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lunedì 3 dicembre 2018

Ritratto di Patty Pravo





PATTY PRAVO
su La Repubblica
testo di Antonio Gnoli ritratto di Riccardo Mannelli

Nel momento in cui sto per congedarmi dalla sua casa romana le chiedo se posso farle una foto. Mi guarda con la circospezione di chi sembra appena scesa da un’astronave; poi con gentilezza mi dice di attendere. Va in un’altra stanza e torna con un paio di occhiali scuri. Le chiedo che bisogno aveva di metterli. Mi dice che non è un problema di sicurezza o di estetica. Semplicemente gli occhiali segnano il confine tra il fuori e il dentro. «Il buio è una condizione che amo. Contrasta con il chiaro del mio corpo. Fin da bambina prediligevo il nero». Erano parecchi anni che non incrociavo Patty Pravo, non la sua voce — che è stata quasi sempre presente — ma la sua figura levigata, tenue, minuta, i suoi gesti che in scena accennano senza interferire, senza promuovere, in una specie di teatralità minimalista. Siede su un divano sotto un grande Tano Festa che la ritrae con un cappellone che sembra quello del lui dei Coniugi Arnolfini e che fa molto anni Settanta. Periodo pazzesco, sottolinea. La guardo e non riesco a trattenere il pensiero che sia una delle pochissime artiste che può vivere di rendita. Ora è appena uscito un suo nuovo cd: «È un pezzo della mia storia », dice, «ma la mia storia ha molto altro dentro». Tra tutti i grandi interpreti lei mi sembra la meno ossessionata dalla musica. «Le attribuisco lo stesso valore che do al silenzio. Forse hanno bisogno l’uno dell’altra». Cosa apprezza del silenzio? «Aiuta ad autosospendersi dal mondo. Un esercizio di purificazione. Mi accade ogni tanto di desiderare il silenzio sotto qualunque forma si manifesti: un viaggio da sola, una sosta in un luogo sconosciuto o, magari, essere semplicemente davanti a un uomo che ti guarda e tace. Questo mi fa tornare alla mente un episodio». Quale? «Ormai adolescente a Venezia, dove sono nata e dove ho vissuto, incrociai una coppia piuttosto anziana. Procedeva lentamente. Non sapevo chi fosse. Lei guardandomi sorrise. Lui sembrava un Jimi Hendrix invecchiato: i capelli erano una torre scomposta di riccioli, la barba rada e il pizzo gli davano un’aria mefistofelica. Lui era Ezra Pound e lei Olga Rudge, la compagna dell’uomo che non parlava mai. Mangiammo un gelato. Ci rivedemmo un’altra volta soltanto». Cosa accadde? «Nulla o almeno nulla di apparentemente significativo. Quella coppia che viveva alle Zattere e scendeva dall’imbarcadero sembrava fuori dal tempo. Lui non parlò mai. Seppi in seguito che era stato un grande poeta. Ma allora avevo quattordici anni ed ero solo Nicoletta Strambelli. Conservai quel ricordo come una preziosa gemma veneziana». Lasciò Venezia quando? «A diciassette anni andai a Londra. Chiesi il permesso a mia nonna, con la quale vivevo. Ho avuto un rapporto fantastico con lei. Capiva perfettamente le mie esigenze. Un giorno le raccontai che avevo fatto l’amore con un ragazzo. Si preoccupò solo che [...]

lunedì 14 maggio 2018

Ritratto di Enrico Ruggeri





ENRICO RUGGERI
su La Repubblica
di Riccardo Mannelli



Enrico Ruggeri, inseguendo la “canzone alfa”
28 APRILE 2018
Il nonno morto d’infarto per il Re, il punk e l’accusa di essere di destra (“Per la sinistra conformista erano tutti fascisti”), Sanremo e il placet di Benigni
DI ANTONIO GNOLI

I suoi capelli biondo platino, tintura quasi albina, sembravano quelli di un piccolo divo di fotoromanzi o di un Warhol in controtendenza con gli eskimo degli anni Settanta. I vistosi occhiali dalla montatura bianca, che all'epoca contrastavano con quelli rosa di Ivan Graziani, furono il sugello di quegli anni apocrifi e nascosti di Rock decadente e di Punk aggressivo ed emarginato. Erano le vite che Enrico Ruggeri attraversava come una salamandra il fuoco: "Quante volte sono rinato... [...]


sabato 3 marzo 2018

GILLO DORFLES (1910 - 2018)

Teorico d'arte, pittore e filosofo era nato a Trieste nel 1910.  "Ripensò la categoria del Kitsch: dapprima come espressione del cattivo gusto, sempre più sfrenato e ubiquitario, in seguito come parte integrante dell’arte stessa"
Gillo Dorfles
© Riccardo Vecchio


GILLO DORFLES
E' la prima volta che vedo Gillo Dorfles senza cravatta. Ha un' eleganza domestica. Senza contrappunti stilistici. Mi accoglie nella penombra del salotto milanese nel quale trionfa un pianoforte a mezzacoda. Il professore è entrato nel centotreesimo anno di età. Essendo nato nel 1910, cioè quattro anni prima che scoppiasse la Grande Guerra, la figura di questo straordinario testimone fa pensare a qualcosa di irripetibile. Si muove ancora agile cercando di farmi accomodare su un bel divano posto proprio sotto una sua opera. Perché Dorfles, oltre a essere un critico d' arte, è un apprezzato pittore, e appassionato di musica moderna. Quasi a voler sottolineare, con tutto ciò, la sua aria di antipassatista. Il professore si scusa perché ad attenderlo tra un po' ci sarà una macchina che lo porterà dritto a un convegno internazionale dedicato all' estetica orientale e ai rapporti con l' Occidente. È incredibile l' attivismo che egli ancora esprime. E mentre gli sto per chiedere di che cosa parlerà, mi viene in mente che forse una delle prime manifestazioni del kitsch, di cui lui è stato un acuto teorico, la si può far risalire a quella curiosità culturale che dal diciannovesimo secolo in poi l' Occidente cominciò a nutrire nei riguardi dell' Oriente. «Il kitsch può manifestarsi ovunque. Di solito un fenomeno che diventa moda, stravolge, mortifica, banalizza, estende uno stile, amplifica un pensiero fino a perderne l' origine. Diventa appunto kitsch», sentenzia il professore.
 Si è mai sentito kitsch?
«Il kitschè più una categoria estetica che esistenziale. Anche se può coinvolgere la sensibilità personale. Dal punto di vista delle scelte e dei giudizi, quindi, direi proprio di no. Provo un certo orrore quando il gusto spinge verso il basso. Ma poi penso che il movimento discendente faccia parte della nostra società di massa».
Dalla quale comunque tenta di distinguersi. 

martedì 16 gennaio 2018

Ritratto di Francesco Guccini

Note di vita. Francesco Guccini racconta del padre e del loro rapporto: " Fu un uomo duro. Un montanaro. Scarno di parole e di affetti. Però mi ha sempre lasciato libero di fare quel che volevo.
Domenica 31 Dicembre 2017 ROBINSON
Accettò senza fiatare la mia scelta. Ma non è mai venuto a sentire un mio concerto. Non l'ho mai incoraggiato e lui ha sempre fatto finta di niente. In fondo se ne è sempre fregato del mio successo"
Ritratto di Riccardo Mannelli
Francesco Guccini
© Riccardo Mannelli



Io, la locomotiva e la musica che non viene più
Le osterie porti di mare, i miei amici cantanti E ora, il ritiro a Pavana, il posto (e il cibo) dei nonni
su Robinson
Antonio Gnoli

Gli ultimi fuochi sono quelli che bruciano più lentamente. Ricordo a Francesco Guccini un paio di nostri incontri persi nel passato. Ha l'aria svagata. E bruciori di stomaco che attenua con il carcadè: «Bevanda coloniale», ironizza. Come il chinotto, aggiungo. Siamo in cucina. Nella sua casa. A Pavana. Siamo alla fine di una storia. «Dove ci siamo visti?», chiede. Gli cito le occasioni e i luoghi. «Ah», fa lui e accarezza il gatto con svogliata tenerezza. È cortese, un po' assente: «Sono tre mesi che non fumo e dieci anni che non leggo » , dice trattenendo un'imprecazione. Pavana mi sembra lo sputo di un angelo tra due ali di Appennini.
Perché hai scelto di ritirarti a vivere qui?
«È l'ultimo luogo della mia resistenza: un paese che è stato infanzia e sogno, durezza e forza. Mi sembrava appropriato sceglierlo come il punto di approdo di tutta una vita».
Parli di resistenza, ma in che senso?
«Bisogna resistere: alle tentazioni inutili e dispersive; al degrado; allo svuotamento. Ma non sono qui per espiare, sono qui per testimoniare che è ancora possibile scegliersi una vita a misura».
Il rapporto con il paese com'è?
« Direi buono: nessun assillo, nessuna pretesa di eleggermi a gloria locale. Un tempo, all'inizio del Novecento, qui vivevano settemila persone, ne sono rimaste poco meno di millecinquecento. Il paese si è svuotato. Pochi giovani. Pochi sogni. Poche prospettive. Un tempo qui venivano a villeggiare. Oggi la gente si vergogna di posti così. La cosa più desolante è il fiume qui sotto. Era pieno di vita; ma oggi non ci va più nessuno. Ma lui se ne frega e continua a scorrere lento. C'è solo un airone cinerino che ogni tanto vola a pelo e poi si pianta in mezzo. Impalato nell'acqua, come un assurdo segnale di tristezza».
Sei nato a Pavana?
«No, i miei nonni ci vivevano. Sono nato a Modena. L'estate venivamo qui a villeggiare. A Modena sono rimasto fino a vent'anni. Nel 1960 ci trasferimmo a Bologna. Mio padre che era impiegato alle poste approfittò di un'offerta di lavoro. E portò la famiglia con sé».
Come erano i rapporti con tuo padre?
« Poca roba. Era stato in un campo di concentramento a Ravensbrück vicino ad Amburgo. Non amava parlarne. Seppi in seguito che con lui c'erano stati Giovanni Guareschi e Gian Enrico Tedeschi. Fu un uomo duro. Un montanaro. Scarno di parole e di affetti. Però mi ha sempre lasciato libero di fare quel che volevo».
Anche la vita del cantante?
«Mi ha sorpreso quando accettò senza fiatare la mia scelta. Ma non è mai venuto a sentire un mio concerto. Io non l'ho mai incoraggiato e lui ha sempre fatto finta di niente. In fondo se ne è sempre fregato del mio successo».
Anche tua madre stessa linea di comportamento?
«Meno drastica. Lei una volta venne a sentirmi cantare. Mi esibivo a Porretta Terme, a pochi chilometri da qui. Nessun commento, nessuna emozione».
Quando hai cominciato a cantare?
«Mi pare nel 1964, o giù di lì. Fu il mio primo contratto di centomila lire al mese. Ora mi viene in mente l'unico commento di mio padre: quanto durerà? Sai, era un uomo abituato a dare del voi a mia nonna. La mia musica non era il suo mondo».
Al tuo mondo come arrivasti?
«Non fu un percorso lineare. A Modena mi iscrissi a magistero, feci un solo esame e poi cominciai a lavorare come assistente in un istituto per orfani di dipendenti postali. Il collegio era a Pesaro. Non è che fossi particolarmente entusiasta. Mi licenziarono. Dopodiché divenni cronista alla Gazzetta di Modena. Anni di precariato, addolciti dal fatto che la sera con alcuni amici, un piccolo gruppo di orchestrali, suonavamo nelle balere del parco. Poi venne il militare che ho fatto con il grado di sottotenente. Infine mi iscrissi nuovamente all'università. Questa volta a Bologna. Mi mancava la tesi, che avevo chiesto a Ezio Raimondi. Ma non riuscii a finire. Le canzoni bussavano alla mia porta».
E tu apristi?
«Erano gli anni Sessanta, si formavano i primi gruppi musicali con affaccio nazionale. A Modena venne a suonare l'Equipe 84, sapevano che avevo scritto qualche canzone. Gli proposi Auschwitz e la presero. Contemporaneamente avevo dato ai Nomadi Noi non ci saremo.
Tieni conto che non avevo una lira. Oltretutto non essendo iscritto alla Siae non potevo firmare le mie canzoni».
Finì lì la tua collaborazione?
«No, ricordo che proposi alla Equipe Dio è morto, ma rifiutarono per paura che la canzone facesse troppo casino. Avevo pronta anche Un altro giorno è andato e Maurizio Vandelli, il leader del gruppo, sentenziò che Guccini non aveva più un cazzo da dire. E questo atteggiamento fece sì che si rafforzasse la mia collaborazione con i Nomadi».
Furono loro a cantare per primi "Dio è morto".
« La cosa divertente è che mentre la Rai censurò la canzone, Radio Vaticana la trasmise più volte, fino a farla diventare un grande successo tra i nuovi cattolici».
Dietro quella canzone c'erano le tue fascinazioni americane.
«A che ti riferisci?».
Con ogni evidenza a "Urlo" di Allen Ginsberg.
« Sì, la Beat Generation è stata importante, ma una canzone è pur sempre una canzone: un prodotto autonomo. Ed è inutile appesantirla di significati letterari. Anche se ho un'amica, grande esperta delle tragedie di Alfieri, che sta facendo un lavoro da critica letteraria sulle mie canzoni».
E tu come hai reagito?
« Beh, che devo dirti: mi fa piacere sapere che le mie non sono solo canzonette. La verità è che quando si parla di Guccini alla fine è per una decina di canzoni che ha scritto».
Come giudichi le tue prime?
« Tecnicamente parlando Auschwitz e Dio è morto non sono belle canzoni. Sono testi piuttosto semplici. Ne ho realizzate di più complesse ».
Come è nata "La locomotiva"?
«Per delle strane combinazioni. Lessi le memorie bolognesi di Romolo Bianconi, un lavoratore che raccontando la sua vita scrisse di un ferroviere anarchico, Pietro Rigosi, cui avevano amputato una gamba che decise di impadronirsi di un treno per farlo saltare. Fu una ballata, contro le ingiustizie sociali, che scrissi in mezz'ora. Arrivai alla fine e mi accorsi che mancava l'ultima e la prima strofa: "Non so che viso avesse e neppure come si chiamava...". In quel periodo cominciai a cantarla alla Osteria delle Dame».
È stata una canzone emblema che ti ha identificato con il Sessantotto. Che giudizio dai di quel momento?
« Per me è stato un periodo positivo. Sono cambiate molte cose, a cominciare nei rapporti tra i due sessi. Penso che il '68 ha trasformato la società».
Migliorandola?
«In certe cose sì, in altre no. Se penso alla scuola e all'università vedo i disastri che la morte del merito ha provocato. Non ci siamo ancora ripresi».
Le canzoni fanno la rivoluzione?
«Non scherziamo, al più la accompagnano come nel caso di Bandiera rossa. Un canto tecnicamente brutto, ma messo in un certo contesto può perfino commuovere».
Ti commuove ripensare a una canzone come "Eskimo"?
«Un altro emblema di quel periodo, ma del tutto involontario. Comprai l'indumento nel 1963 al mercatino di Trieste. Avevo finito il militare. Costò diecimila lire e veniva indossato dai soldati americani nella guerra di Corea. Anni dopo mi sono ritrovato in un mondo di eskimo. Ma ti assicuro che il mio era innocente. No, non mi commuove, semmai mi dà emozione una canzone come Incontro ».
"I nostri miti morti ormai..." così scrivevi.
«Era la storia di un'amicizia tra un uomo e una donna».
Ho sempre pensato che fosse una tua storia d'amore.
«Parlava di una ragazza che ora vive negli Stati Uniti e che allora viveva a Modena. C'era molta complicità tra noi. Poi si trasferì a Bologna. Sposò un americano. E sparì per un po' di tempo. Un giorno mi telefonò per dirmi che il matrimonio era andato a pezzi e lei lo aveva lasciato. Lui si uccise. E a me venne in mente di scriverci su una canzone ».
Ti piacciono i ricordi?
« Sono uno che ricorda spesso. La memoria è un bel motore che mi ha consentito anche di scrivere diversi libri. Tre romanzi che hanno al centro rispettivamente Pavana, Modena e Bologna. Ricordo meglio il passato remoto e non è male che certe cose rimangono e altre spariscono».
Perché hai lasciato Bologna?
«Era un'altra vita. Qui a Pavana vado a letto alle undici di sera. A Bologna rincasavo alle cinque del mattino».
Musica, cibo e vino.
«Anche donne e carte. Giocavamo in osteria fino a notte fonda. Senza mai mettere in palio nulla: neppure un caffè».
Hai pubblicato da poco la raccolta delle canzoni che cantavi all'Osteria delle Dame.
« Sono tre cd che racchiudono una manciata di anni. Quando pochi mesi fa sono tornato alle "Dame" mi sono commosso. Ma è stato come vedere un altro Guccini».
Un altro in che senso?
«Ho smesso di scrivere canzoni. Da anni non tocco più la chitarra. Tira tu le conclusioni».
Hai smesso con quale giustificazione?
« Mi sono accorto che le canzoni non uscivano più con la stessa voglia e intensità. Facevo sempre più fatica a riempire un album. E ho capito una cosa semplice: non ho più niente da dire. Almeno su quel versante là».
Come hai vissuto questa rinuncia?
«All'inizio male, poi mi sono abituato. Ho perfino tentato di riprendere. Ho scritto una nuova canzone per i Nomadi. Ma preferisco scrivere libri. Con Loriano Macchiavelli siamo all'ottavo giallo. E poi ci sono i miei romanzi».
Scusa se insisto, ma chiudere una porta così importante come la musica non ti dà dolore?
«No, mi dà dolore o angoscia non avere più l'età che avevo. E guarda non avevo neanche la paura di fallire. Se le canzoni venivano, bene sennò pazienza».
Quindi ti sei ritirato qui a Pavana.
«Un posto che amo. Anche Bologna è stata molto importante».
Chi vedevi a Bologna, di chi eri amico?
« Le osterie erano porti di mare. Ti arrivavano attutite queste onde umane».
Frequentavi Augusto Daolio, il leader storico dei Nomadi?
« Non molto, ero più legato a Beppe Carletti. Frequentavo Claudio Lolli. Sono amico di Zucchero e di Ligabue, molto diversi ma con una base contadina in comune. Poi c'era Lucio Dalla che veniva qualche volta a mangiare da Vito. Odiava la campagna. Mi diceva: ma cosa vai a fare a Pavana? Niente che ti piaccia, gli rispondevo».
A Bologna ne hanno fatto un mito.
«Sai quando uno muore è facile che diventi un mito o un aspirante mito. Lucio era uno strano personaggio. Eravamo molto diversi, due mentalità diverse. E credo che non abbiamo mai legato veramente. Aveva una capacità polimorfica; però alla fine anche lui faceva una certa fatica a scrivere canzoni. Era dotato di una voce secondo me bellissima».
Ti dà fastidio rievocare certe cose?
«No, anzi. Mi dà fastidio la richiesta di foto, i selfie che non sopporto. Ma cerco di essere gentile».
Che cos'è la sopportazione?
« È l'arte di non incazzarsi. E poi, dopo una certa età, si sopportano molte più cose».
Alludi alla tua vecchiaia?
« Se ne va poco per volta la prestanza fisica, arrivano gli acciacchi. Oggi faccio fatica a camminare e non ci vedo quasi più. Non riesco a leggere e ho bisogno di qualcuno che lo faccia per me».
Siamo a conversare nella tua cucina. Che rapporto hai con il cibo?
«Non sono quel che si dice un raffinato gourmet. Mi piace la cucina dei miei nonni. Non se ne può più di questi chef, che se uno perde una " stella" scoppia una tragedia. Sono un uomo semplice di gusti semplici».
Hai scritto una bellissima canzone sui vecchi.
«Adesso sarebbe pura autobiografia».
Quanto ti piaci?
« Poco. Non ho orgoglio di me né autostima. Deve essere stata l'educazione repressiva di mio padre. Solo verso la fine della sua vita ci siamo incontrati veramente. Un giorno mi disse: avrei tanto voluto che tu facessi lo storico. E invece sono uno che ha scritto canzoni. Ma lui, intendo mio padre, avrebbe voluto fare il maestro. Finì in un ufficio postale. Non sempre le vite corrispondono ai nostri desideri».


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Nota:

Scrive Michele Serra il 2/01/18

Tra i buoni propositi per il nuovo anno ce n'è uno vecchio, eppure sempre disatteso. Lo chiamerei "passo indietro", e per definirlo meglio incrocio due delle letture di fine anno che mi hanno più colpito. Una è l'elogio della continenza fatto da Marco Belpoliti: nel quale continenza — parola desueta — è alla fin fine sinonimo di pudore. Antidoto al narcisismo, argine al dilagare dell'ego. L'altra è la bellissima intervista di Antonio Gnoli a Francesco Guccini, dove il grande vecchio di Pavana dichiara di non scrivere più canzoni perché «non ha più niente da dire». Esempio quasi inimitabile di continenza per via naturale, di rispetto profondo (Guccini è un contadino) per i cicli del tempo.
Uno che scrive tutti i giorni — eccomi — non è il meglio indicato per predicare continenza e passi indietro.
Eppure, mano a mano che salgono tono e volume del dibattito pubblico, viene spontaneo guardarsi attorno alla ricerca di voci meno aggressive — che non significa inconsistenti, e anzi. Si cerca autorevolezza nello sguardo sereno dei pochi che possono permetterselo, nelle poche parole dei pochi che le rispettano. Il silenzio di Guccini, per paradosso, ha un'eloquenza emozionante, tacere per appagamento, perché è esaurito il bisogno di dire, o perché nuovi pensieri (più interni) occupano la scena.

Sentire attorno a noi anche silenzio aiuta a restituire peso alle parole. Chiudere la bocca, aprire le orecchie, ecco il passo indietro che ci aiuterebbe tutti quanti.

mercoledì 27 dicembre 2017

Gualtiero Marchesi, il grande italiano


“Gualtiero Marchesi Chef ?
Cuoco, prego”


Ciao Gualtiero.


Gualtiero Marchesi, il grande italiano

26/12/2017 Maddalena Fossati Dondero
Genio. Gualtiero Marchesi era un rivoluzionario.
Non aveva paura di nulla e ha sfidato le leggi della cucina quando in Italia significava più che altro mangiare a casa.
Anzi ha fatto di più.
Ha creato e inventato l’alta cucina nel nostro Paese, come si diceva allora la nouvelle cuisine all’italiana, espressione entrata nel linguaggio di tutti.
Bravo maestro. Eri unico. Ricordi sparsi di te, mentre vieni celebrato dai tuoi ragazzi, Carlo (Cracco), Andrea (Berton), Davide (Oldani) a Cannes, alla scorsa edizione del Festival del Cinema, alla presentazione del film “Gualtiero Marchesi. Il grande italiano” che ti ha reso omaggio e immortalato per sempre. Eri così emozionato e composto. O ancora a Londra a un’edizione dei 50best quando qualcuno ti chiamò chef e tu con un sorriso morbido dicesti “cuoco, prego”.
E poi eri sempre affettuoso con tutti, gentile, un po’ papá.
Caro Gualtiero la cucina italiana ti ricorderá come il grande italiano, il grande cuoco italiano. Buon viaggio e buon appetito.

Un post condiviso da Gualtiero Marchesi (@gualtieromarchesi) in data:



Alma: la scuola internazionale di cucina a Colorno

 "Cari studenti, cari docenti, cari amici, posso dire, senza esagerare, ma con orgoglio, che se Alma è, lo è anche per merito del sottoscritto. Non so se è stato più un parto o una paternità. Forse le due cose insieme. Mi sento madre e anche padre di questa bellissima scuola. Qui, si viene a imparare le basi del mestiere, ad apprendere le tecniche con cui lavorare per rendere merito e per fare grande la cucina italiana. Si può fare qualcosa di grande solo se si studia sodo e si pratica senza sosta il mestiere". "Per me - ha spiegato Marchesi - è arrivato il momento di dedicarmi a qualcosa che mi sta molto a cuore. Un progetto che coltivo da tempo e che sta per nascere. Sentivo il bisogno di dar vita, sul modello della Casa di riposo dei musicisti, anche a una Casa di riposo dei cuochi. Per dedicarmi al mio nuovo progetto lascio la carica di rettore. Una scelta che arriva quando Alma stessa non ha più bisogno di una simile figura".

La figura più importante dell’enogastronomia italiana, che ci lascia a 87 anni, nel 2004 inaugurò proprio nel Parmense uno degli istituti di formazione gastronomica più importanti che esistano: Alma, Scuola internazionale di cucina. La scuola sorge a Colorno, all’interno del Palazzo Ducale, comunemente conosciuto come Reggia di Colorno. Da allora fino a quest’anno, Marchesi è stato rettore di questa scuola, da cui oggi escono i migliori chef italiani. Anche qui la rivoluzione apportata fu grandiosa: i cuochi non dovevano essere dei semplici esecutori, ma raffinati e competenti interpreti. Si imparano le basi e si affinano tecniche, però si apprende anche la storia della gastronomia italiana, partendo dalla cultura regionale. Le ricette esistono, non resta che innovarla e reinventarle a seconda della propria soggettività, partendo tuttavia dall’insegnamento principale: “l’esempio è il primo insegnamento”, come amava ripetere Marchesi.

Il tweet che ha mandato ai ragazzi dell'Alma lo scorso 13 dicembre quando il Parma ha esondato nelle cucine del palazzo ducale di Colorno





Marchesi era nato nel 1930 a Milano, da una famiglia di ristoratori provenienti da Pavia; dopo una parentesi in Svizzera per conseguire gli studi si trasferisce a Parigi, riuscendo a perfezionare le proprie tecniche. Nel 1977 apre il suo primo ristorante a Milano, mentre nel 1986 consegue le tre stelle Michelin, fu il primo italiano a foggiarsi di tale titolo. Ma fu anche il primo a contestare le guida francese per le metodologie d’assegnazione delle stelle, arrivando persino a rifiutare il riconoscimento. La rivoluzione marchesiana era iniziata: l’estetica e il prodotto stavano al centro del piatto. Addio vecchie osterie e trattorie, la cucina italiana iniziava il suo percorso al di fuori delle mura di casa per lanciarsi verso orizzonti più ampi. Gualtiero Marchesi è stato il vero condottiero di questa impresa, imprimendo concetti dell’alta cucina francese ad un Paese dalle notevoli potenzialità.

La sua carriera è stata raccontata in “The Great Italian”, biopic sulla sua vita presentato lo scorso maggio a Cannes, di cui vi proponiamo qui sotto il trailer in italiano.


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Gualtiero Marchesi: The Great Italian - Trailer



Appassionato d’arte, come si vede anche nei suoi piatti, ha aperto la Fondazione Gualtiero Marchesi per promuoverla – dalla musica alla pittura, dalla scultura alla cucina. L'ultimo obiettivo: una casa di riposo per cuochi, la Casa Verdi, a Varese.

Numerosi i modi in cui Marchesi ha rinnovato la cucina italiana e probabilmente quello a cui lui teneva di più era l’attenzione per la materia prima e la perfetta conoscenza su come trattarla. Il suo piatto più celebre è il Riso oro e zafferano, che ripropone la tradizionale ricetta milanese in modo nuovo e con l’aggiunta di una foglia d’oro.

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Marchesi
©Perazzolli

E' morto Gualtiero Marchesi
© Fulvio Fontana





MARCHESI
l risotto al salto è perfetto: morbido dentro, croccante e ambrato fuori. Un po' come il suo eloquio: sobrio, quasi sommesso nel tono, ma duro, a volte dogmatico nella costruzione. Per il "timido" Gualtiero Marchesi, comunque una conquista. Sia che parli sia che cucini lo fa con un' estrema attenzione ai dettagli e ai tempi. Al tavolo dove sediamo, nel suo ristorante "Il Marchesino", accanto alla Scala, mi espone quasi sotto voce la sua filosofia. È un uomo che mi incuriosisce. Non per il successo che è indiscutibile e, aggiungo, meritato, ma per quello che il successo gli ha tolto. È un' idea strana che mi sono fatto sentendolo parlare: c' è un Marchesi ufficiale, consegnato alle cronache più ovvie, e un Marchesi meno saldo, più sfuggente, difficile da stanare. È lì che vorrei condurlo. Oltre una certa idea prevedibile di perfezione. «Ha qualcosa contro la perfezione?», mi chiede. No, e lei? Fa una pausa e poi dice: «Vede, la perfezione è un ideale, io l' ho cercata prima che nel piatto dentro di me». Ecco, è questa certezza lievemente ascetica che mi preoccupa. E l' ha mai trovata, intendo la perfezione? «La perfezione non è un oggetto che sta in qualche luogo. È semmai uno stato di

lunedì 4 dicembre 2017

Ritratto di Renzo Arbore

Su  Repubblica del 3 dicembre 2017   un'interessante  intervista di Antonio Gnoli

e il ritratto  di Riccardo Mannelli a Renzo Arbore.



Renzo Arbore
Renzo Arbore: ho un vizio, l'eterna giovinezza

di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli
Dice di sé che tutta la vita è stato un goliarda. Anche la casa dove vive sembra intonarsi allo scherzo. Un finto ( ma per questo anche vero) museo un po' regno della plastica e un po' della fantasia, appaga i suoi deliri di collezionista: dalle radio agli orologi, dalle Madonne ai busti ( Totò impazza), dai ritratti ( prevalentemente i suoi) ai dischi, nulla sembra disporsi seriamente. La cucina — dove prepara un caffè — è l'esempio più sgargiante del suo horror vacui. Uno spazio, in stile tropical- kitsch, con annessa finta vista sul Golfo di Napoli è un'esperienza conturbante. Ma chi è veramente quest'uomo che ha fatto dei gadget la sua filosofia?

domenica 4 giugno 2017

Ritratto di Zerocalcare

Su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Zerocalcare

Zerocalcare: "L’armadillo è la mia coscienza, che fatica stare con le persone"
Il fumettista, al secolo Michele Rech, dall’adolescenza frequenta il mondo dei centri sociali romani. Ed è grazie a questa rete che nel 2015 va a Kobane, per dare solidaretà al popolo curdo: dall’esperienza nasce la storia di "Kobane Calling"

di ANTONIO GNOLI

Come la gallina di Cochi e Renato, anche il mammut è un animale intelligente. Me lo vedo comparire effigiato su un muro della stazione della metropolitana di Rebibbia, quartiere periferico di Roma. Il pachiderma ha un'aria rassegnata. Sembra una mongolfiera uscita dalla preistoria. Sul groppone è salita un po' di gente. Sono personaggi disegnati da Zerocalcare. Questo esempio di street art porta la sua firma. Leggo delle scritte. La più eloquente dice: "Qui ci manca tutto", "Non ci serve niente". Nella sua asciutta e ironica sintesi, vale un trattato di sociologia urbana. C'è anche scritto, sulla testa del bestione: Welcome to Rebibbia.

Benvenuto dove: nel paese dei sogni, dell'autarchia, della disperazione? Rebibbia, carcere a parte, ha un'aria solida e tranquilla. Zerocalcare, al secolo Michele Rech, ci vive da sempre. Vado a trovarlo. Per la sua fama di fumettista merita di essere stanato. Ho appena letto la nuova edizione de La profezia dell'armadillo (Bao Publishing), l'esordio con cui si è imposto su lettori e critica. Zerocalcare scrive e disegna storie malinconiche e surreali, ma tutte inclini a raccontarci il suo mondo quotidiano: la famiglia, i vicini di casa, gli amici e gli insopportabili.

Sei uno complicato?
"Preferirei definirmi "complesso", mi immagino come una persona che difficilmente si lascia decifrare".

Posso dirti una cosa?
"Di' pure".

Fa troppo caldo in questa casa.
"Patisco il freddo. Vivo la casa come un rifugio. È orribile dirlo così, ma è la verità: qualunque dentro è meglio di qualunque fuori".

Ne " La profezia dell'armadillo" vivi in casa con questo animale che sembra un incrocio tra un pitbull e una tartaruga. Chi è l'armadillo?
"Rappresenta la mia coscienza, che tende a chiudersi su di sé. Ho una parte inaccessibile e so di esserne anche molto geloso. Ti sto mostrando il lato più meschino".

È un animale della preistoria, un sopravvissuto.
" Ha aggirato le leggi dell'evoluzione, attraversando il tempo. Se credessi nella reincarnazione vorrei reincarnarmi nell'armadillo".

Basta che sia il tuo alter ego.
"È la voce principale. Poi ce ne sono altre. A volte mi ritrovo ospiti in casa. Gente che si accampa nel salone per una settimana. L'armadillo si allarma; entra in ansia; mi rimprovera; mi dice: che cazzo fai, non reagisci? Buttali fuori!".

E tu?
"Provo a ignorarlo. Ma so che è la mia voce autentica. Però mi sforzo. Lascio che il flusso delle altre voci invada il mio spazio. Si lotta spesso per la vita o per la morte. Chi mi legge pensa di conoscermi, ma non è così. Per me è faticoso passare molto tempo con le persone. È faticoso andare in vacanza, anche in coppia".

Faticoso perché?
"Mi costringe a indossare una deprimente maschera sociale. Dopo qualche ora ho nuovamente bisogno di stare solo".

Quando sei solo che ti succede?
"Mi rigenero".

Voglio dire che gesti fai?
"Non lo so. A volte incastro la testa tra due cuscini del divano, da un'angolazione tale per cui riesco a vedere la televisione. Oppure vado a correre. Oppure leggo. Gesti per me normali. Mi sono molto mancati quando sono andato a Kobane".

Ti riferisci al viaggio da cui hai ricavato "Kobane calling"?
"Sì, parliamo del 2015".

Come era nato quel progetto?
"Dai centri sociali legati al popolo curdo. Abbiamo chiesto alla comunità curda di raccontarci quello che accadeva e ci sembrava tutto molto intenso e drammatico. Abbiamo deciso di andare lì, portare medicinali e imparare qualcosa da quella situazione".

In quanti siete partiti?
"In sei. Il primo viaggio è durato una decina di giorni. Siamo rimasti sul confine tra la Turchia e la Siria. La seconda volta dalla Turchia siamo entrati in Iraq e poi in Siria".

Come hai vissuto l'impatto?
" Ogni cosa che pensavo o dicevo mi sembrava, all'inizio, filtrata dalla fascinazione dell'esotico. Quando ho scoperto che era tutto vero, ho provato una grande emozione".

Questa è la tua parte accessibile?
"C'ho messo parecchio a rendermene conto".

Più o meno quando è successo?
"Potevo avere sedici anni, è coinciso con la scoperta dei centri sociali. Mi sono immerso in una vita comunitaria che crea legami molto forti. Col tempo è diventato quasi tutto il mio mondo esterno".

Non ti spaventa una dipendenza così forte?
"No, mi spaventa piuttosto sapere che questi mondi hanno difficoltà legate alla burocrazia comunale, alle minacce di sfratto e al fatto che si sta sui telegiornali solo perché sei considerato violento".

Non mi hai spiegato cosa fa un centro sociale.
" La cosa importante sono i servizi che offre al quartiere: scuole per grandi e per immigrati, palestra, cibo, concerti. Tutto a prezzi popolari, fuori dal mercato".

Resta un mondo chiuso.
"C'è un equivoco su questo. La parte chiusa, che non ha bisogno di aprirsi verso l'esterno, è quella punk, una sottocultura musicale con i suoi codici. Il lavoro politico del centro ricomprende anche la gestione dei concerti, ma non si esaurisce con essi".

Come hanno reagito al tuo successo?
" Una parte con indifferenza, un'altra storcendo un po' il naso, infine ci sono quelli cui il mio lavoro è piaciuto".

Si erano accorti della tua bravura?
"Non credo proprio. Del resto il lavoro che ho fatto per il centro sono disegni di locandine, manifesti, cose del genere su cui non interviene nessuna decisione individuale".

Nel senso?
"È l'assemblea che decide cosa disegnare e cosa scrivere".

Non ti provoca disagio?
"No, si tratta di regole. Se le accetti non ti puoi lamentare. Il disagio lo provavo per un'altra cosa. Avrei preferito spillare birra al bancone o strappare i biglietti ai concerti piuttosto che disegnare".

Perché?
"Perché il mio lavoro si svolgeva a casa, da solo, e mi atterriva questa specie di piccola catena di montaggio".

Non hai detto che ti piace stare da solo?
"Sì, ma quello che svolgevo era un lavoro comune e non accettavo di doverlo fare in solitudine".

Nella solitudine si fa altro?
"Nella solitudine stai con te stesso, con la tua parte inaccessibile. Ti racconto una cosa. Quando ho cominciato a immaginare 'sta storia e ho preso a disegnarla, mi si è aperto un problema enorme. E mo' che faccio? A chi lo dico? Come reagiranno?".

Reagiranno chi?
" Le persone del centro sociale. Avevo disegnato queste piccole storie e mi vergognavo di farle vedere. E allora le ho tenute per me, finché un giorno le ho messe sul Facebook personale".

Era un modo per raccontarti?
"Direi di sì e a pensarci credo che la molla di tutto questo sia stata la morte di un'amica".

Che cosa ti ha fatto scattare?
" Pensavo a cosa, fino a quel momento, era stata la morte di persone vicine a me. Compagni e amici che se ne erano andati e che venivano ricordati dal mio mondo politico attraverso i suoi codici: un manifesto, un concerto, un incontro. Invece la morte di Camilla mi era da subito sembrata estranea a quel mondo. Avevo il terrore che se non avessi fissato la sua immagine non l'avrei più ricordata, l'avrei persa definitivamente, cancellata anche dalla memoria".

Hai un rapporto angoscioso col tempo?
"Ce l'ho con il passato; ma anche con quello che sto vivendo. Ora, ad esempio, ho l'ansia opposta".

Cioè?
"Disegnando Camilla, mi chiedo se non stia sostituendo il simulacro alla persona vera; se quell'immagine che realizzo di lei non impoverisca la Camilla che era stata e che non sarà più".

C'è sempre uno scarto, un resto con cui fare i conti.
" Per me più che un resto è un vuoto che non riesco mai a riempire del tutto. Non è un discorso razionale che ti sto facendo; ma so che la memoria, con i suoi riti e le sue forme, tradisce immancabilmente lo spirito autentico del ricordo".

Forse è inevitabile.
"Forse è solo il frutto della mia ansia. Il mio rapporto angoscioso col tempo, si manifesta nel vedere ogni cosa dalla prospettiva della sua fine".

Hai provato a superarlo?
"Ogni tentativo di risolvere questo rapporto, mi pone immancabilmente davanti ad altre domande".

Una scappatoia è provare a viverle certe cose, senza chiedersi dove andranno.
"Non riuscirci mi fa campare male. Vorrei crearmi delle solide fortezze che mi facciano scivolare addosso tutto. Forse è questa la ragione per cui reputo molto importante l'ambiente comunitario".

Com'eri da bambino?
"Una frana introversa. Alle feste, da adolescente non ballavo, non mangiavo, non parlavo. Poi avvenne l'incontro con Camilla. All'inizio degli anni Novanta. C'era una canzone che ci coinvolse: Bailando bailando. Anche qui, l'emozione che provai allora si trasformò in routine quando trasferii quella colonna sonora nel mio fumetto".

Forse stai ancora cercando il tuo limite.
"Che intendi?".

Dove finisce il dentro e comincia il fuori. Sono due legislazioni diverse che vanno accordate.
" Per me è difficile che comunichino. Mi piacerebbe che si fondessero. Ma non ci riesco. Mi tengo la mia zona invalicabile".

Hai mai lavorato fuori dai fumetti?
"Ho lavorato in aeroporto. Cronometravo le file al check-in, cioè quanto tempo impiegava una persona per lasciare il bagaglio e avere il posto in aereo".

Che lavoro era?
"Serviva a valutare l'efficienza di chi stava allo sportello. Tra le altre cose che facevo c'era anche l'intervista al passeggero. Dovevo interrogarlo, con una scusa, e scoprire i suoi gusti, i suoi spostamenti, e alla fine farmi dare il suo cellulare che sarebbe stato usato dall'azienda per scopi pubblicitari. Venivo pagato a seconda del numero di cellulari che riuscivo ad ottenere".

Un incubo per uno come te.
"Neanche tanto, l'aeroporto mi dava la sensazione di appartenere a un mondo più ampio".

Lo rimpiangi?
"No, anche se quello che venne dopo non fu molto meglio. Trovai una collocazione in uno studio di animazione. Facevo gli storyboard. Tutte le mattine da Roma a Formello. Per strapparmi l'ansia di dosso, mi fermavo una mezz'ora a guardare un gregge di pecore".

Ansia, perché?
"Non sapevo se sarei stato capace di realizzare quello che mi veniva imposto. Un giorno mi fu chiesto di disegnare un cavallo dal basso, cioè dalla soggettiva di uno gnomo dentro un fosso. C'ho provato, senza riuscirci. E allora ho detto che stavo male e me ne sono andato. E non sono più tornato. È stato un lavoro senza talento. Non era richiesto. Anzi guai a manifestarlo".

Quando hai cominciato a disegnare fumetti?
" Il primo fumetto fu quello legato ai fatti del G8 di Genova, nel 2001. Poi sono venute le cose più personali".

Che rapporto hai con i tuoi genitori?
"Vivono nel mio stesso quartiere. I miei erano separati; sono cresciuto con mia madre. A 23 anni sono andato via di casa. Non ce la facevo più. La distanza di qualche centinaio di metri ci ha fatto bene".

Hai conservato un buon rapporto?
"In questo senso sono molto figlio. A volte mi mette in crisi vederli così fragili. Mi fa quasi rabbia".

Cosa intendi?
"Si risvegliano degli istinti orribili. Se li vedo piangere mi verrebbe voglia di allontanarli a spintoni. In quei momenti non provo nessuna empatia. È disumano. Non riesco a gestire il dolore dei miei".

Perché è troppo forte?
" Non lo so, ma è come se riversassi su di loro un'immagine che non è restituita. Uno specchio cieco".

Hai imparato a lavorare sulle tue crisi?
" Da molto tempo non faccio altro. E sono le uniche cose che riesco a raccontare bene".

La sofferenza può diventare un impedimento.
"I fumetti che mi riescono meglio sono quelli influenzati dal dolore. Quelli fatti con mestiere non mi piacciono. Il problema è che non puoi dare tutte le tue crisi in pasto al pubblico. Devi decidere quale è l'asticella. E poi saltare".

Hai molto successo, come te lo vivi?
"Non ci penso; negli ultimi anni sono stato impegnato nel lavoro. Poco tempo fa mi sono concesso un'intera giornata libera e ho sentito una nostalgia fortissima e inspiegabile. Ho ricordato di quando avevo otto anni e sentivo quella stessa malinconia verso il passato. Ho ripensato al quartiere in cui sono nato e nel quale vivo e dal quale non riuscirei mai a separarmi".


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Kobane Calling, Zerocalcare tra diario e graphic journalism

giovedì 2 febbraio 2017

Ritratto ed interviste a Paolo Conte

Paolo Conte
Riccardo Mannelli


Paolo Conte: "L'attualità mi fa orrore, il suo rumore impedisce di scrivere"
Le confessioni del grande musicista nei suoi ottant'anni: "Il passato prossimo invecchia prima di quello remoto. Faccio troppa fatica a pensare com'ero o come non sarò più"
di Antonio Gnoli per La Repubblica

Il maglione giro collo, lievemente sbrindellato; la sigaretta incollata alle dita; la voce roca che sembra avvolta dalla cartavetrata e infine l'occhio che ci ha messo molto tempo per diventare giovane, ma è lì che mi scruta con ironica sopportazione. Paolo Conte, ottant'anni compiuti questo mese,

venerdì 6 gennaio 2017

Tullio De Mauro

De Mauro è stato un grande linguista e docente universitario.
Tra le sue opere principali il Grande dizionario italiano dell’uso e la Storia linguistica dell’Italia unita. Il suo dizionario è online sul sito di Internazionale.

Chi non legge smette anche di studiare.
In Italia solo un venti per cento di quadri segue corsi di aggiornamento: quattro volte meno della media europea. Una classe dirigente male alfabetizzata, quindi non aggiornata, è la rovina di un paese, molto più di un crollo della Borsa.
Tullio De Mauro

/in·tel·let·tu·à·le/
Muore Tullio De Mauro
Mauro Biani



L'annuncio dato dal giornale dove lavora il figlio e anche lui collaborava:


Un interessate video



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L'intervista di Antonio Gnoli del 2013:

Tullio de Mauro
di Jatosti

TULLIO DE MAURO
"Il tempo cambia le nostre parole come la vita".
di Antonio Gnoli
Le parole cambiano senso e tramontano È la stessa cosa che accade con la vita
L' ultima immagine che mi cattura, dopo un paio d' ore trascorse con Tullio De Mauro, è lui alla finestra mentre fuma e io dal basso della strada che lo saluto. La scena si svolge in una stradina del quartiere Salario di Roma. Fa un cenno con la mano. Poco più che un movimento, come per dire ci sono, l' ho vista. Ma c' è davvero questo professore di 81 anni i cui pensieri sembrano portati sulla punta delle sue inconfondibili orecchie alate? Non so quanto quest' uomo abbia chiesto alla vita e ricevuto. Certo il successo accademico, i libri scritti (alcuni importanti), la politica, il ministero della Pubblica Istruzione, la Treccani, il premio Strega sembrano suggerire che a fine carriera il saldo sia largamente attivo. Eppure, tra le righe di questa esistenza tranquilla, si indovina un' irrequietezza smorzata dalla routine, una vita che va oltre quell' insieme di accorgimenti retorici con cui la si racconta, apparentemente senza dolore, senza spasmi, senza incertezze. Mi sforzo di trovare un punto di entrata, un passaggio a nordovest che renda questo impareggiabile cacciatore di parole anche un cacciatore di emozioni. Mi guarda, remoto ma al tempo stesso disponibile. Non rassegnato, ma attento a non lasciarsi cogliere di sorpresa.
Come è la vita di un linguista?

sabato 29 ottobre 2016

Ritratto di Gian Luigi Rondi

Un mese fa se ne andava Gian Luigi Rondi

« Io i David li faccio dal '58, quindi da sessant'anni. Ero un giovanetto quando ho cominciato a occuparmene. Ogni anno abbiamo rinnovato l'elogio e la difesa del cinema, soprattutto italiano, perché il mio amore e la mia vita sono il cinema, ma soprattutto il cinema italiano. E questo spero che continueranno quest'opera anche i miei successori. Perché eliminare dai nostri amori il cinema sarebbe un gravissimo errore »(Gian Luigi Rondi Nasalli, 2016)

Gian Luigi Rondi Nasalli è stato un critico cinematografico italiano. Decano dei critici italiani
aveva il sorriso sempre pronto e portava un'inconfondibile sciarpa bianca, felliniana. Aveva novantaquattro anni e ha attraversato da protagonista la storia del cinema e del nostro paese, scrivendo fino all'ultimo le sue recensioni. E' stato presidente dell'Accademia del Cinema Italiano e dei Premi David di Donatello e tante altre cose ancora.

Su una Repubblica del 2013 ho trovato un'interessante  intervista di Antonio Gnoli 

e il ritratto  di Riccardo Mannelli.




Gian Luigi Rondi Sono stato un moralista ma ora mi pento
Gian Luigi Rondi "Sono stato un moralista ma ora mi pento" na vita per il cinema. Un potere senza eccezioni, esercitato con blanda ferocia. 

A 92 anni Gian Luigi Rondi ha un solo vero cruccio: non poter sconfiggere il tempo. Eppure è lì, sulla pedana della vita - alto, elegante, lucido, avvolto nell' inconfondibile sciarpa bianca - a duellare con i giorni che passano. Più che di sciabola, va di fioretto. La stoccata deve essere un ricamo. Non necessariamente all' ultimo sangue, dice con qualche punta di ironia. La casa dove vive ha il serio tono borghese che si addice a certe abitazioni dei Parioli: un fasto misurato mi accoglie nel grande salone. Tutto intorno divani, libri, una scrivania colma di carte, e alle pareti un' impressionante serie di ritratti di una donna che scopro in seguito essere la mamma di Rondi. Devozione filiale, penso. Ma è come se in quella testimonianza si annidi la domanda originaria: chi sono veramente? Chi è quest' uomo che, al di là delle mode, per sessant' anni ha monopolizzato la critica cinematografica, raccontato film, descritto personaggi, occupato ruoli di direzione pubblica sopravvivendo a polemiche, accuse, insinuazioni?
Il cinema è un territorio battuto soprattutto dalla sinistra. Come ha fatto lei che giunge da lidi politici più conservatori a ritagliarsi un ruolo così importante? 
«Sono stato un partigiano e un antifascista. E non dell' ultima ora. Fu mio padre, che era tenente dei carabinieri, a trasmettermi certi valori. E poi Adriano Ossicini mi aiutò a capire l' importanza di certe idee. Ho militato nella sinistra cristiana che fu sciolta per ordine di Pio XII, molto scontento del legame con i comunisti. In quel periodo conobbi Giulio Andreotti».
Di quale anno parliamo?
 «Mi pare fosse il 1948, stavo per sposarmi. Ero da un anno il critico ufficiale al quotidiano Il Tempo, fondato e diretto da Renato Angiolillo. Ricordo che Andreotti mi chiese di far parte della giuria alla Mostra del Cinema di Venezia. Capii che era molto interessato al peso e all' importanza che il cinema cominciava ad avere in Italia. Mi portò anche a Cinecittà. Nei suoi progetti c' era l' idea di sistemare nuovamente gli studi che erano allora pieni di sfollati».
Aveva capito che il cinema era uno strumento per la politica? 
«Non posso dirlo. Credo semplicemente che gli piacesse. Tra i politici, soprattutto democristiani, era il più attento al mezzo e alle storie che i film raccontavano».
Lo era al punto che criticò il neorealismo dicendo che i panni sporchi si lavano in famiglia. 
«Non fu lui a pronunciare quella frase, ma un ambasciatore. E comunque io sono sempre stato un sostenitore del neorealismo. Di Rossellini e De Sica soprattutto, per i quali mi sono battuto con convinzione. Quando uscì Ladri di biciclette chiusi l' articolo con un "grazie De Sica", Angiolillo si arrabbiò tantissimo: come è possibile terminare un pezzo di giornale con quella frase? Raccontai l' episodio a Vittorio che mi inviò una lettera con sopra scritto: "Grazie Rondi!". Fino alla fine restammo amici. Era molto charmant e con una vita complicata dal vizio del gioco e praticamente da un doppio matrimonio».
Accennava a Rossellini. 
«Un genio, un avventuriero, generoso, soprattutto con i soldi degli altri, e un donnaiolo. Contemplava i tratti dell' italiano che affascinava il mondo. Ingrid Bergman, dopo aver visto Roma città aperta, gli scrisse una lunga lettera colma di elogi e lusinghe. Della quale parlò diffusamente un giorno a pranzo davanti alla sua compagna di allora».
 Chi era?
«Anna Magnani, ovviamente. Li avevo accompagnati ad Amalfi e pranzammo all' Hotel dei Cappuccini. In quella lettera Ingrid chiedeva di incontrare il maestro e Roberto volò a Hollywood per vederla. Non so se ci fosse stato già qualcosa, ma la Magnani si era fatta sospettosa. E irascibile. Quando a tavola Rossellini cominciò a magnificare le qualità artistiche delle Bergman, Anna prese il piatto di pasta al sugo che aveva davanti e lo tirò in faccia a Rossellini. Poi gelida e furiosa come una regina se ne andò».
E Rossellini come reagì? 
«Con molta calma. Ricordo che disse una sola cosa: "Ah, le donne!". La Magnani continuò a essere gelosa. Quando Rossellini girò Stromboli con la Bergman, gli feci visita sul set. Qualche tempo dopo Aldo Fabrizi mi telefonò per dirmi che Anna mi voleva vedere a pranzo. Passò tutto il tempo a chiedermi com' era quell' americana sul set. Era ossessionata. Sospetto che l' insuccesso del film non dovette dispiacerle».
 Una donna più scomoda o ingombrante?
«Aveva un carattere impossibile. Aggressivo. Negli ultimi anni non riusciva a fare quasi più niente. Voleva che l' aiutassi a trovarle delle parti a teatro. La sua aspirazione era interpretare il ruolo della cattiva. La verità è che era stata una grande maschera del nostro cinema, grazie a Rossellini che seppe farle interpretare il dolore delle donne italiane. Il neorealismo non ha prodotto altre figure femminili all' altezza della sua».
Abbiamo avuto in seguito Gina Lollobrigida e Sophia Loren e i loro contrasti. 
«La Lollo è stata la mia più cara amica. Una Magnani senza tragedia. La rivalità con Sophia fu creata ad arte, come quella tra due ciclisti. E loro ci credettero così tanto che finirono per detestarsi. Si dice che le occasioni nel cinema sono fondamentali. E Sophia le ha sapute sfruttare tutte con grande abilità».
 A cosa allude?
«Al fatto che la sua carriera è stata magistralmente guidata dal marito Carlo Ponti. Visto che si parla di attrici vorrei ricordarne un' altra secondo me straordinaria: Monica Vitti. Fu Antonioni che me la fece scoprire al teatro Eliseo dove recitava. Puntò su di lei per il suo nuovo cinema, ne colse e ne sfruttò in pieno il talento. L' ho seguita in tutti i suoi lavori fino a quando la malattia l' ha rinchiusa nel suo buio».
La spaventa o la sconcerta che la bellezza e il successo hanno spesso una data di scadenza? 
«Nel caso della Vitti mi rattrista. Ma il cinema è un po' anche questo: vive al di sopra dei propri mezzi sentimentali. E poi ti abbandona. Mi ricordo certe sere al caffè Canova con Fellini, avvolto nello sciarpone rosso, che mi diceva: mi trattano come un pensionato. Eppure era stato immenso. Per me il più bugiardo e geniale tra i registi che ho conosciuto. Soffriva molto se non lo si lodava abbastanza».
Un insicuro? 
«Si era fatto parecchi anni di psicoanalisi. Parlava spesso dei suoi sogni, di quell' immaginario che lui legava al processo creativo e che popolava di atmosfere strane: figure deformi, donne grasse e un senso di morte leggero e inquietante».
Lei sogna?
 «Un sogno ricorrente è perdere la strada mentre sto andando dai miei genitori. Ma non so che senso attribuirgli. Dopo che ho sognato mi capita di scrivere molto».
La psicoanalisi lo consiglia. Ne fa pratica?
 «Non credo in quel metodo e non mi interessa raccontare i miei sogni a un altro. Quando cado preda dei momenti di ansia ho un medico che mi prescrive dei farmaci che mi tolgono le paure».
Non si direbbe un uomo ansioso. 
«Passo dei momenti in cui avverto l' ala della depressione scendere su di me. È come se sentissi un grande avvenire dietro le spalle. Fu Gassman a coniare questa espressione. Sa qual è il problema? Non accetto la mia età, da ogni punto di vista la osservo, rifiuto l' idea che ho quasi 92 anni. Non voglio ripiegare su me stesso».
Non le è sufficiente quello che fa? 
«Non mi basta. Passo la mattina a leggere, o andare in accademia, al Donatello; ma ho il bisogno di costruire. Ho creato premi, festival. Non mi rassegno alla noia, al non far niente, alla morte».
C' è un' età in cui si comincia a ripiegare le vele. 
«E perché? Chi lo ha detto? L' anno scorso è morta mia moglie. Mi ha molto sconcertato, in genere le mogli sopravvivono ai mariti».
Sconcertato e non addolorato?
 «Non me lo aspettavo. Perché lei? Mi dicevo. Il dolore ho cercato di nasconderlo. Non sono mai stato un tipo espansivo».
C' è una misura nelle cose? 
«Occorre trovarla. Nel lavoro come nella vita».
Nella sua lunga carriera di critico è sempre stato oggettivo, giusto, adeguato?
 «Ci ho provato».
È stato anche un censore al servizio della pubblica morale.
 «Dicevano che se avessi potuto avrei messo le mutande alle Naiadi di Piazza Esedra».
Lo avrebbe fatto? 
«Ho passato un periodo in cui mescolavo religione e professione. Oggi faccio autocritica. Vivo la religione in modo più consapevole».
È un moralista pentito?
 «Spero mi venga riconosciuto».
A proposito di riconoscimenti che la riguardano ho appreso di una lista di premi impressionante. Le piacciono le onorificenze? 
«Mi piacciono, è il mio limite. Mio fratello Brunello, quando con Fellini scrisse la sceneggiatura di Ginger e Fred, mise nel film l' uomo più decorato d' Italia, quella figura permanentemente in frac voleva essere la mia parodia. Fui insignito da giovane della Legione d' Onore. E molto altro. Che dire? Guardi quel grande quadro».
Quello in cui è avvolto in un mantello? 
«Sì, è un mio ritratto di quando entrai nell' Ordine del Cavalieri di Malta».
Non le sembrano immagini di una vanità eccessiva?
 «A volte penso che sia il cinema a trasmettere i germi di questa vanità. Ma se glielo dico è perché c' è sempre un ravvedimento».
Vedo anche molti quadri che ritraggono una donna. 
«È mia madre. Ho chiesto, nel corso degli anni, ad artisti importanti come De Chirico, Vespignani, Clerici, Caruso, Maccari e tanti altri di farle un ritratto».
Devozione filiale.
«A lei devo tutto: le mie letture, il formarsi del gusto e le scelte nella vita. La sua morte nel 1979 fu straziante per lei e per me. Però continuo a parlarle, come in una specie di dialogo ininterrotto. Sono convinto che non sia un' illusione, resto un uomo razionale che sa che la realtà è qualcosa di tangibile. Ma anche quell' altra è in qualche modo realtà».
Sente delle voci? 
«Per carità, non sono mica Giovanna d' Arco. È il mio intimo più riposto che affiora e sono io che immagino questi dialoghi. Non ci faccia caso, alla mia età si può fantasticare. Molto più che in passato. È uno dei pochi privilegi che la vecchiaia può vantare senza essere presi per pazzi».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ANTONIO GNOLI

FONTE: http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2013/07/22SIL1155.PDF

  •  https://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Luigi_Rondi
  • http://www.repubblica.it/spettacoli/cinema/2016/09/22/news/gian_luigi_rondi_addio_al_grande_critico-148291710/

domenica 19 giugno 2016

Ritratto di Pierre Riches

Su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Pierre Riches



Pierre Riches: "Devo la conversione a Wittgenstein. Mi spiegò che la ragione non è tutto"

Nato nel 1927 ad Alessandria d’Egitto, il sacerdote e teologo ha insegnato filosofia in Italia, Stati Uniti, Uganda e Pakistan. Ha preso parte al Concilio Vaticano II


Pierre Riches è una figura singolarissima e affascinante del mondo della teologia. Da qualche anno si è trasferito in Sabina, non lontano da Roma. La casa, dove vive, si affaccia sulla valle del Tevere. Sobria e accogliente. Qualche mese fa è andata a trovarlo Laurie Anderson. Hanno cenato assieme e ricordato Lou Reed, di cui Padre Pierre è stato amico. Una foto sul muro del salotto ne descrive la relazione in qualche modo paterna: Lou Reed lo abbraccia sorridente e felice. Sul tavolo vedo una fresca copia di Note di catechismo per ignoranti colti, ripubblicato da Gallucci, con una prefazione di Giorgio Manganelli. "Il titolo", rammenta Riches, "me lo suggerì Elsa Morante".

mercoledì 8 giugno 2016

Ritratto di Giorgio Albertazzi

Ritratto di Giorgio Albertazzi 
di Riccardo Mannelli 

In Senato è stata ricordata la figura emblematica di questo grande vecchio attore del teatro italiano, scomparso il 28 maggio scorso  con un minuto di silenzio.
Riporto invece io, oltre al bel disegno di Mannelli, anche le sue parole in una delle ultime interviste fattagli da Antonio Gnoli, quando ha compiuto novant'anni, la sua arte  nel video  "Memorie di Adriano" e nelle note le sue ombre.


Albertazzi: "Gassman aveva il corpo, Carmelo Bene il talento. Ma io sono Re Lear e vorrei morire sul palcoscenico"

"In scena porto me stesso.  Il teatro è finzione assoluta: fingere vuol dire capire"

di ANTONIO GNOLI



In una stradina del quartiere Parioli abita Giorgio Albertazzi: l' attore per antonomasia, verrebbe da dire. È domenica mattina. Poca gente in giro. Qualche cane, trascinato da domestiche indifferenti, annusa un' aria che sa di pioggia. Tutto è autunnale. Anche i numerosi cartelli con scritto "vendesi appartamento", che affissi un po' ovunque, mostrano che quel luogo romano, concentrato di ricche famiglie, sta lentamente ingrigendo. Arretra davanti ai colpi della crisi. Non fa eccezione. Albertazzi abita al pianterreno di una palazzina.

Mi riceve con divertita rassegnazione. Guardo il disordine dell' appartamento, sembra quello prodotto da uno scapolo. Guardo lui e noto che regge benissimo ai colpi del tempo (farà novant' anni tra qualche mese). Ha retto meno alle tavole del teatro: due lividi ai lati del naso ne rabbuiano il volto. "Caduto sulla scena", commenta brusco. E poi aggiunge: "Recitavo Puccini a Castellammare di Stabia. Una scena di gelosia. Mi lancio verso la ragazza e inciampo fra i tendaggi. Giù, a faccia avanti. Che botta! Fermo un quarto d' ora. Il sangue, lo stordimento, il dolore. Il medico voleva che facessi immediatamente la tac. Decido di riprendere. Poi l' ovazione e il teatro che sembrava dovesse crollare. L' attore ferito che torna in scena. «Pura epica, leggenda. Il pubblico in piedi che gridava: Giorgio, Giorgio!».

Le piace questo mestiere. «Adoro sentire le vibrazioni del pubblico e mi piace Albertazzi».
Come fu il suo esordio? «Un gran debutto: Firenze, Troilo e Clessidra, regia di Visconti. 1949, mi pare. C' erano tutti i migliori: Ricci, Benassi, Stoppa, Cervi, Ruggeri. Gassman. Facevo il servo di Clessidra, interpretata da Rina Morelli».
Grande compagnia. Le avrà insegnato tanto. «Ci ho messo un paio d' anni a imparare a recitare come loro e tutta la vita a disimparare. La verità è che non ho mai amato il teatro. Il loro soprattutto».
Sputa nel piatto dove mangia? «Del teatro mi coinvolge la vita degli autori. Il grande teatro è tradimento. Le opere non mi interessano. Le confesso che non ho neppure letto fino in fondo Le memorie di Adriano. Eppure ho fatto quasi mille repliche in giro per il mondo con lo spettacolo. Ma ho letto tutto quello che c' era da leggere su Marguerite Yourcenar. Donna strepitosa. Mi soffermo sulle sue foto da giovane e da vecchia. E ammiro la sua lotta contro il tempo. La stessa che combatteva Hemingway. Esistono gli autori. I personaggi sono ombre, fantasmi, passanti».

Alla fine cosa mette in scena? «Me stesso, naturalmente».
Un' affermazione carica di responsabilità. «Lo so,è azzardato dirlo. Ma succede qualcosa che non so neppure io cos' è. Se faccio Adriano sono Adriano. Così con Giulio Cesare e Riccardo III».
E dov' è Albertazzi? «Dentro di loro. Il mimetismo è totale. Annullo i personaggi per questo diventano ombre o fantasmi».
Un vero egocentrico. «Mi lasci riflettere. C' è in me il gusto della scoperta: vedere cosa accade non sapendo quello che accadrà. Non mi chiedo mai come cammina o muove le mani un certo personaggio. Chissenefrega. Mi interessa come cammino e muovo io le mani. Io sono Re Lear e Re Lear è me».
Cos' è una trance teatrale? «È la schizofrenia dell' attore: sdoppiarsi e ricomporsi. È doloroso, ma secondo me Antonin Artaud faceva la stessa cosa. E anche Carmelo».
Intende Bene? «Sì proprio lui. L' unico, tra tutti gli attori, che sento più vicino».
Lui forse non sarebbe stato della stessa idea. «Non ne sono convinto».
Polemizzaste ferocemente. «È vero. Però piombò tra me e Vittorio Gassman come un V2. Un critico scrisse chi è il re tra i magnifici quattro? Intendeva tra Romolo Valli, Gassman, Bene e Albertazzi. Io non credo che sia un atto di superbia ma un fatto erotico sentirsi il migliore. E la partita era tra me e Bene. Portò nel teatro il talento e la provocazione».

Provocatoriamente disse infatti che aveva chiamato il suo cane lupo "Albertazzi". «E io risposi: amo troppo i miei cani per chiamarli "Carmelo Bene". Quando morì fui il primo a rendergli omaggio al Teatro Argentina. E la sorella, che vedevo per la prima volta, mi ringraziò. In quell' occasione mi confessò che Carmelo continuamente diceva: Albertazzi non mi vuole bene, non mi capisce. E invece l' ho adorato».
Che cos' era il suo recitare? «Teatro della crudeltà. Dietro quell' apparente cinismo si massacrava».
E di Gassman cosa pensa? «Bravissimo accademico. Ma il grande Gassman è quello del cinema non del teatro. Però il suo arrivo sul palcoscenico fu clamoroso e devastante. Portò in scena l' atletismo, il corpo. E fu una novità. Fino a quel momento tutti gli attori recitavano composti nei loro abiti di scena, corretti nella voce. Nella dizione, e nella potenza: Renzo Ricci, Ermete Zacconi. Meravigliosi dinosauri».

E per lei cos' è il teatro? «Aver paura di se stessi. Farsi male. È Orfeo che si fa divorare dalle baccanti. Il teatro non ha nulla di pensoso, di contemplativo, di distaccato. È cannibalico. Convoca l' eros e la morte. Ho sempre pensato che nel grande teatro la parola debba coincidere con il pensiero. Senza questa alchimia il teatro diventa una cosa noiosa: un ripetere le parole, entrando da destra o da sinistra».
Ed è finzione? «Assoluta. Fingere vuol dire capire».
Lei ha un qualche rapporto con la verità? «La penso come Nietzsche: non ce n' è una sola. Soltanto Ratzinger può dire che la verità è una e splendente».
Lei crede? «In nulla. Detesto pensare che qualcuno da su ci consoli o ci punisca. Le mie consolazioni sono i miei ricordi».
Il più bello? «Con Franco Zeffirelli facemmo all' Old Vic di Londra un Amleto straordinario. Giudicato da Lawrence Olivier il più bello di quell' anno. Tra coloro che lo interpretarono c' erano Peter O' Toole, Jean Louis Barrault, Richard Burton, Maximilian Schell. Era il 1964».

Lei ha recitato tanto Shakespeare? «Sedici opere in tutto. Nessuno è all' altezza di Shakespeare e di Dante».
E tra i contemporanei? «Amo Borges e Proust mi piace, ma mi annoia. Mi intriga la sua idea del tempo. Vorrei fermare il tempo. I miei quasi novant' anni che rincorro come una palla da bowling».
Cos' è per lei la vecchiaia? «Ci sono tre indizi: quando confondi o dimentichi i nomi; quando cammini a piccoli passi; ma il più terribile è quando ti fanno presidente onorario. Però ci vogliono molti anni per diventare giovane».
Aveva vent' anni quando aderì alla Repubblica Sociale. Che ricordo ha? «Intanto non fui il solo. Altri, come Dario Fo, Franco Enriquez, Enrico Maria Salerno, per restare nel mio mondo, avevano compiuto quella scelta».
Lei andò volontario. «Sì, feci la scuola allievi ufficiali per otto mesi. Perché? Mi chiede. Potrei risponderle perché provai schifo per la vigliaccheria di un Re che scappava. Oppure dirle che mio zio fascista fu ammazzato a Campo di Marte. E lo vidi morire sputando sangue dai polmoni. Ma la verità è che io ho aderito a quella parte perché mi sembrava di fare qualcosa di simile al D' Annunzio fiumano».

Anche quando partecipò all' esecuzione di un disertore? «Non partecipai. Presenziai in quanto, come sottotenente, ero il più alto in grado. Il capitano era stato ferito e il tenente, quella mattina, si era dato malato. Il comando italo-tedesco aveva condannato a morte quel giovane. Noi per giorni prendemmo tempo. Alla fine arrivò il colonnello Zuccari e il comandante tedesco e ci dissero che se l' indomani il disertore non fosse stato fucilato noi avremmo preso il suo posto».
Uno scambio di vite? «No, un gesto inutile. Perché quel giovane sarebbe stato comunque fucilato».

Quello a cui assisteva non era teatro ma vita. Cosa provò in quel momento? «L' impressione fu grande. Ma al tempo stesso c' era una tensione drammatica. Vedevamo tornare sulle barelle i nostri morti. Era terribile. Si era a Sestino, nei pressi della linea Gotica».
In seguito fu arrestato? «Passai un anno in carcere. Tra Bologna e Milano. In attesa di un processo che non ci fu perché venni assolto in istruttoria dal generale Traina».
 Si è chiesto se quella di aderire alla repubblica Sociale fu la scelta giusta? «La mia educazione fu fatta anche sugli episodi della Mas, sulla trasvolata di Balbo e la Fiume di D' Annunzio. Mi sentivo figlio di quelle imprese. Non sono mai stato fascista. La mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale. E l' ho pagata, glielo assicuro».

Lei ha figli? «No, non ne ho mai voluti. Di recente ho pensato cosa sarebbe avere un figlio oggi di quaranta o cinquant' anni. Ma poi dico chissenefrega. Non sono un padre. Sono nato figlio di qualcosa. Magari di molte donne».
Sono state importanti nella sua vita? «Fondamentali. Non saprei prescinderne».
Perché? «Sono la grazia, la bellezza, il mistero».
Non è un po' scontato? «Dice la Yourcenar: "L' amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a restare soli"».
Però è sposato. «Da qualche anno con Pia de' Tolomei, discendente dalla celebre Pia dantesca. Una donna che amo e da cui sono amato sebbene ci dividano diverse generazioni».

Che ruolo ha la vanità? «Me lo chiedo spesso».
Si sarà dato una risposta. «È inutile che mi rifaccia a modelli diversi da me. Io non sono gli altri, non posso fingere di essere quello che non sono».
Si accetta completamente? «Forse no. Anche se, a questo punto, sarebbe difficile immaginarmi diverso».
Qual è il suo peggior difetto? «Dovrei dire la vanità. Mi piaccio troppo. Ma forse il mio peggior difetto è avere novant' anni. E oggi, quando mi dicono: bravo, bravissimo, non sento quasi più nulla. Applausi e ricchezza mi lasciano indifferente».

Ha guadagnato molto? «Tantissimo e ho dissipato altrettanto».
Non teme l' attore che diventa povero? «Che finisce alla casa di riposo?»
Non volevo giungere a tanto. «Mi auguro di no. Sono stato molto più amato di quanto io non abbia amato. Ogni cosa in amore inizia e finisce. È un fatto che gli dei ci invidiano. Mi viene in mente L' Immortale di Borges che è disperato perché non riesce a morire. Perché non c' è più l' attimo fuggente. Gli amori più sono grandi e più sono destinati a finire».
Li rimpiange? «Sono la mia malinconia: una tristezza che si è fatta leggera. C' è bellezza anche nel decadere degli entusiasmi, nello spengersi delle attitudini, nel corpo che non ti risponde più come una volta e ti obbliga a stare al suo servizio e non lui al tuo. Cambia la percezione del mondo. Queste parole mi colgono nell' assillo del tempo che passa. E dei progetti che non ho ancora realizzato. E so che vorrei fare ancora tante cose. Non mi piaccio come attore, mi piace il cuore del pubblico. Conquistarlo sera dopo sera. Fino alla fine».
Morire in scena, come l' ultimo trionfo? «C' è molta retorica popolare in questa immagine. Ma forse sì, anch' io vorrei morire tra le tavole di un palcoscenico».



MEMORIE ADRIANO - Ritratto di una voce
Frammenti dal romanzo di Marguerite Yourcenar
Interpreti: Giorgio Albertazzi, Anita Bartolucci, Gianfranco Barrra, Roberto Gandini, Yordi Godal, Luana Nunzi, Tito Piscitelli, Andreas Rallys, José Sanchez Minobas, David Sant Noell
Interventi Musicali: Maria Carta, Alfio Antico, Domenico Maglionico
Coreografie: Eric Vu An
Regia: Maurizio Scaparro
Registrazione del 1989 nella Villa Adriana, Tivoli


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Note:

Quelle ombre di un passato mai davvero dimenticato
FULVIO PALOSCIA
BISOGNA andare indietro nel tempo, risalire alla guerra, al 28 luglio del 1944 quando a Sestino — un borgo arroccato nell'aretino, vicino alla linea gotica — un plotone di fascisti uccise Ferruccio Manini. 19 anni.
Passato dalla Guardia Nazionale Repubblicana alla lotta partigiana. Sulla divisa di soldato agli ordini della Repubblica Sociale, Albertazzi portava i gradi di sottotenente.
Fu l'attore a dare il via alla fucilazione. Anzi, a Sestino dicono d'averlo visto impugnare le armi e sparare.
Un colpo dritto in testa. Nel processo, il tribunale militare di Milano lo assolse, per aver agito «in stato di necessità». Eppure, Albertazzi in molte interviste avrebbe tradito la verità.
Riferendo di non aver «partecipato» ma di aver «presenziato» all'esecuzione perché, quel 28 luglio, era il più alto in grado. Dichiarazioni che hanno sempre suscitato sdegno. Avvenne anche nell'estate dell'89, quando alla Rai il mattatore spese parole dure sulla Resistenza. A nulla valse la lettera che l'attore inviò a Sestino, chiedendo un incontro col paese. E il premio Castiglioncello tolse a Albertazzi il riconoscimento che avrebbe dovuto conferigli. Le sue parole in merito alla militanza fascista sono sempre state ambigue. Mai di completo pentimento. Scrive nel libro Un perdente di successo: «Andai a Salò da ribelle e ho visto solo scappare chi faceva la Resistenza. Io i partigiani li ho sempre visti scappare». «Si è chiesto se quella di aderire alla repubblica Sociale fu la scelta giusta?» gli chiese Antonio Gnoli in un'intervista su
Repubblica. Albertazzi: «La mia educazione fu fatta anche sugli episodi della Mas, sulla trasvolata di Balbo e la Fiume di D' Annunzio. Mi sentivo figlio di quelle imprese. Non sono mai stato fascista. La mia scelta, sbagliata che fosse, nacque per orgoglio nazionale». E sulle nostre pagine, a Roberto Incerti: «Fascista.
Repubblichino. Soprattutto, sono sempre stato inaffidabile».

lunedì 22 febbraio 2016

Umberto Eco: "Così ho dato il nome alla rosa"



Umberto Eco: "Così ho dato il nome alla rosa"
Ripubblichiamo l’intervista in cui il semiologo recentemente venuto a mancare spiegava il segreto del romanzo che conquistò il mondo: “Un libro difficile e popolare”

di ANTONIO GNOLI
ritratto di Riccardo Mannelli

MILANO - VENTICINQUE ANNI FA IN POCHI AVREBBERO immaginato che un romanzo carico di ironia e di dottrina, sorprendente per ampiezza ed erudizione, a metà strada tra il teologico e il poliziesco, sarebbe diventato quello che ogni scrittore spera che accada, ma non confiderebbe neppure alla propria mamma, cioè un sogno da quindici milioni di copie. Il nome della rosa è stato questo.

E venticinque anni dopo resta il mistero dell'uomo che seppe dare il nome giusto alla rosa. Per questo vado a trovare Umberto Eco nella sua casa milanese, per capire la parte meno visibile di un successo, il lavoro che ci è voluto, le tracce che ha lasciato. A sorpresa apre una stanza chiusa a chiave.

lunedì 3 agosto 2015

Ritratto di Giuliana Lojodice

Il 12 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli

e l'intervista di Antonio Gnoli

a Giuliana Lojodice






Giuliana Lojodice: "Aroldo, Luchino e gli altri uomini sul palcoscenico della mia vita"
L'attrice e doppiatrice si racconta: "Marcello Mastroianni. Una delle persone più dirette e semplici che io abbia conosciuto. Mi chiese di andare con lui a una cena con Barbra Streisand: "È una tigre, me se magna" "

di ANTONIO GNOLI
Benché fosse una donna di liberi costumi, scoprì improvvisamente la fedeltà e l'amore e per 40 anni dimenticò cosa era stata prima. In fondo la vita bella e inquieta di Giuliana Lojodice si potrebbe racchiudere in queste poche righe. Quasi un romanzetto, verrebbe da dire. "Non mi sono mai vergognata di me, delle mie fantasie verso uomini più grandi. Sostituivano quel padre che avevo avuto, certo,