il rapimento di Abu Omar fu da lui ripetutamente ricollegato non solo a un'attività clandestina della CIA in territorio italiano, ma a una vera e propria operazione congiunta degli statunitensi con il Sismi: la pubblicazione di indizi in tal proposito si valse delle prime indagini condotte dalla Procura di Milano, ma parve anche indirizzarle in un feedback alquanto inusuale, accennando alla possibilità che la rilevazione satellitare delle utenze di telefonia mobile dei rapitori indicasse che sul luogo del rapimento vi fossero anche agenti italiani.
- Scandalo Telecom-Sismi: La strada così aperta condusse all'individuazione della sinergia illecita tra il cosiddetto "Tiger team", una squadra di esperti informatici della Telecom-Italia e Sismi, che si sarebbe svolta sia per depistare le precedenti indagini, sia per mettere sotto controllo una serie di personaggi pubblici italiani. L'indagine in proposito è ancora in corso, ma le notizie sul "centro d'ascolto" di via Nazionale si sono arricchite nel 2006 della novità che lo stesso D'Avanzo sarebbe stato tra gli intercettati.
- Il caso delle "dieci domande" al Presidente del Consiglio, inaugurato dalle rivelazioni di Conchita Sannino della redazione partenopea di Repubblica in merito alla partecipazione di Silvio Berlusconi alla festa di compleanno di Noemi Letizia, una diciottenne di Portici, e, dopo la seconda lettera pubblica di Veronica Lario, oggetto di uno "speciale multimediale"[2] curato da D'Avanzo per rimarcare le presunte incoerenze nella ricostruzione pubblica della vicenda.
- Il caso delle "escort di Tarantini", saldato alla precedente inchiesta dalla decisione di Ezio Mauro di trasporvi parte delle domande rivolte dal suo giornale al Presidente del consiglio.
fonte Wikipedia
Riporto qui un articolo di D'Avanzo sul rugby. I giocatori di rugby sono leali, fanno squadra e non ammettono pastette.
Giuseppe D'Avanzo e il rugby per salvare l'Italia
Noi appassionati del rugby - diversi e un po' sfigati come può esserlo in Italia chi non ama il calcio - abbiamo un sogno: vedere l' 8 settembre a Marsiglia, quando l'Italia giocherà con gli All Blacks la partita di esordio dei Mondiali, il premier, il leader dell' opposizione. Perché no?, il capo dello Stato. In buona sostanza, chi ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese. Per un motivo elementare: abbiamo la convinzione che l'Italia abbia bisogno del rugby; che i princìpi del rugby consentano di guardare meglio lo «stato presente del costume degli italiani».
Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l'Italia. È un mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno esattamente di che cosa si tratta. È un peccato perché il rugby ha le stesse capacità mitopoietiche del calcio e, come il calcio, permette di interpretare il mondo. Dalla sua, il football può vantare moltissimi scrittori che si sono misurati con quest'impresa. Qui da noi con il rugby si è misurato soltanto, che io sappia, Alessandro Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che, per noi del rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di quelle cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne conoscono le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da psiche cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della scrittura. Mi sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco che nel rugby è chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa contestare l' accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il rugby.
Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico. L'omogeneità dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di Braque mi appare l'immagine rovesciata del rugby dove i giocatori devono irrompere continuamente nello spazio altrui. Il fatto è che faccio molta fatica a vedere nella leggiadria nuda e molle de Les demoiselles d'Avignon di Picasso l' di una "linea trequarti", nella certezza che non si possa trattare di un "pacchetto di mischia" (gli "avanti" hanno troppo da fare là sotto per essere leggiadri). Soprattutto i tempi non tornano.
Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d'Automne, il rugby era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è vero che uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d' irlandese di William Webb Ellis - nel Bigside della "pubblic school" di Rugby - di afferrare la palla con le mani e di non giocarla con i piedi, il 1 novembre del 1823. Qualcosa sulla natura del gioco vorrà, dovrà pure svelarsi se è nato nel terzo decennio dell' Ottocento e non nel primo del Novecento. La differenza - mi pare - è addirittura decisiva per comprendere quale cultura, nella sua fase originaria, sia custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel 1823 in Inghilterra è in corso una rivoluzione.
Il Paese - il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia - è "l'officina del mondo", un vortice impetuoso di scienza, tecnologia, industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le antiche demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori nelle campagne e artigiani nelle città. La forza di quel processo di modernizzazione in movimento in quegli anni divide più che unire. Nella grande Isola, scrive Benjamin Disraeli, ci sono "due Nazioni": «Non vi è comunità in Inghilterra. Crediamo di essere una Nazione e siamo due Nazioni sullo stesso territorio, due Nazioni ostili nei ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui qualche eco della nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci).
Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare ragioni comuni, l'urgenza di creare un sistema educativo capace di formare giuristi, medici, funzionari dello stato, scienziati che sappiano - sì - lavorare con efficienza, ma siano anche consapevoli dell' interesse pubblico e dotati di "buone maniere". In questo bisogno prende forma l'idea di Thomas Arnold, preside della Rugby School, l'autentico padre del gioco, al di là del mito fondativo che fa di William Webb Ellis l'eroe. Egli immagina un nuovo modello educativo fondato su una "cristianità energica", sul servizio alla collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità; una formazione innervata da valori che, senza rallentare "l'officina del mondo", cancelli la frattura che si è creata tra le "due Nazioni" con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un progetto non più "inconciliabile", ma condiviso. (Quanto questo sia necessario - oggi - all' Italia è inutile dire).
Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale in questa missione. Il corpo lo si può dire veramente "formato", conclude, soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine della "formazione morale". Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l' avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare serenamente e senza alibi l'esito della competizione. Una partita - soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby - apre il solco entro cui si definisce un ethos, un'idea di gentleman, un modo di stare al mondo e con gli altri. Offre la possibilità di dimostrare forza d' animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la materia grezza di quella etica del fair play, che trova il suo slogan nell'esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii uomo.
Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io. Credo che non sia coerente allora parlare di "follia", di "caos", di «una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici, separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in gara per conquistare l'area di meta e schiacciarvi l'ovale.
Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l' apparenza, è l'esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza gesuitismi o imposture.
Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l'odio è paura cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione gregaria, l'arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche, comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella specificità italiana che glorifica l'ingegno talentuoso e non il metodo. La furbizia e non la lealtà. L'inventiva e mai la preparazione. Il "miracolo" e mai l'organizzazione. L'individualità e mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del "gruppo chiuso" e mai il desiderio di farsi stimare da chi al "gruppo" (ceto, famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l'ammirazione che suscita nell' avversario. Il rugby - la comprensione del gioco, della sua nervatura, del suo spirito e consuetudine - spiegano, come meglio non si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del nostro stare insieme.
Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così estraneo all'identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio per riformarla. L'appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l' 8 settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man!
Giuseppe D'Avanzo - La Repubblica
D'Avanzo e il motto del rugby
Articolo di
Massimo Bordin pubblicato su Il Riformista, il 02/08/11
Non avevo mai letto un articolo di Giuseppe D'Avanzo sul rugby, di cui era grande appassionato. L'ho sentito leggere ieri al funerale laico di Peppe da Bruno Arpaia, uno scrittore suo amico. Quell'articolo mi è servito a capire una cosa in più. Non quanto fosse bravo D'Avanzo a scrivere, perché lo sapevo già. Nemmeno che lo sport sia una metafora della vita, perché questo è quasi un luogo comune.
L'elogio che D'Avanzo fa del rugby in quell'articolo è in realtà una affilata disamina dei nostri vizi nazionali. Uno sport che ha poche e semplici regole, infrangere le quali ha poco senso. Non c'è spazio per la furbizia né per estenuanti contestazioni e recriminazioni, anche perché la forza dello scontro fisico è ammessa e regolamentata al minimo indispensabile. Non c'è spazio per la furbizia e il dolo ma solo per la lealtà. Non c'è spazio per il funambolo ma solo per la squadra. Non ci si salva con un colpo di genio o di fortuna ma solo con l'organizzazione e l'altruismo. Insomma i valori del rugby sono l'esatto contrario di come si vive da noi la politica e non solo essa. Siamo un paese malato di calcio e di moviola. Ascoltavo quell'articolo e pensavo quante volte, anche molto recentemente, sui giornali vicini al governo si sia tessuto l'elogio di Berlusconi proprio come l'uomo che ha saputo portare in politica lo spirito, anzi il sogno del calcio. E pensavo che c'entrano fino a un certo punto le leggi ad personam o il "giustizialismo ", il partito di plastica o il giornale partito. Aiuta molto più il motto del rugby: «Gioca e sii uomo». Che è poi quello che ha fatto D'Avanzo, finché il suo cuore ha retto. (
fonte)
Link:
Giuseppe D'Avanzo, le grandi inchieste
"Ecco che cosa mi ha insegnatol'amicizia con Peppe D'Avanzo"(Roberto Saviano)