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lunedì 18 agosto 2014

Ritratto di Morando Morandini

Il 6 luglio  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Morando Morandini


Morando Morandini
su LA REPUBBLICA
Riccardo Mannelli


Morando Morandini: "Noi critici siamo come eunuchi a guardia di harem senza goderne"

"I miei novant'anni sembravano un bel traguardo, ora non mi frega più". Alla viglia dell'appuntamento i ricordi del giornalista che ha dato il nome a un dizionario di film
di ANTONIO GNOLI

ORA che sembra quasi tutto pronto, con le celebrazioni in corso e quelle imminenti (Milano gli consegnerà alla fine dell'estate l'Ambrogino d'oro), Morando Morandini si lascia andare a un piccolo sfogo: "L'arrivo dei novant'anni mi pareva un traguardo autorevole. Ora non me ne frega più di tanto. Se penso a cosa è stata la mia vita, vedo due o tre cose fondamentali: il cinema, la moglie, le figlie. E allora mi chiedo: chi sei Morando, chi sei veramente? Prima facevo fatica a trovare una risposta, ora mi sembra di avercela stampata in fronte".

E qual è?
"Sono un vecchio egoista che si sorprende nel vedere che la gente gli vuole bene. Pochi giorni fa c'è stata una serata che mi è stata dedicata al cinema Anteo. E io pensavo: chi sono per essermela meritata? Poi quando sono entrato ed è stato annunciato il mio nome è esploso un applauso di un minuto. Lei non sa quanto può essere lungo un minuto. Sembrava non finisse mai. L'emozione era fortissima. Non sapevo, in quel momento, se essere contento o vergognarmi ".

Vergognarsi di cosa?
"Non lo so. È una specie di tardiva insoddisfazione. Sto leggendo un libro sulla schizofrenia".

Teme di essere schizofrenico?
"No, no. Anzi, della patologia mi affascina la micidiale separazione della personalità. Per cui una parte non sa cosa fa l'altra. In un certo senso, io che sono stato solo che un critico, per parafrasare un mio libretto di qualche importanza, non ho mai saputo veramente cosa accadesse al di là delle Colonne d'Ercole della critica. Non ho mai saputo chi fossi veramente".

Ma questo succede un po' a tutti. Abbiamo perso in introspezione.
"E di chi è la colpa? Sarà che sono invecchiato di botto, ma stento a riconoscermi. Mi viene in mente Baudelaire, quando ormai trafitto dal rincoglionimento, passando davanti a uno specchio si toglieva il cappello e salutava la sua immagine senza riconoscerla".

Cosa la tormenta?
"Se lo sapessi! Non vorrei però finire in un posto come Cesano Boscone, se non altro perché c'è sempre il rischio di trovarci uno che scontandovi una condanna magari mi parlerebbe delle sue numerose conquiste femminili e di quanto era bella la televisione che faceva lui".

Lei tra critico cinematografico e televisivo non ha dubbi dove stare?
"E me lo chiede? Il cinema tutta la vita. Naturalmente semplifico. È un vizio che mi porto appresso".

E come critico cinematografico dove ha lavorato?
"Sono passato dalla Notte al Giorno. In mezzo ci fu un'esperienza che durò meno di un anno con il quotidiano Stasera ".

La Notte era un giornale di destra, come fu lavorarci?
"Meno complicato di ciò che poteva sembrare. Lo dirigeva Nino Nutrizio, il quale non fece mai osservazioni sulle mie idee. Aveva capito che ero tra gli artefici del suo successo. E questo gli bastava".

E a lei bastava?
"Evidentemente no. Anche se, ripeto, fu una grande palestra. Fui il primo a inventare nelle critiche cinematografiche le stellette del critico e i pallini per il gradimento del pubblico".

Come le è nata la passione per il cinema?
"Da piccolo tendevo a identificarmi con Jean Gabin e Gary Cooper. Passai la mia infanzia in un cinemino parrocchiale non lontano da Chiasso. Poi continuai ad andarci nel periodo in cui ho vissuto a Como. Compresi che il cinema è una grande macchina del desiderio. In fondo è questo che mi ha spinto a occuparmene ".

E ha scelto di farlo da un'entrata di servizio.
"Mica tutti nascono Kubrick o Fellini. Mi piaceva leggere romanzi, scrivere e andare al cinema. Sommando queste tre cose è venuto fuori Morando Morandini. Però capisco che la domanda presenta un risvolto ".

Quale?
"In fondo noi critici cinematografici siamo come degli eunuchi, piazzati a guardia di harem ma incapaci di godere realmente delle bellezze che vi sono contenute".

Fare cinema e parlarne sono due cose diverse.
"Sì, poi magari arriva uno come Truffaut che eccelleva in entrambe le cose. Ad ogni modo, mi è anche capitato di fare l'attore".

Lo dice come fosse un peccato.
"In un certo senso è così. Anche perché non credo di sapere recitare. Al più potrei rifare me stesso. Ma anche lì avrei dei dubbi. Detto ciò, Bertolucci mi propose una parte nel film Prima della rivoluzione. Accettai. E devo dire senza pentirmene. Ho imparato alcune cose. Perfino l'umiliazione di sentirsi trasformati in un oggetto".

Chi sono i suoi registi preferiti?
"Che domanda? È come chiedere a un drogato con che cosa si fa. Ma poi alla fine un elenco di nomi rischia di fornire una caricatura. Ho passato tutta la vita a cercare di non farmi influenzare dalle mie idee e dai miei giudizi. Bastava quel rompicoglioni di mio padre ".

Cosa faceva?
"Ma sa che non lo so. O forse l'ho rimosso. Ho l'impressione che si occupasse di turismo".

E in che senso rompeva?
"Era un entusiasta militarista. Entrò nella milizia fascista. Ci perseguitava con le sue frasi, i suoi atteggiamenti viriloidi. Ho dovuto sopportarlo per anni. In compenso ho adorato mia madre. Morì nel 1942 e per me si aprì un periodo complicato".

Quanto complicato?
"Abbastanza da mettermi di malumore. Si accentuò un difetto che mi portavo da bambino: la balbuzie. Ancora oggi, sente, come a volte mi impunto su delle parole".

E come l'ha vissuta all'inizio?
"Mi pareva un limite, come avere una gamba più corta. Però poi mi sono accorto che quel "limite" andava abbastanza d'accordo con il mio carattere, che tendeva a farmi stare sempre un po' in disparte. Diventai così una specie di balbuziente felice e solitario".

Si è mai chiesto da dove nascesse quel difetto?
"Emotività, vergogna, paura, rabbia. Chi lo sa? Per risolverlo ho provato a imparare a respirare. Ma come vede ancora balbetto. Penso sia un modo per farsi rubare le parole".

Chi le ruba?
"Ogni tanto penso a un piccolo demone malignetto. Un guastatore della lingua che piccona le sillabe, prosciuga le vocali, svolazza sulle piccole frasi creando scompiglio".

È la sua ossessione?
"I demoni possono diventare la nostra ossessione".

Ha letto Dostoevskij?
"L'ho letto. Mirabile. Profondo. Ma di una profondità irraggiungibile. Quasi paralizzante".

In che senso?
"Non è una novità dire che Dostoevskij aveva guardato nel baratro del suo mondo. Cogliendone tutto l'orrore, l'assurdità, il pericolo. Io, giovane lettore, cosa avrei dovuto fare a quel punto? Alla fine provavo ammirazione per la sua lucidità ma nessuna empatia. Nessuna condivisione. Se si afferma che Dio è morto e che qualunque cosa è ammessa, il mio primo pensiero non va al nichilismo feroce, ma allo sdoganamento del consumismo che in questi anni, non ora che stringiamo la cinghia, ci ha afflitti e ridotti a espressioni dell'onirico".

Però il "nichilismo feroce" lo abbiamo vissuto sulle nostre spalle. Per lungo tempo è cresciuto come un demone esigente che ha divorato storie ed uomini.
"Sapevo che saremmo finiti lì. Su quel lembo di vita tragica che ha coinvolto mio figlio".

Lo sapevamo entrambi. Ma non volevo chiederglielo in maniera scorretta o brutale.
"Chieda, mi pare giusto risponderle".

Suo figlio, Paolo Morandini, con un commando di una sedicente "Brigata XVIII marzo", partecipò all'agguato mortale di Walter Tobagi. Di quella vicenda accaduta nel 1980 si è scritto molto e molto è stato chiarito sulle responsabilità individuali e collettive. Non vorrei riaprire una ferita, che immagino comunque dolorosa, ma le chiedo cosa sono diventati i rapporti con suo figlio dopo quella vicenda.
"Prima di risponderle. Vorrei precisarle che ho avuto tre figli: due femmine e un maschio. La primogenita è Lia, poi è arrivata Luisa e infine Paolo. Ricordo ancora con un certo rincrescimento le dichiarazioni di congratulazioni da parte degli amici: finalmente un figlio maschio. A me, devo essere sincero, non mi fregava niente di avere avuto un maschio".

Forse è una reazione a posteriori.
"Forse. Come pure, può sembrare facile, dire a cose fatte, che avrei preferito non avere un figlio così. Ma è la verità".

Si sente in qualche modo responsabile?
"Ma la situazione era di una tale enormità, di una tale sproporzione che più che alla responsabilità pensavo al disorientamento. Cosa avevo fatto per meritarmi un figlio così? Ho sofferto tantissimo".

Ha mai sentito il bisogno di perdonarlo?
"È stato un bisogno che mi ha messo molto a disagio. E poi ho l'impressione che la nozione di perdono non faccia parte della mia visione del mondo".

In che senso non le appartiene?
"Ha troppe implicazioni cristiane e religiose".

Diffida dei precetti religiosi?
"Penso che non si dà quasi mai una vera espiazione. E se c'è, è qualcosa che riguarda l'individuo, non l'istituzione".

Che fine ha fatto Paolo?
"Vive a Cuba, ogni tanto ci sentiamo".

Cosa prova per lui?
"Ho sentito fastidio e perfino rabbia nei suoi riguardi. Da qualche tempo sto pensando di essere stato poco generoso nei riguardi di una persona che è comunque mio figlio".

Poco generoso?
"Capisco che può sembrare inopportuno. Ma ho come avuto la sensazione di aver davanti un uomo profondamente infelice. E mi viene il dubbio di non averne tenuto conto a sufficienza".

Lei sa che le infelicità sono di molti tipi. A quale si riferisce?
"Prima che accadesse quello che è accaduto, Paolo era divorato da un'ossessione di purezza. Voleva nella sua faziosità redimere il mondo. Si può essere più infelici, intendo mentalmente? E poi, quando il mondo è esploso nella sua tragedia, l'infelicità era nel rendersi conto del male fatto, ma non riuscire a tirarlo fuori. A dargli una forma comunicabile. Dai molti scontri che abbiamo avuto credo di non avere mai captato questo suo malessere di fondo ".

Ne ha parlato con lui?
"No, ed è una cosa che mi addolora e considero questo silenzio un mio torto. La realtà delle persone che conosciamo è quasi sempre più complessa di quello che pensiamo. Anche il legame più compromesso chiede a volte di essere compreso. Non è al perdono che penso ma a una forma di compassione. È qualcosa che mi ha fatto capire mia figlia Lia. E in fondo era il rimprovero di mia moglie quando era in vita".

Di cosa l'accusava?
"Non erano accuse. È che l'affetto materno è profondamente diverso dal modo di ragionare di un padre".

Le capita di pensare alle vittime del terrorismo?
"Certo, per lungo tempo non ho dormito la notte. E provavo sconforto e desolazione per quello che era accaduto ".

Ha parlato dell'infelicità di un figlio. E quella del padre?
"Non sono felice. Perché dovrei esserlo? Non ne ho motivo. C'è anche chi dice: ti è andata bene. Hai fatto quello che hai voluto. È vero, sono stato anche un uomo fortunato. Ma adesso che la maratona si sta per concludere sento di arrivare stremato al traguardo. Sono un uomo ricco di contraddizioni, come vede".

Come vive questi novant'anni così vicini?
"Male, nonostante feste e celebrazioni".

Perché?
"In questi ultimi anni c'è stato il crollo fisiologico".

Si sente prigioniero della vecchiaia?
"Non è un carcere piacevole. Ho peggiorato la salute, la memoria. Fatico a muovermi e la vita è sempre più piena di ombre".

Teme la morte?
"Al contrario. Le dirò una cosa che la sconcerterà. Spero di morire entro la fine di quest'anno. Me ne voglio andare. Non è un proclama. Le dico solo la verità. Solo quello che sento".

E se ciò come mi auguro non accadesse?
"Spero di morire ma non ho preso la decisione di farlo. Non farei nulla per accelerarne il corso. Mia figlia Lia mi dice: papà, molla tutto, vieni a vivere a Roma. Anche qui hai tanti amici, tanti ricordi. E io le dico: è troppo tardi. E penso davvero che sia cominciato il conto alla rovescia".


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Nota

Metto il link dell' intervista rilasciata, trentanni dopo l'assassinio di Walter Tobagi, dalla moglie per capire meglio lo strazio per il figlio, di cui parla Morandini nell'intervista sopra.
http://www.navecorsara.it/wp/2010/06/01/stella-tobagi-l%E2%80%99assassino-di-walter-mi-porto-una-scatola-di-cioccolatini/

venerdì 8 agosto 2014

Ritratto di Umberto Veronesi

Il 22 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
ad Umberto Veronesi 



Umberto Veronesi: "Non c'è nulla di buono nel dolore, bisogna combatterlo senza tregua"

Il chirurgo italiano, ex ministro e senatore della repubblica italiana, è specializzato nella cura dei tumori al seno e ideatore della tecnica della quadrantectomia
di ANTONIO GNOLI

VADO a trovare Umberto Veronesi ben consapevole di trovarmi di fronte a un uomo che ha speso molto delle sue energie e della sua intelligenza per una guerra di lunga durata contro il cancro. Quella parola, "cancro",  -  per decenni invisa, nascosta, condannata o rimossa  -  oggi sembra fare meno paura. Mentre con un taxi mi faccio portare all'Istituto europeo di oncologia di Milano, penso a una interpretazione che Susan Sontag, morta di cancro giusto dieci anni fa, aveva dato della malattia definendola "il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa". Cittadinanza? La Sontag immaginò che la malattia fosse come entrare in un altro paese, in un'altra identità: nel regno dello star male. E in fondo è questa la ragione profonda del timore che proviamo ogni qualvolta ci si trovi in un luogo sconosciuto segnato dalla sofferenza e dal dolore estremo.

Veronesi siede nel proprio studio come rinfrancato. È appena uscito da una fastidiosa caduta. Se ci sono conseguenze non si vedono: ha un'aria elegante e rilassata, come in un primo giorno di festa, quando tutto appare sotto una luce migliore. E quel luogo dove mi riceve, costruito con le intenzioni di farne uno spazio a misura umana, dà l'impressione che quella guerra si possa anche vincere: "Lei non può immaginare cosa fosse all'inizio: si combatteva in un trucido campo di battaglia, in un lazzaretto dell'infelicità umana, in un luogo considerato dai più
senza ritorno".

Intende dire che la medicina non contemplava la guarigione?

giovedì 24 luglio 2014

Ritratto di Arturo Schwarz

L' 08 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
ad Arturo Schwarz 


Arturo Schwarz: "A novant'anni sono avido di vita mi sento più trotskista che mai"

Dalla creazione in Egitto di una sezione della Quarta Internazionale, che gli costò le torture, all'arrivo in Italia, dove divenne gallerista e grande collezionista del movimento surrealista
di ANTONIO GNOLI

CHE cos'è che mi assilla durante tutta la conversazione con questo signore che alterna la memoria precisa dei fatti con i piccoli spazi regalati all'oblio? Sono qui, nella sua casa milanese a due piani (forse tre considerando la parte sotterranea), in mezzo ai 40 mila volumi e alle opere d'arte che con sincretica abilità ha messo insieme lungo il corso di una vita. Sono qui, seduto davanti ad Arturo Schwarz che mi fissa attraverso le spesse lenti e chiede domande esatte, precise, circostanziate. E mentre chiede si accarezza la barba. Detesta la vaghezza.

Ha accanto la nuova compagna. Si chiama Linda. Apprendo che stanno insieme da sei anni e che si sono sposati da poco. Il vecchio maschio alpha sorride alla donna bionda. Premurosa e taciturna, lei lo guarda senza frenesia. Si nota la grande differenza di età. Ma invece di sorprendermi mi fa pensare a due corpi finiti, per caso e forse felicemente, nella stessa orbita. Che cos'è che mi assilla allora? È l'idea che la natura si possa forzare? Cambiarne le leggi? Stravolgerle? Sarebbe comunque troppo. Eccessivo. E allora cos'è? È il fatto che non riesco a capire quanta percentuale "levantina" si nasconda in quest'uomo dalle dichiarate ascendenze egiziane: "Sì, sono nato ad Alessandria d'Egitto e la mia vita è stata una grande avventura", dice con l'aria di chi stia fornendo una biografia dai tratti romanzeschi.

Il nome Schwarz farebbe pensare a origini tedesche.
"Mio padre era di Düsseldorf. Ebreo, sposò un'ebrea milanese: Margherita Vitta, figlia di un colonnello italiano che andò di stanza in Egitto. Fu lì che si conobbero".

Cosa faceva suo padre?
"Era un chimico. Attraverso dei processi di liofilizzazione, inventò un sistema di conservazione del cibo. Fu la nostra fortuna con il governo egiziano".

Com'era Alessandria?
"Popolosa, strana, dal sapore cosmopolita; abitata da commercianti greci, italiani, armeni; da finanzieri libanesi e da diplomatici inglesi e francesi. Ricordo il vociare dei venditori d'acqua e l'intenso profumo dei narghilè. Mio padre mi iscrisse al "Victoria College". Feci le scuole e l'università francese e inglese: la Sorbonne aveva laggiù un suo distaccamento. Come Oxford, del resto".

E cosa ha studiato?
"Filosofia e scienze naturali. In seguito aprii una libreria. Ma la vera passione in quegli anni giovanili fu la politica. Creai una sezione egiziana della Quarta Internazionale ".

Quella fondata da Trotsky nel 1938?
"Sì. E oggi compiuti i novant'anni mi sento più trotskista che mai. Allora, a causa della mia attività politica, fui arrestato e condannato all'impiccagione".
Che anno era?
"Gennaio 1947. Lo ricordo come fosse ieri. Mi prelevarono la mattina presto. Fui trascinato in prigione. L'accusa era sovversione. Mi sbatterono nei sotterranei. Una cella asfissiante, piccola e come unici compagni topi e scarafaggi. Mi rasarono a zero. Mi torturarono strappandomi le unghie dei piedi. Sopraggiunse una cancrena per cui persi l'alluce del piede destro. Infine fui trasferito nel campo di internamento di Abukir".
Come ha fatto a salvarsi?
"Due anni di prigionia in attesa che si eseguisse la sentenza. Prevista per il 15 maggio del 1949. In corso c'era la guerra arabo-israeliana. Che ebbe varie fasi. Nel febbraio del 1949, giunse l'armistizio tra Egitto e Israele. Nel mutato clima fui liberato in aprile".
I suoi genitori?
"Mia madre era morta da tempo. I miei divorziarono che avevo cinque anni. Per un po' stetti con lei, una donna rancorosa. Cominciò a maltrattarmi: rivedeva in me piccolo quello che un giorno era stato suo marito. Alla fine mio padre riuscì ad ottenere l'affidamento. La mamma morì nel 1939. La Germania dilatava i suoi deliranti sogni di guerra e io non sapevo più chi fossi".
In che senso?
"Non avevo più un'identità. Nel 1933, come ebreo, persi la cittadinanza tedesca. Presi quella di mia madre. Fu cancellata nel 1939. Ero dunque un apolide. Finita la guerra accettai di riprendermi la cittadinanza italiana. Per cui, quando si trattò di espellermi dall'Egitto, fui mandato in Italia".
Dove?
"Con il piroscafo arrivai a Genova e poi, con il foglio di via, finalmente a Milano. Non avevo soldi, né vestiti, ero solo. Sapevo che per sopravvivere avrei dovuto trovarmi al più presto un lavoro. Feci la sola cosa che avevo già fatto ad Alessandria: misi in piedi una libreria con annessa una piccola casa editrice. La Banca Commerciale, grazie a un cugino che era un funzionario, mi concesse un fido. Che poi mi fu tolto".
Perché?
"Sospetto che ci fosse lo zampino di Togliatti. Pubblicavo i libri di Trotsky e il Pci non amava certo quella figura che era stata fatta assassinare da Stalin. L'anno in cui morì per mano di un sicario avrei dovuto incontrarlo a Coyoacán in Messico dove viveva. Era il 1940. Avrei affrontato un lungo viaggio per mare. Con tutti i rischi della guerra. Ma non feci in tempo. Mi restò un suo biglietto da visita che avrebbe dovuto funzionare da lasciapassare. Deve essere da qualche parte. Conservato come una reliquia".
Mi fa venire in mente le sue considerevoli collezioni?
"Odio la parola collezionismo. Tutto quello che ho raccolto non è stato fatto nel nome della proprietà privata, ma per amore verso l'arte, in particolare verso il surrealismo, che ha segnato la mia vita".
Come è nata la passione surrealista?
"Tutto avvenne dopo aver letto il Manifesto di André Breton. Nei primi anni Quaranta gli inviai le mie poesie. La risposta arrivò sei mesi dopo. Tenga conto che l'Atlantico era infestato dagli U-Boot tedeschi. Mi rispose incoraggiandomi. Da allora decisi di far parte del gruppo surrealista".
Con quali effetti?
"Per me unici. Ero felice di stare in contatto con artisti straordinariamente liberi e onesti".
Onesti?
"Intendo intellettualmente. Breton fu descritto cola me una specie di dittatore che imponeva le sue scelte culturali. Non è vero. L'ho conosciuto bene. Era di una dolcezza e di un'ironia uniche. E poi Duchamp, che incontrai nel 1954. Chi meglio di lui ha interpretato lo spirito dei tempi? E Yves Tanguy? Semplicemente strepitoso. E Max Ernst? Lo conobbi a Parigi. Grande. Ma non ho avuto molta simpatia per lui. Gli rimprovero di aver tradito Breton".
Nelle sue mani, si dice, siano passati parecchi capolavori di quel periodo.
"È vero. Li ho avuti, tenuti appesi, venduti e donati. Duchamp, Man Ray, Masson, Tzara, Dalí, Ernst, Pollock che non era un surrealista, ma proveniva da quel mondo".
Perché dice "donati"?
"Perché circa un migliaio delle mie opere sono finite in quattro grandi musei internazionali".
Cosa ha chiesto in cambio?
"Che le opere fossero catalogate, documentate, accompagnate da una dignità scientifica. È il solo modo per far sopravvivere l'arte".
Tra i musei che cita è compresa anche l'Italia?
"Dopo molte complicazioni burocratiche un consistente nucleo delle mie opere dada e surrealiste sono
finite alla Galleria d'Arte Moderna di Roma".
Complicazioni in che senso?
"Non fu per niente facile. Si giunse al paradosso che ero io che dovevo giustificare il lascito e non lo Stato quello di fornire le garanzie per la gestione. La cosa più comica accadde con la mia biblioteca di testi dada e surrealisti che era compresa nella donazione. E che gli specialisti consideravano un pezzo unico. Fu rifiutata perché qualcuno allora insinuò che era robaccia pornografica! Il Getty Museum aveva offerto due milioni di dollari. Alla fine la donai a Israele".
Mi faccia capire meglio questo atteggiamento del "donare".
"Cos'è che non va?".
Lei è un gallerista. Ha trattato opere. Le ha comprate e vendute. Voglio dire: non sto di fronte a una classica figura di mecenate.
"Ma un uomo è tante cose assieme. E non c'è contraddizione tra un'attività mercantile e il bisogno di trasmettere un patrimonio, per quanto piccolo, senza smembrarlo. C'è  -  come dire?  -  una volontà spirituale che reagisce al puro dominio del denaro. Non sarei ancora un trotskista e un surrealista se non pensassi questo".
Se non pensasse che la proprietà è un furto?
"Ecco, leggiamo Proudhon e soprattutto Stirner, ma anche la Cabala e l'Alchimia che ho studiato a fondo ".
Cosa c'entrano queste ultime?
"I primi scritti alchemici distinguevano chiaramente l'oro come metallo dall'oro spirituale o "filosofale". Nelle esegesi talmudiche vengono presi in considerazione sette diversi tipi di oro. In molti testi alchemici Dio stesso è paragonato all'"oro dell'alto". Siamo in pieno antimaterialismo".
La frequentazione dei testi sacri come la relaziona con il buon Dio?
"Dio è un'ipotesi culturale. Sono ateo da sempre. Con gli anni invece di indebolirsi questa posizione si è rafforzata".
Davvero?
"Eh, già. Certe volte mi chiedo come qualcuno abbia potuto creare un mondo così di merda. Se ci fosse un Dio che avesse realizzato tutto questo, sarebbe un sadico".
In fondo in un mondo così non le è andata poi tanto male.
"Forse perché tutta la mia vita si è svolta sotto il segno dell'amore".
È una parola impegnativa e anche un po' scivolosa.
"Non me ne frega niente che sia scivolosa. Mi riferisco alle persone che ho amato e che amo".
A chi per esempio?
"Penso alla mia prima moglie: Vera. L'ho amata in maniera totale. E quando è morta, vent'anni fa di tumore, la mia vita ne uscì sconvolta".
Che cos'è un uomo cui viene sottratta una delle ragioni principali della sua esistenza?
"È un essere finito. Posso solo dirle che a un certo punto quel disagio è talmente cresciuto in me da togliermi ogni ragione di vivere. Ero una ridicola mosca senza più ali che si dibatteva freneticamente".
Ha pensato al suicidio?
"Più volte. Ho pensato di farla finita anche prima di incontrare lei, Linda, che ora vede sedermi accanto. Ero stanco. Con problemi fisici seri dopo un'operazione alla schiena andata di schifo. Linda mi ha salvato. Mi ha dato un'altra chance".
Cosa la spaventa della morte?
"Non ne ho paura. Sono avido di vita. Lo sono più ora che ho superato i 90 anni che quando ne avevo 30. Ma so che arriverà il momento in cui sarò nuovamente stanco di vivere. Non so se avrò ancora la forza di ribellarmi. Tutte le ribellioni, però, sono sacre".
Anche quelle contro la natura?
"È difficile ribellarsi alla natura. In questo mi sento molto spinoziano. Quando verrà la mia ora me ne andrò spero senza troppo protestare".
Si percepisce in lei tutto e il contrario di tutto.
"Non capisco se lo intende come un segno di ricchezza o di ambiguità".
Forse entrambi.
"L'uomo è un coacervo di sentimenti contraddittori. Ha un lato sublime e accanto uno deteriore. È generoso e vile; disinteressato ed egoista. È la vita. Prendiamola per il verso giusto. Spero solo di non aver fatto troppe cazzate. Alla fine ciò che avrò dato e anche quello che riceverò. Poi, come tutti, lentamente sbiadirò, senza lasciare traccia".
Lei ha scritto una settantina tra testi di saggistica e di poesia. Mai un libro di memorie. Rientra nella convinzione che tanto tutto è destinato a finire?
"Non lo so, sinceramente. E poi: ho cose più interessanti da fare che mettermi a scrivere le mie memorie. Se qualcosa resterà di me, e dubito fortemente, sarà attraverso i gesti concreti. Non nelle parole".
Cosa vorrebbe indietro che oggi non ha più?
"Non mi manca nulla. Non soffro di nostalgia. Ho perfino conservato intatte le mie radici ebraiche".
Come le definirebbe queste radici?
"Sono la linfa di tutto. E quel tutto ha assunto per me la forma del desiderio di conoscenza e di fratellanza. Nel Tanàkh  -  cioè nel Vecchio Testamento  -  si dice, ancor prima che nei Vangeli, una cosa fondamentale: ama il prossimo come te stesso e non fare male a nessuno. È il fondamento della nostra etica civile. Non ne vedo altri".
© RIPRODUZIONE RISERVATA
DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI
 

domenica 13 luglio 2014

Ritratto di Carla Vasio

Il 1 giugno  su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
 a  Carla Vasio





Carla Vasio: "Ho fatto la guerra del Gruppo '63, ora vivo per dimenticare tutto"

La scrittrice, saggista, storica dell'arte e poetessa italiana, nata a Venezia nel 1932 e poi trasferitasi a Roma, in occasione del cinquantenario della nascita del movimento ha pubblicato il libro di memorie Vita privata di una cultura (Nottetempo, 2013) che ne ripercorre la storia
di ANTONIO GNOLI  

E poi c'era lei. Carina. Molto carina. In quel Gruppo '63. In quella foto affollata di teste che sarebbero diventate note e con il vecchio Ungaretti davanti alla torta: "Eravamo nati a un giorno di distanza l'uno dall'altra. Festeggiammo insieme i compleanni. Ungaretti era lì. Con l'immancabile basco. Non spaesato. Sordo e inguaribilmente incazzato. Mio Dio, pensai, ora prende la torta e la lancia contro qualcuno", ricorda Carla Vasio. Sì, Ungaretti poteva essere imprevedibile.

Ma quello che non capisco è perché delle donne che hanno partecipato al Gruppo '63 non si parla mai. Guardo la Vasio  -  una signora fine, con un bel libro di memorie pubblicato da poco ( Vita privata di una cultura , Nottetempo)  -  e mi aspetto una risposta risentita, rancorosa. E invece è ironica: "Forse non gliela davamo. O forse pensavano di essere solo loro i protagonisti di questa scena che è durata alcuni anni e molto ha svecchiato nella cultura italiana".

Erano maschilisti incalliti?
"Si sentivano tutti dei geni. E alcuni forse lo furono anche. Sicuramente Edoardo Sanguineti. Il più sorprendente. Paradossale".

C'è una foto in cui ballate avvinghiati.
"Avvinghiati? È di una castità dopolavoristica. Del resto Edoardo era sposato e io avevo le mie storie, rigorosamente fuori dal gruppo".

Di tutta la combriccola fu molto presente Giorgio Manganelli.
"Adorabile nevrotico. Fu un'amicizia vera con lui. Fatta di intesa e di confidenza. Ma senza complicazioni sessuali. A volte reagiva con indignazione alle ingiustizie culturali".

A cosa si riferisce?
"Accadde un episodio, proprio nel 1963. Nella sede milanese di Garzanti fu presentato Accoppiamenti giudiziosi di Gadda. Aprì Ungaretti. A un certo punto Pasolini lo interruppe accennando, provocatoriamente, ad alcuni versi di una poesia piuttosto sconcia da dedicare allo scrittore. Il pubblico rumoreggiava. Gadda in prima fila era rosso come un peperone e in preda a un'angoscia terribile".

E Manganelli?
"Soffriva. Mi trascinò fuori in preda all'ira. Reagì alla provocazione pasoliniana allontanandosi".

Ma il Gruppo '63 non amava Pasolini.
"Non condivideva nulla della sua impostazione anacronistica. Non lo amava, ma non ne parlava. Il vero grande nemico che temevamo non erano neppure Cassola o Bassani, facili bersagli. No. Era Alberto Moravia. Lui, soprattutto. Non gli altri".

La racconta come fosse una guerra.
"E in un certo senso lo è stata. Con morti e feriti. Roma e Milano furono i due grandi campi di battaglia. Preceduti da Palermo che fece da detonatore. Per me che ero veneziana fu un bel divertimento ".

Quanto è rimasta a Venezia?
"Fino all'adolescenza. Con i miei abitammo prima in un angolo di un vecchio palazzo gotico. Poi andammo a vivere al Lido. Feci lì le elementari. Tra le mie compagne di classe c'era Rossana Rossanda".

E com'era
"Bella, elegante e molto intelligente. Quando ci rivedemmo, molti anni dopo, mi propose di collaborare al Manifesto . Ringraziai e poi dissi che i miei interessi erano troppo frivoli per le loro esigenze".

Frivoli?
"Diciamo leggeri, impolitici. Ero stata per un periodo a Parigi nei primi anni Sessanta. Mi ero laureata in storia della musica e facevo le mie brave ricerche su Debussy. Poi conobbi Henri Michaux, un bel tipo. Continuava a parlarmi dei grandi effetti letterari che l'uso della mescalina produceva. Lo guardavo affascinata e inorridita al tempo stesso".

Tornerei ancora un momento a Venezia. Quando la lasciò?
"Durante la guerra. Mio padre, che era un giornalista del Gazzettino, partecipò alla Resistenza. Si trasferì a Roma e noi con lui. Poi sparì e restammo io e mia madre. Il 1943 fu il nostro inverno della fame. Fu terribile. Il padre di due mie compagne ebree notando la mia denutrizione ricordo che mi diede due scatolette di vitamine americane".

Come fu il dopoguerra a Roma?
"Eccitante. Avevo fatto il liceo al Mamiani, l'università a Lettere. La vera Roma, quella straordinariamente reattiva capace di diventare un assoluto centro internazionale, si realizzò nella seconda metà degli anni Cinquanta. Non si può avere un'idea di che cosa fosse la sua vitalità: artistica e culturale. La cosa più strabiliante fu anche un certo lato esoterico che in seguito la città, sotterraneamente, sviluppò".

Cosa intende per esoterico?
"Una certa predilezione per le dottrine orientali e in particolare indiane. Era facile nei primi anni Sessanta incontrare Krishnamurti nel salotto di Vanda Scaravelli. Lei grande esperta di yoga ed entrambi appassionati di automobili. Oppure, in casa del compositore Giacinto Scelsi, trovarsi al cospetto di qualche affascinante lama tibetano. Lì ci si poteva imbattere in Patrizia Norelli- Bachelet. Aveva sposato un diplomatico e si era trasferita in America. Di punto in bianco, così raccontò, sentì la chiamata mentale dall'Ashram di Aurobindo".

Il santone indiano?
"Lui. Patrizia abbandonò tutto. E senza soldi, né un programma, con un bambino di sei anni, si mise in viaggio per raggiungere l'India. Si incamminò verso l'India come fosse il posto più vicino a casa. E fece una lunga tappa a Roma".

E qui cosa accadde?
"Incontrò una giovane pianista, allieva prediletta di Arturo Benedetti Michelangeli, su cui il maestro riponeva grandi speranze. Ma la giovane donna sorprese un po' tutti quando, all'inizio di un concerto, disse che non avrebbe più suonato in pubblico. Da quel momento si dedicò a mettere a punto una terapia musicale per bambini difficili e down".

E lei in tutto questo che c'entrava?
"Eravamo diventate amiche. Io mi occupavo di musica, Patrizia di astrologia e Maura Cova, insieme ad Alberto Neuman, altro allievo straordinario di Michelangeli, fondò una scuola musicale in cui insegnava il nuovo metodo. Il mio compito era trascrivere quello che accadeva. Poi mi accorsi di un fatto abbastanza curioso".

Quale?
"A Roma si era formata una enclave di junghiani".

Lo dice come fosse una setta.
"In un certo senso lo era. Ne fui ammessa andando, per diverso tempo, in analisi da Ernst Bernhard. Alla fine Bernhard, che aveva avuto in cura Manganelli e Fellini, voleva che diventassi analista e mi spedì da un personaggio meraviglioso che viveva ad Ascona".

Chi era?
"Aline Valangin. Non saprei come definirla: una specie di drago mitologico. Era già molto anziana. Era stata una pianista mancata, dopo un incidente alla mano sinistra. Allieva e paziente di Jung. Sposò un avvocato ebreo e la sua casa durante la dittatura fu un punto di riferimento per gli antifascisti. Ebbe anche una storia con Ignazio Silone. Insomma, mi presentai a lei con una lettera di Bernhard. Fu premurosa. Mi disse che avrei dovuto studiare qualche anno a Zurigo, prima di intraprendere la professione di analista".

E cosa decise?
"Ero tentata e lusingata. Ma alla fine prevalse il desiderio di occuparmi di musica e di arte. E poi volevo scrivere. Ma intendevo farlo in forma originale. Passò qualche anno quando realizzai un curioso "romanzo storico", scritto su di un solo grande foglio da appendere alla parete. Enzo Mari ideò la gabbia grafica. E quando il libro uscì ricevetti una telefonata da Italo Calvino".

Cosa le disse Calvino?
"Cominciò a imprecare. Sembrava arrabbiato. Poi di punto in bianco cambiò tono: ti devo parlare. Stasera vediamoci a cena, disse. Eravamo amici. Spesso si mangiava insieme in trattoria e si scherzava su tutto. Sentirlo così rancoroso mi preoccupò. Quando ci vedemmo mi sembrò freddo: come ti sei permessa di scrivere il libro che volevo fare io? Restai sconcertata. Poi capii che era il suo modo di esprimere consenso. Qualche mese dopo uscì una sua recensione in cui definì Romanzo storico uno dei più straordinari libri degli ultimi anni".

Che anno era?
"Mi pare fosse il 1976. Si avvicinava una nuova fase di contestazione che non avrebbe portato a niente. Poi ci fu la tragedia di Aldo Moro. Il Paese allo sbando. Roma da tempo aveva smesso di essere la città straordinaria che era stata. Credo che l'ultimo sussulto lo ebbe con l'estate dei poeti nel luglio del 1979".

Fu un evento che alcuni ancora oggi considerano memorabile.
"Si realizzò grazie alla fantasia e al coraggio di Renato Nicolini e a circostanze fortuite. Fu Fernanda Pivano a portare a Roma i poeti americani. Una sera mi telefonò. Domani arrivo con Allen Ginsberg. Devi condurci con la tua macchina a Ostia. Partimmo in tre. Ginsberg sembrava inquieto. Arrivammo che c'era già una quantità pazzesca di gente. Dal palco qualcuno leggeva poesie".

E cosa accadde?
"Peter Orlovsky fu coinvolto in una rissa. Ginsberg vedendo il fidanzato in difficoltà reagì in modo sublime. Salì sul palco. Afferrò il microfono. Si sedette in terra. E cominciò a cantilenare, con la sua voce bellissima, un mantra. Improvvisamente si fece silenzio. La rissa finì. E l'evento poté finalmente decollare".

Fu un canto del cigno.
"Fu la cosa più bella e gratuita che ci potesse accadere. Ricordo che Nanda era divisa tra lo stupore per quella serata imprevedibile e il racconto che mi fece di un tentativo da parte di Gregory Corso, totalmente drogato, di farsela. Senza riuscirci".

Come reagì la Pivano?
"Non lo so. Sembrava divertita al racconto. C'era nell'aria una strana eccitazione. Tutto poi rientrò con un misto di stanchezza e di quiete. La festa era finita. Quell'estate andai in Puglia e poi, per una decina di anni, ho vissuto in Giappone".

Al quale in seguito ha dedicato un libro.
"Sì, lo pubblicò Einaudi nel 1996. Come la luna dietro le nuvole fu il titolo. Raccontavo attraverso gli occhi di una scrittrice giapponese della fine dell'Ottocento le percezioni che avevo avuto di un mondo capovolto rispetto al nostro. Mi servì anche per prendere le distanze da tutto quello che ero stata. Dal mondo che avevo conosciuto e che era finito".

Lasciando qualche trauma?
"No, in me non ha prodotto ferite. Semmai, resta il rimpianto per coloro che sono scomparsi e che qualche volta vorrei rivedere".??Chi per esempio??"La mia amica Amelia Rosselli, anche lei a suo modo fece parte del Gruppo '63. Fu una poetessa bravissima. Deformata dalla schizofrenia che non le diede mai pace. Per tutta la vita provò a combattere l'oscurità. Ho dentro, sconsolata, la sua sofferenza. Mi telefonò una notte. Era l'inverno del 1996. Mi chiese di portarle da mangiare. E quando giunsi, e non aprì la porta, capii che era troppo tardi".

Come giudica la sua vita, la sua bellezza di allora?
"Non mi sono mai addomesticata, né ammansita. Della mia bellezza non me ne sono fatta uno strumento, anche quando avrei potuto servirmene. Il succo della vita è di viverla. Possibilmente al di là delle transenne. Continuo a farlo. Con le forze che restano in una signora di 91 anni. Ho finito di scrivere un libro, il cui titolo dovrà ruotare attorno all'arte di dimenticare".

Curioso per una donna che ricorda tutto.
"Sono d'accordo, ma considero quell'arte suprema".??Perché??"Via via che il tempo ci passa addosso occorre spogliarsi di ciò che siamo stati. Mi soccorre un'immagine che ricavo dal Libro egizio dei morti. C'è la dea Maat che sta sulla soglia dell'aldilà, per esaminare lo spirito dei morti, e decidere chi potrà varcarla e chi no".

E come conosce l'anima dei defunti?
"Maat ha in una mano la bilancia. Su un piatto mette il cuore del defunto; sull'altro depone una piuma della sua acconciatura. Ecco: il proprio cuore deve essere leggero come una piuma, deve aver dimenticato tutto per poter entrare nell'aldilà".

Lei crede nell'aldilà?
"Non si sa mai, mi verrebbe da dire. E poi via via che mi avvicino alla fine sento che mi seccherebbe oltremodo pensare che non ci sia nulla. Che tutto finisca su quella soglia. No, quanto meno mi sembrerebbe una triste svalutazione della vita".

sabato 12 luglio 2014

Ritratto di Eugenio Borgna

Il 26 maggio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Eugenio Borgna 

Eugenio Borgna: "L'anima non guarisce mai del tutto, le resta sempre accanto un'ombra"

Dagli studi universitari all'interesse per quei malati un tempo tenuti ai margini, lo psichiatra racconta come è cambiata la disciplina
di ANTONIO GNOLI

LA PRIMA cosa che viene in mente osservando Eugenio Borgna, mentre è ad attendermi alla stazione di Novara, è il suo spiccato senso di gentilezza. Nelle movenze dinoccolate di quest'uomo alto e asciutto, che flette lieve verso l'altro come un giunco, si coglie la disponibilità rara dell'ascolto. Ci fermiamo, vista l'ora di pranzo, a un ristorante gradevole e semivuoto: "Qui veniva Scalfaro", ricorda Borgna.

E ho l'impressione di un altro tempo. Che è la medesima sensazione che provo nella casa di questo grande psichiatra: vasta, spoglia, ma anche sovraccarica di libri. Come congelata in un altro tempo. Forse più prezioso. Più intimo. Certamente meno duro e perfino più fragile. Proprio al tema della fragilità Borgna ha dedicato un libretto ( La fragilità che è in noi, edito da Einaudi) ricco di considerazioni tenui. Intonate al pastello più che all'acido; alle sfumature più che ai tratti decisi. Ho l'impressione che il pensiero di quest'uomo si svuoti dell'aggressività necessaria in una società votata all'urlo e alla chiacchiera.

Cosa rappresentano le parole per un medico come lei?
"Le parole hanno un immenso potere. Ci sono parole troppo dure e violente. Troppo inumane. Che i medici, non tutti per fortuna, rivolgono al malato. E ci sono parole in grado di aiutare l'altro. Le mie parole sono state anche domande a me stesso e agli altri. Sono i dubbi e le incertezze che ho seminato lungo la mia lunga vita".

Che ha avuto inizio dove?
"A Borgomanero, a una trentina di chilometri da qui. Vi ho trascorso la mia infanzia e poi l'adolescenza. Interrotta bruscamente quando i tedeschi nel 1943 occuparono la nostra casa. Mio padre, avvocato, faceva parte della Resistenza. E noi, sei figli, con mia madre che teneva in braccio l'ultimo nato, ci avviammo a piedi verso la collina dove protetti da un parroco ci nascondemmo".

Quanto durò?
"Sei mesi. Tornammo per constatare che la casa era stata distrutta. A poco a poco la vita riprese. La scuola, poi il liceo, infine l'Università a Torino e la specializzazione a Milano nella prima clinica per le malattie nervose ".

Perché quel tipo di scelta?
"Sulle orme paterne avrei potuto fare l'avvocato. O magari il letterato avendo divorato i libri della biblioteca di mio padre. Ma compresi, grazie anche alla letteratura e alla poesia, che occuparsi delle persone che stavano male poteva dare un senso più autentico alla mia esistenza".

Essere autentici è un dovere?
"Diciamo che avvertivo il desiderio di una verità più grande di quella che di solito osserviamo".

Mi faccia capire.
"Dopo un po' che frequentavo la Prima clinica mi accorsi che esistevano due tipi di pazienti, ben distinti: neurologici e psichiatrici. Questi ultimi erano ignorati".

Perché?
"Si pensava che solo le malattie del cervello meritassero attenzione. Mentre a me interessava relativamente quel tipo di indagine. E fu attraverso quei pochi pazienti psichiatrici, tenuti ai margini, che scoprii un mondo di dolore e di sofferenza che mi parve più autentico di quello biologico e organicistico".

Non le bastava la verità clinica?
"No, desideravo toccare una verità più esistenziale. Non volevo l'oggettività del neurologo. Ero portato ad ascoltare la sofferenza e l'angoscia come aspetti di una soggettività più complessa. Avevo 32 anni e una libera docenza che mi dischiudeva le porte per una grande carriera milanese".

E invece?
"Decisi  -  tra lo sconcerto dei colleghi, dei superiori e degli amici  -  di accettare il posto di direttore del reparto femminile dell'ospedale psichiatrico di Novara. Quando entrai vidi all'esterno degli enormi giardini. Mi accompagnava un silenzio assoluto. E malgrado fosse inverno le finestre dell'ospedale erano spalancate. Con i pazienti che guardavano fuori".

Una scena irreale?
"Sembravano le marionette di un teatro dell'assurdo. Ma era niente rispetto alla situazione che trovai all'interno. Quello che vidi fu raccapricciante: i pazienti legati o rinchiusi in spazi asfissianti. Le urla e i lamenti. Era agghiacciante. Sembrava di essere in un carcere crudele e senza senso. So bene che oggi la situazione è cambiata, ma allora, nei primi anni Sessanta, fu sconvolgente constatare che c'erano esseri umani cui era stata tolta la dignità del vivere".

Come reagì?
"Provai una profonda vergogna. E al tempo stesso capii che avevo fatto la scelta giusta. Provai a cambiare la situazione. Aprii le porte e vietai l'uso dei letti di contenzione. Nessun paziente poteva più essere legato. Chiamai da Milano alcuni assistenti con i quali avevo lavorato e che avevano, come me, combattuto contro certi metodi".

Metodi comunque fondati su una lunga tradizione clinica.
"Certo. In quelle decisioni non c'era malvagità, ma tanto pregiudizio. Meglio: l'incapacità di capire veramente cosa si nasconde nella follia".

Non è facile trovare un varco per la comprensione.
"Non lo è finché ci si rifiuta di pensare alla schizofrenia come a una forma di esistenza. Certo diversa dalla nostra normalità, ammesso che esista, ma pur sempre esistenza vitale".

Lei dice: la schizofrenia è un mondo vitale. Cosa ha trovato in quel mondo?
"La schizofrenia è una delle forme di sofferenza più enigmatiche e strazianti che si conoscano. Si radica, per lo più, nella crisi esistenziale segnata dal passaggio dall'adolescenza alla giovinezza".

Si insinua nel mutamento degli orizzonti di vita?
"Esattamente. E può essere vista come un'anarchica e totale perdita di senso, oppure essere riconosciuta, compresa e utilizzata solo se si riesce a guardarla con un forte atteggiamento interiore".

Intende dire che ci si deve porre alla stessa altezza della malattia?
"Intendo dire che le radici della malattia sono esistenziali e non cliniche. E questa convinzione fa venir meno il rapporto asimmetrico tra medico e paziente".

Ma è pur sempre il medico che decide per l'eguaglianza.
"È vero. Ma con quella decisione è il medico a mettersi in discussione. Negli anni della mia professione ho capito che o si tenta di rivivere le cause del dolore e dell'angoscia degli altri, con tutte le risonanze e i rischi personali, oppure si è destinati al fallimento".

C'è un modo certo per registrare questo fallimento?
"La nostra maschera portata davanti a chi vive immerso in una condizione schizofrenica è immediatamente percepita nella sua insopportabile finzione e lontananza ".

Cos'è per lei la guarigione?
"Parlando di guarigione in psichiatria c'è il rischio di sconfinare in una segreta violenza".

Cioè?
"Intesa in senso dogmatico la guarigione vorrebbe sanare tutto; risolvere ogni problema legato alla malattia ".

E invece?
"La guarigione assoluta, in psichiatria, è solo un gesto totalitario. L'altra faccia, se vuole, del modo in cui la scienza dell'anima si è lungamente accanita sul corpo del malato. Senza pudore né dignità. Personalmente sono convinto che la guarigione avvenga anche quando i sintomi della malattia continuano a manifestarsi. Si può guarire continuando ad avere accanto quest'ombra ".

Non ha mai temuto di essere lei stesso avvolto o sfiorato da quell'ombra?
"Mi sta chiedendo se il peso di ciò che ho sostenuto in questi lunghi anni mi abbia in qualche modo coinvolto più del dovuto?".

Sì. Nel senso che se si fa propria la sofferenza del paziente cade ogni distinzione.
"Viene meno la distanza e con essa ci si apre alla sofferenza dell'altro. Penso anche che la sofferenza sia una condizione necessaria alla via della conoscenza" .

Ma è una domanda più diretta che vorrei farle e che spieghi la sua "posizione scomoda": ha mai sofferto di depressione?
"Sì, è un universo che in alcune fasi della mia vita mi ha inghiottito".

E cosa si prova?
"Nella depressione si vive come sprofondati nel passato. Non si vede più il futuro né la speranza. Si blocca la percezione del cambiamento; si sprofonda nelle cose avvenute che non mutano mai. E poi affiora l'esperienza fiammeggiante della colpa: una delle ragioni del nostro strazio. Ma nei miei quarant'anni di manicomio ho imparato che ci sono tante forme di depressione a seconda dei nostri caratteri e delle nostre emozioni. Teresa di Lisieux vedeva nella malinconia il sentiero per conoscere Dio".

C'è un nesso tra psichiatria e misticismo?
"Ovviamente no se si considera la psichiatria solo una scienza positiva. Ma le esperienze mistiche ci inducono a riflettere sugli abissi dell'anima, sulle sue lacerazioni. E non può immaginare quante volte mi sia trovato davanti alle oscure notti dell'anima".

Si nota quasi un desiderio di ricorrere alla religione.
"Non alla religione in quanto tale. Ma a certe sue pratiche: voler camminare con l'altro, immedesimarsi nell'altro. Si parla tanto di etica. Dove pensa debba stare tra il cuore di ghiaccio e il cuore segnato dal dolore? Dalla sofferenza occorre uscire. Ma guai non averla mai provata in vita".

Crede in Dio?
"Credo in senso pascaliano all'idea del mistero. Non credo a un Dio razionale che ordina il mondo. Oltretutto, visti i risultati, sarebbe stato un pessimo architetto. Ciascuno deve fare bene il proprio lavoro".

E il suo, ora che non ha più l'ospedale?
"Continuo a dedicare parte del mio tempo ai pazienti. Senza di loro mi sarei trasformato in un piccolo funzionario. Decida lei se del bene o del male".

E il resto della giornata che fa?
"Leggo e scrivo i miei libri. È un'altra maniera di raccontare il dolore e le fragilità umane. A volte per mesi non riesco a scrivere. È come se il buio calasse in me. Durò a lungo dopo la scomparsa di mia moglie".

Cosa accadde?
"Soffriva di una malattia autoimmune. Se la trascinò per buona parte della vita. E provai spesso dolore e disperazione. Morì 14 anni fa. Era una psichiatra infantile. Con un carattere molto dolce. Ancora oggi ne avverto il vuoto".

Cos'è la mancanza?
"Qualcosa che ci accompagna per sempre e che cerchiamo disperatamente di mettere tra parentesi. Ma si può ingabbiare ciò che non avremo mai più?".

Le cose passano. Destinate come sono a finire. Soprattutto nell'orizzonte della vecchiaia.
"Muta la luce, non necessariamente la materia".

E la vecchiaia di uno psichiatra?
"Perché dovrebbe essere diversa da quella di un fabbro o di un insegnante di matematica? Conta molto il destino di come è stata la propria vita".

Destino è una parola impalpabile.
"Sono le migliori. Le meno usurate. Il destino non lo intendo come la macchina inesorabile del fato. È sapere ancora una volta leggere dentro di sé. Riconoscersi. Freud lo fece da giovane e da vecchio. Fino a quando le forze lo sorressero continuò a lavorare. L'importante è non farsi divorare dall'homo faber. Solo così si ha più tempo per ascoltare".

Non teme il tempo della clessidra?
"Lo temo oggi come lo temevo da giovane. Ho sempre avuto la percezione acutissima dell'imprevedibile. Il morire era per me una possibilità immanente a trent'anni e adesso".

Citava Freud. Che rapporto ha con la psicoanalisi?
"Nessuno in particolare. È una grande esperienza culturale. Abbastanza inservibile per la schizofrenia".

Perché?
"Gli schizofrenici non possono raccontare i loro sogni perché non sognano. Servono altre strade. Altre parole. Starei per dire altri dolori. Sa una cosa che vorrei?".

Dica.
"Vorrei che non ci fossero più giorni muti e senza parole. Vorrei che anche quando il silenzio avvolgesse le nostre vite esso avesse la forma della dignità e non dell'indifferenza ".

lunedì 23 giugno 2014

Ritratto di Valentina Cortese

  Il 18 maggio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Valentina Cortese



Cortese: "La mia avventura a Hollywood finì con un whisky in faccia al re della Fox"

L'attrice è nata il primo gennaio 1923 a Milano. Nel 2012 ha pubblicato per Mondadori "Quanti sono i domani passati" (a cura di Enrico Rotelli), il romanzo autobiografico dedicato al figlio Jackie avuto dall'attore Richard Basehart
di ANTONIO GNOLI 

Valentina Cortese è ancora la signora evanescente e ironica di Effetto notte, di François Truffaut: "Impazzii di gioia quando mi chiamò. Lui era un genio al servizio della gentilezza", dice. "Un uomo che aveva provato la sofferenza del riformatorio e l'ebbrezza del successo. Potrei perfino riconoscermi in lui, nella sua storia", aggiunge con un tocco di nostalgia.

Nel senso che anche lei ha avuto un'infanzia difficile?

"Sono, quel che un tempo si diceva, una "figlia illegittima". Con una madre troppo giovane per accudirmi. Fui affidata a una coppia di contadini. Quando la mia vera madre veniva a trovarmi mi nascondevo nello sgabuzzino. Non volevo che mi portasse via, anche per un solo giorno. Il mio mondo era tutto lì: in quella campagna lombarda dove, anche nella miseria, sono stata molto felice".

Si avverte il pathos.
"Sono stati anni duri e compassionevoli. Appresi la semplicità dall'amore di due persone meravigliose che mi hanno accudita; e, al tempo stesso, sentii l'inquietudine per il fantasma materno che ogni tanto aleggiava. Le paure dell'infanzia mi hanno reso insofferente e forte".

Cosa rimprovera e cosa perdona a sua madre?
"Rimprovero la sua sventatezza, e il fatto che non c'era spazio per me nei suoi sogni".

Cosa faceva?
"Voleva essere una pianista, una grande concertista. Non ne ebbe la forza e forse il talento. Quanto al perdono, non lo so. La nostra storia si concluse abbastanza miseramente un giorno del dopoguerra nel ristorante dell'hotel Flora di Roma".

Che accadde?
"Volevo riconciliarmi con lei. La mia vita aveva preso a funzionare: c'era il lavoro nel cinema, e l'amore per un uomo come Victor de Sabata. Tutto quello che di spigoloso c'era stato tra noi due si andava smussando. Le comprai un gioiello, come segno di affetto. E quando mi vide cominciò a insultarmi e a dire che era un'offesa che io stessi con un uomo di trent'anni più grande di me".

E lei come reagì?
"Non ci potevo credere. Guardavo le sue mani che serravano violentemente i manici della borsetta. Aprii il regalo, meccanicamente. E quando vide il rubino si placò all'istante. Fece per afferrarlo, glielo strappai di mano. E fuggii via. Non ho più rivisto quella donna. Non ha più messo piede nel mio cuore".

E suo padre lo ha mai conosciuto?
"L'ho visto qualche volta da bambina senza sapere chi fosse. Credo che mi guardasse con una certa attenzione. Ma non sapevo nulla di quell'uomo. Andai al suo funerale. Forse spinta dal desiderio di conoscere la persona che aveva contribuito a mettermi al mondo. Mi sembrò tutto triste. Di una tristezza senza luce. Ricordo che mi allontanai dalle mie sorellastre con la sensazione che davvero qualcosa si era definitivamente chiuso".

Accennava al suo amore con il direttore d'orchestra Victor de Sabata. Vista la differenza di età, è stato in qualche modo il padre che non ha avuto?
"Ho amato molto Victor. Avevo 17 anni la prima volta che ci incontrammo. Fu un uomo speciale e meraviglioso. Persi la testa. Lasciai il liceo, mi trasferii a Roma e mi iscrissi all'accademia d'arte drammatica. Era un modo per stare con lui, vivere con lui, accompagnarlo nelle tournée. Mi chiede se sia stato un padre? Ma un padre non fa l'amore con una figlia. Però mi ha insegnato molte cose. Tranne una".

Quale?
"Che i grandi amori portano spesso grandi dolori. Victor era sposato, aveva dei figli. Pensavo che tutto si potesse ricomporre alla luce dei nostri sentimenti. Ma non fu possibile. Capii che i figli avevano ancora bisogno di lui. Per questo, molto a malincuore, accettai l'invito di andare a Hollywood".

Che anni erano?
"La fine degli anni Quaranta. Durante la guerra avevo fatto cinema con Carmine Gallone, Alessandro Blasetti. Conosciuto e frequentato Rossano Brazzi, Massimo Girotti, Alida Valli. Era bellissima Alida. Le offrirono un contratto a Hollywood poco prima che l'offrissero a me. Lei andò senza patemi. Io dovetti trovare la forza interiore. Per me Hollywood voleva dire mettere una distanza incolmabile tra me e Victor".

Com'era quel mondo che ogni attore vorrebbe frequentare?
"Luci e ombre, come tutte le cose. Ricordo la serie infinita di cocktail nelle case di attori famosi dei quali sarei diventata amica. Potevi incrociare Orson Welles, sempre con il suo bicchiere di whisky e a caccia di produttori, Walt Disney e perfino Thomas Mann, che aveva finito il suo esilio americano. Soprattutto all'inizio fu piacevole".

E in seguito?
"Ero stata messa sotto contratto dalla Fox. Nei primi mesi era tutto un susseguirsi di incontri con registi e produttori. Finalmente Jules Dassin mi contattò per girare I corsari della strada, avrei dovuto interpretare il ruolo di una puttana. Quello che non mi aspettavo è che Jules si innamorasse di me. Però accadde ".

E lei?
"Ero lusingata, perfino attratta. Poi scoprii che era sposato, e che aveva dei figli. Mi disse che stava divorziando. Non volevo assolutamente ricadere in una situazione come quella con Victor. Ci frequentammo sul set. Restammo buoni amici. Non sapevo che la mia storia con Jules avrebbe, in seguito, preso la piega della malinconia. Nel frattempo sposai Richard Basehart. Non fu un grande affare".

Perché?
"Dick era un uomo bello e incostante. Lo avevo conosciuto sul set di un film diretto da Robert Wise. Mi raccontò di essere rimasto vedovo. E per lui provai tenerezza. Cominciammo a frequentarci. Sapeva essere molto divertente. Ci sposammo nel 1951. E per un po' la nostra vita fu intensa. Perfino travolgente grazie a incontri con persone come Marilyn Monroe, Marlene Dietrich, Greta Garbo".

Tre donne che hanno fatto la storia del cinema. Com'erano i loro caratteri?
"Vidi la prima volta Marilyn a una premiazione. Accompagnavo mio marito. Mi colpì la sua pelle chiarissima. Sembrava una nuvola di panna montata. Mi sembrò una donna insicura, fragile e spaventata. Mi disse che odiava quei ricevimenti e i curiosi che l'assediavano. In seguito venne un paio di volte a casa nostra ".

E la Dietrich?
"La donna meno costruita che abbia conosciuto. Strano, no? Tutti la percepivano come la femme fatale dell'Angelo azzurro. In realtà era una persona semplice. Nel periodo hollywoodiano ci vedemmo spesso a colazione. Le piaceva cucinare personalmente. E adorava il cibo italiano. Che dire? Era intelligente, brava, schietta. Ma anche furba. Non nascondeva nulla di sé, ma al tempo stesso dava a volte l'impressione di una donna che aveva dovuto lottare ferocemente per affermarsi".

Chi non dava questa impressione era la Garbo.
"Fin da piccola fu il mio idolo. Appena giunsi a Hollywood il mio agente volle farmela conoscere. Ci incontrammo da Romanoff, un ristorante russo molto alla moda. Tremavo. Lo stomaco si chiuse per l'emozione. Lei parlò pochissimo. Guardavo il suo volto lunare e pensai che le leggende non sono il passato, ma il presente che irrompe e sconvolge".

L'ha più rivista?
"Anni dopo a Parigi, durante una sfilata di Chanel. Giorgio Strehler stava cercando un'interprete per Eleonora Duse in un film sulla sua vita. Mi venne in mente di proporle un contatto con Strehler per quel ruolo. Rifiutò. Mi disse che recitare non le interessava più. Mi stava davanti, ma sembrava remota. Ebbi l'impressione che non avesse più legami concreti con il mondo. E che forse era il mondo".

Lei nel frattempo era tornata in Italia.
"Sì, la mia esperienza hollywoodiana si era conclusa anche in malo modo. Nella più classica delle scene: il produttore che ti mette le mani addosso e si prende un bicchiere di whisky in faccia. Accadde con il grande padrone della Fox, Darryl Zanuck. Mi fece una corte insopportabile. Finì nel modo che le ho detto, durante una festa in casa sua. E fu la conclusione della mia carriera a Hollywood".

E suo marito?
"Mi illudevo di aver costruito un quadretto di famiglia felice. Avevamo un figlio meraviglioso. Ero un po' ingenua. Rientrammo in Italia e Fellini propose a Dick di recitare nel film La strada. Ero contenta per lui e per me. Federico era un buon amico. Come la Masina, del resto. Quello che non potevo prevedere era il tradimento di Dick".

Con chi?
"Con Giulietta. E non fu una cosa di un attimo. So che continuarono a vedersi per anni".

E Fellini?
"Non so se sapesse o meno. Del resto anche lui non era insensibile al fascino femminile. Soprattutto nell'usa e getta".

A cosa allude?
"A una storiella ormai nota. Federico si portò in macchina una di quelle attricione, che piacevano a lui: prosperose, abbondanti, vistose. Insomma, mentre andavano a Ostia, lei parlava della sua vocazione artistica, neanche fosse la Bergman. A un certo punto Federico cominciò ad accarezzarle i capelli e poi con la mano sulla nuca a spingerla verso il basso. Finalmente la poveretta capì cosa stava accadendo e, con tutto il fiato in gola, disse: "Feddericco, io artista, io no pompetto"".

Meraviglioso. Nella sua vita si intrecciano storie d'amore e di sesso. Come finì con suo marito?
"Voleva tornare a Hollywood. Restai in Italia. Ci separammo. Scoprii che mi aveva anche tradito con la baby sitter. Gli amori veri sono stati altri".

È rimasta in sospeso la storia con Jules Dassin.
"Ha continuato ad amarmi e a raggiungermi un po' ovunque. Era un uomo malinconico. Fu bastonato dal maccartismo per le sue idee politiche. Ci scambiammo perfino delle fedi come pegno di un amore irrealizzato. Alla fine trovò la sua pace sposando Melina Mercouri. Comunque, qualunque cosa avrebbe potuto diventare non sarebbe mai stata come la storia con Strehler".

Nel senso?
"Giorgio fu letteralmente un'altra cosa. Da lui aspettavo una bambina che persi nella gravidanza. Il nostro legame si rafforzò. Al di là delle incomprensioni, burrasche, litigi, che pure ci furono. Credo che nessuno mi abbia arricchito spiritualmente e umanamente come ha fatto lui. Mi sorprendo ancora quando penso al modo in cui sapeva farmi crescere, anche nella sofferenza che pure era capace di infliggermi".

Cosa prova davanti alla scomparsa di una persona che ha così amato?
"Giorgio se ne è andato una notte di Natale. È curioso che nel grande evento della nascita lui ci abbandonasse. Non c'era tristezza in lui, ma la convinzione che la sola cosa che può salvarci è il teatro. Era la sua fede".

E lei come definirebbe la sua fede, o la sua mancanza di fede?
"Ogni mattina mi sveglio sorprendendomi di essere ancora viva. Non so se Dio esiste o non esiste. È un mistero di fronte al quale preferisco restare in silenzio. Un attore deve prendere il divino dal fondo di se stesso. Se lo ha, si lasci pure possedere".

Cosa è stato il suo essere attrice?
"Tutto. Ma non ritengo di essere stata un'attrice ambiziosa. Ho sbagliato tante volte, ma sono felice di aver commesso i miei sbagli. Non sarei qui, altrimenti, a parlarne. Gli errori sono come i versi mai letti di una poesia".

Mi viene in mente un suo recital su un testo di Alda Merini.
"Recitai la sua Madonna bambina di Magnificat: una donna sola contro il mondo, immersa nella bufera a difendere il figlio che le viene tolto e ucciso e con fede incrollabile ne attende la resurrezione. Solo le donne sono capaci di questi gesti".

Ha conosciuto la Merini?
"Sì, negli ultimi anni. Alda era innamorata della vita. Di fronte all'amore non capiva più niente. Mi manca la sua ricchezza interiore. Si è lasciata spremere. Non dava importanza alle cose materiali. Mi disse che il suo appartamento era freddo e umido. Le regalai un termosifone elettrico che a sua volta donò a un altro bisognoso. Quando seppe che sarei andata a trovarla in clinica, chiamò il parrucchiere e un violinista. La trovai adagiata sul letto. Il violinista attaccò una romanza. Sembrava una bambina. Morì pochi giorni dopo. E pensai che tutti noi prima o poi torniamo all'infanzia ".


domenica 15 giugno 2014

Ritratto di Arnaldo Pomodoro

Il 4 maggio su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
ad Arnaldo Pomodoro 
 

Pomodoro: "Amavo mio padre ma l'avrei ucciso, spariva cercando avventure"
 di ANTONIO GNOLI
La forma è tutto. Le mani sono tutto. Guardo quelle di Arnaldo Pomodoro. Grandi. Solide. In un certo senso misteriose. Le incrocia come ali di un angelo caduto. Penso che tutta la vita di questo artista sia stata all'insegna di un doppio movimento: la felicità esibita e l'infelicità nascosta. Il pubblico e il privato. L'esterno e l'interno.
Polarità che in uno scultore come lui hanno agito, scavato, combattuto. Guerra di confine, verrebbe da dire. Lo ascolto mentre parla tra le sonorità museali della sua Fondazione. Voce suadente. Innocentemente perduta dietro ricordi che non ricordano e che sono qui a dire di lui e a non dire. Ambiguità umana? Forse. Pomodoro trascina la memoria come Madre Coraggio la sua carretta.
C'è fatica, attrito, sofferenza trattenuta dietro i modi gentili con cui porge al visitatore la sua versione di vita: "Ho quasi 88 anni e la sensazione di averli vissuti in una perenne oscillazione tra la ricerca di un mondo impossibile, quello artistico, e il mondo reale consegnato alla durezza e alla delusione. Qualche volta i due mondi hanno combaciato. Creando l'effetto ottico di un'armonia voluta, sperata, ma al tempo stesso insidiata".
Da cosa?
"Dall'idea che niente può durare a lungo. Sorvolo sugli effetti fisici di un'affermazione del genere. Ma quelli psicologici pongono di fronte a un'idea che insieme mi affascina e mi fa orrore: il limite. Un artista non può fare a meno del limite e della possibilità interiore di trasgredirlo. È sempre stato così per me. Fin dai primi sogni da ragazzo".
Come si ricorda?
"Ero timido, introverso, spaventato all'idea che quanto segretamente desideravo potesse essere ostacolato dalla famiglia".
Oppressiva?
"Non in quel senso. Votata alle scelte concrete. Il nonno paterno era un medico veterinario e farmacista. Inventò una medicina per la cura di una malattia che faceva morire le mucche. Possedevamo della terra che dava da mangiare a tutti e permise a mio padre di non fare mai nulla".
Nel senso?
"Era un uomo ozioso. Detestava ogni forma di lavoro. Lo zio, presidente di corte di cassazione a Roma, parlava di lui con disgusto. Si chiedeva come era stato possibile che un soggetto del genere fosse scaturito dalla famiglia Pomodoro".
La pecora nera.
"Più che nera, folle. L'amavo, ma l'avrei ucciso. C'era da vergognarsi ad essere suoi figli. Un fannullone che quando poteva spariva per settimane. Mollava la famiglia. Gli piaceva la vita facile e avventurosa. Quando conquistammo la Somalia si lasciò inghiottire da quelle terre. Non lo vedemmo più per due anni".
Non ne parla con risentimento.
"Era un sognatore. Il suo lato migliore. Nonostante non avemmo mai un buon rapporto, quando capì i miei tormenti, legati a cosa avrei dovuto fare della mia vita, mi disse con grande semplicità: non fare in modo che distruggano i tuoi sogni".
E cosa sognava?
"Sognavo in continuazione i castelli di sabbia. Quella bellezza effimera e infantile che talvolta costruivo sulla spiaggia adriatica. Qualche tempo dopo quella pulsione si sarebbe trasferita nell'argilla".
Accennava alla concretezza familiare.
"Finite le medie avrei voluto iscrivermi al liceo artistico. Mia madre e mio nonno pretesero una scuola che desse reali sbocchi professionali. Fu così che alla fine mi ritrovai con il diploma di geometra. Studiai a Rimini, durante la guerra".
Dove era nato?
"A Morciano di Romagna, di lì veniva mia madre. L'ultimo anno di guerra, l'inverno del 1944, fu durissimo. C'eravamo trasferiti a Pesaro. Il solo passatempo erano le lunghe passeggiate lungo il mare alla ricerca degli ossi di seppia, che in seguito sarebbero diventati importanti nel mio lavoro di scultore".
Quando decise di diventare scultore?
"In pratica dopo il mio incontro con Lucio Fontana. Nel frattempo, era l'autunno del 1953, c'eravamo trasferiti a Milano. Lavoravo per il genio civile. Ma già nel tempo libero creavo monili, decorazioni. Fontana ci vide del talento. Mi sentii gratificato da quest'uomo gentile, dalla sua dedizione ai giovani e da un'arte che non aveva eguali. Compresi pienamente l'importanza del suo lavoro quando andai in America, nel 1959".
Cosa la portò lì?
"Una borsa di studio. Restai tre mesi. Si aprì un mondo che non immaginavo. Poi, nel 1962, firmai il mio contratto con la Marlborough Gallery che determinò la mia ascesa negli Stati Uniti".
Che ambiente trovò?
"Straordinario. Feci subito amicizia con Louise Nevelson. Grazie a lei conobbi i grandi che allora si affermavano: non Jackson Pollock che era già morto; ma Robert Rauschenberg, un uomo molto alla mano, Jasper Jones, un essere chiuso e solitario; Franz Kline, il più anticonformista. Per tutti loro la fine della guerra fu un'esplosione di creatività".
Come guardavano agli artisti italiani?
"Passavamo dall'essere degli sconosciuti a un momento di interesse. Grazie ad Afro, che era stato in America fin dagli inizi degli anni Cinquanta, l'arte italiana cominciò a suscitare curiosità. E poi ci fu il fenomeno Burri: prigioniero di guerra in Texas, cominciò a realizzare i suoi celebri "sacchi". Nel 1953, con le mostre a Chicago e a New York, Alberto rivelò al mondo americano tutto il suo talento".
Quando lo ha conosciuto?
"La prima volta che lo incontrai fu a San Francisco. Dove insegnavo. Vidi, a un piccolo ricevimento, quest'uomo severo e dolce al tempo stesso. Era il 1966. C'era la contestazione di Berkeley. Non si parlava d'altro. Girava una quantità di marijuana pazzesca. A un certo punto la conversazione si soffermò su un protagonista di quel momento".
Chi?
"Timothy Leary, che stava avendo un'influenza incredibile su tutto il movimento giovanile. La sua predicazione dionisiaca girava tutta intorno a una sostanza allucinogena, allora sconosciuta: Lsd. Fu il primo, in assoluto, a unire spettacolo, politica e rivoluzione. Viaggiava nel suo autobus psichedelico e si atteggiava a Cristo tra i discepoli".
Aveva molta presa.
"Sì, era abilissimo, dotato di un gusto snob e istrionico. Tratti che in un certo senso ho ritrovato in Andy Warhol, la cui rivoluzione artistica fu ben più profonda e duratura".
Si riferisce alla Pop Art?
"E a quello che generò. È stato un fenomeno che non sarebbe mai nato senza Duchamp. Per tutto il movimento figura più importante di Picasso".
Le piace Picasso come scultore?
"Grande. Ma preferisco Brancusi. Per il tipo di lavoro che svolgo senza Brancusi non sarei mai nato. Con lui la forma viene progressivamente distrutta, ma si legge ancora. È un miracolo di equilibrio tra il vedere e la cecità. La stessa emozione "distruttiva" me la provocò Pollock".
Cosa vuol dire "distruggere la forma"?
"Sottoporla al movimento, all'attrito del tempo. Sono convinto che nella relazione segreta tra la forma e chi la compie si riveli il perché sia stata realizzata in quel modo ".
Si chiama necessità?
"Il grande artista è colui che segretamente conosce tutto questo. Penso a Paul Klee".
Perché Klee?
"Gli devo la scoperta dell'interiorità, del profondo che c'è in ciascuno di noi. Era un genio assoluto. Con quattro semplici segni esplorava il mondo".
Vengono in mente le sue Sfere.
"Ho sempre pensato che la sfera ha una sua energia misteriosa. La sua presenza crea un altro spazio. O meglio trasforma quello esistente ".
Un'energia che arriva da dove?
"Dal suo interno. La perfezione di una sfera non sta nella sua chiusura inviolabile, ma nell'immaginarla aperta. Dovevo realizzarla come un tutto tormentato e corroso. Dunque aperta, sino al punto che il suo interno dialogasse o ferisse la superficie esterna".
Sembra Fontana.
"Anche a lui devo molto".
L'oggetto d'arte non riposa sulla quiete?
"No, sarebbe la sua morte. La forma è movimento. Lo capì perfettamente Boccioni, il primo grande artista della scultura novecentesca".
È curioso che un artista come lei, così dedito al movimento, abbia poi dato vita a una Fondazione.
"Che c'è di strano?".
Le fondazioni di solito celebrano l'artista scomparso. In vita rischiano di imbalsamare il suo lavoro. Come si fa a fondare l'infondabile, cioè l'arte?
"È un bel problema, capisco. Ma non ho figli e ho sempre nutrito l'ambizione di creare qualcosa di stabile attorno al mio lavoro. Mi rappresenta e ciò mi basta".
La ritiene una forma di potere?
"Ho i miei dubbi che un artista sia un uomo di potere. Anche se con esso deve scendere a patti: gli ordini, un tempo si chiamavano committenze, arrivano dalle istituzioni pubbliche, dalle grandi aziende, raramente da singoli individui".
Come giudica l'attuale arte contemporanea?
"È fatta per lo più di pura apparenza. Interessa persone che amano l'originalità, ma non la profondità della forma. Sono vecchio. Mi interessa toccare la materia".
Cosa intende per profondità della forma?
"Che il messaggio spesso cambia, ma la forma resta".
Le piace l'arte di suo fratello, Giò Pomodoro, anche lui scultore?
"Venivamo da sensibilità differenti. Esperienze, in parte almeno, diverse".
Come sono stati i vostri rapporti?
"Non sempre facili. Però alla fine il legame con lui si è chiuso benissimo. Prima di morire mi disse: ho ritrovato un fratello".
Vi eravate persi?
"La vita a volte divide e genera fraintendimenti e dolori. Ma occorre rispetto verso chi non c'è più".
Cos'è che vi ha più allontanati?
"Forse la politica. Ed è strano provenendo dalle stesse idee. Solo che le sue erano il frutto di una fedeltà al comunismo. Un'ortodossia che non ho mai condiviso".
Si sente libero?
"Libero di amare e di ferirmi".
È strano, ma tutto il suo lavoro, da un certo punto di vista, sembra una richiesta di aiuto: capire meglio cosa si agita nel suo mondo interiore.
"Forse è vero. Nel mio lavoro metto anche le mie contraddizioni".
Un modo di risolverle?
"Di renderle pubbliche. Faccio un po' fatica a parlare di questo argomento. Ogni tanto mi capita di avere un rigetto dell'opera che realizzo. Ci sono dei giorni storti in cui vedo solo i difetti di un lavoro compiuto".
La crisi di un artista è anche crescita.
"Sono spesso in crisi. La sento montare da dentro. Me ne accorgo perché mentre realizzo una cosa, percepisco che potrei farla in mille altri modi diversi. Questa è insieme la forza e la fragilità di un artista".
Forza e fragilità non sono quasi mai in equilibrio.
"Per questo alcuni ricorrono alla psicoanalisi".
Lei ha mai fatto analisi?
"La prima volta che mi ci hanno mandato capii che ero io a psicoanalizzare lui e non viceversa".
Quando è accaduto?
"Tantissimo tempo fa. Ero un ragazzo che non capiva più bene cosa stesse facendo. Ero il frutto di una fantasia".
Un'energia che non trovava forma?
"Le idee che non si realizzano sono quelle che alla lunga uccidono".
E cosa sono queste sue idee?
"Qualcosa che cresce in me, che vedo solo io e che non posso spiegare. È un processo faticosissimo. A volte mi dicono: beato te che fai questo mestiere. Ma davvero si può pensare che le idee nascano spontaneamente? Il mio lavoro è il frutto di mille complicazioni. È il vero e il sogno".
Qual è la distinzione?
"Un artista rinuncia a tracciare un confine".
Lei sogna?
"Dormo in un'agitazione permanente. E questo secondo me significa che sogno molto. Ma alla fine non ricordo nulla. Tranne un sogno che ricorre".
Quale?
"Io bambino che gioco nello slargo di una piazzetta medievale con altri della mia età. Rincorriamo una sfera. Soccombo. E poi vedo la sfera precipitare giù per le scale e vengo preso dall'angoscia terribile che si rompa. So che è la mia prima sfera che realizzai per il tetto del padiglione di Montreal nell'Expo del 1967. E quella sfera invece di rompersi finisce nell'acqua e galleggia".
Che lettura ne dà?
"Ci vedo una specie di nascita. Quella sfera è una cosa mia, ma come se non l'avessi partorita io. Penso che somigli al destino dell'artista: quello che fa gli può appartenere solo attraverso gli altri".



Nota :

 Per iniziativa di Arturo Carlo Quintavalle, Arnaldo Pomodoro ha donato nel 1990/1991  al CSAC dell'Università di Parma una settantina (tra sculture e disegni) di opere dal 1956 al 1960, che furono presentate in una esposizione al Palazzo della Pilotta e successivamente collocate nell'Aula Magna e in altri spazi dell'Università. 

  •  http://fondazionearnaldopomodoro.it/artists/pomodoro
  •  http://www.archimagazine.com/rparmiggiani.htm
  •  http://it.wikipedia.org/wiki/Arnaldo_Pomodoro


sabato 24 maggio 2014

Ritratto di Giulio Questi

Il 27 aprile su la Repubblica un grande ritratto di Riccardo Mannelli
e l'intervista di Antonio Gnoli
a Giulio Questi



Giulio Questi: "Tra la Resistenza e i film western, la mia vita è un'eterna incompiuta"

Dai racconti di una guerra partigiana senza miti agli incontri con Vittorini e Fenoglio, Visconti e Rosi. Le tante avventure di uno scrittore, attore e regista

di ANTONIO GNOLI 

 Un'intera giovinezza si lasciò spazzare via nei due anni terribili della Resistenza. È così che immagino l'esperienza del partigiano Giulio Questi: "La mia memoria mi inquieta perché non è dolce né arrendevole. Mi stordisce come un pugno violento. E non posso farci niente", dice di sé e dei suoi ricordi. Questi ha scritto tra i più bei racconti che abbia letto sulla Resistenza. Poi, nella vita, ha fatto altro: documentari, film. Forse a un certo punto, negli anni in cui visse a Cartagena, ha perfino sognato di essere Gabo: "C'era Macondo. Tutti inseguivano Macondo meno Gabo. L'America Latina è grande e io ero piccolo e indaffarato. Mi chiamavano il vagabondo dei Caraibi".

È ancora bello. La barba bianca, l'occhio salivoso ma vispo lo restituiscono come un Ulisse, la cui lunga astuzia lo ha portato a superare in marzo la soglia dei novant'anni. "Ora scricchiola il mio tempo", dice. "Anche perché non ci sono più inesorabili profondità da raggiungere. Saggezze da esibire. Sono stato audace e sconsiderato. Mi guardo intorno, qui nella mia camera tra le cose che ho raccolto, e sento che tutta la vita che ho percorso la rifarei interamente. Cazzate comprese. Posso offrirle un whisky?". Mentre parla accarezza un grande bicchiere: "C'è dentro un terzo di irlandese, il resto è ghiaccio e acqua. Un beverone che mi tira via la tristezza. E non ubriaca. Imparai a berlo da Orson Welles".

Lo ha conosciuto?
"Lo vidi in due occasioni. Una a Taormina. La prima volta a Madrid. In un bar. Era seduto al bancone e sorseggiava il suo beverone. Lo riconobbi. Imponente. Solitario. Non gli chiesi niente. E lui non disse nulla. Gli sedetti accanto. Studiai le sue mosse. Ascoltavo il gorgoglio del whisky scendere nell'enorme cavità della sua gola. Uno spettacolo di primitiva grandezza".

E lei che ci faceva a Madrid?
"Aspettavo l'arrivo del produttore per il mio film. Un western. Non c'erano soldi. Solo promesse e cambiali. Erano gli anni Sessanta. Ma potevano benissimo essere i Quaranta, i Trenta e giù giù fino alla mia data di nascita. Sempre lo stesso assillo di denaro".

Famiglia povera?
"Normale. Venivo da una grande famiglia contadina che dai campi del bergamasco si evolse verso la città. Mia nonna aveva generato 19 figli. Gliene restarono 10. Negli ultimi tempi era sempre a letto. La pelle era del colore blu: i capelli, il volto, le mani. Una gonfia nuvola di carne blu deposta sul letto. Il cuore, sfiancato dalle gravidanze, le aveva provocato quella tinta di morte".

Che effetto le faceva?
"Ero incuriosito. Dal suo corpo e dalla sua vita. Quando nacqui i nonni rilevarono un forno. La mia culla fu una cesta di pane. Dormivamo al piano superiore: una scala dal forno portava a un lungo corridoio. Ricordo i topi, i gatti e i sacchi di farina. Crebbi bene. Mio padre tecnico della Westinghouse mi fece fare un buon liceo classico a Bergamo. La città era stantia. Divorata dal perbenismo e dalla Chiesa. Ero insofferente alla divisa fascista e alle preghiere del parroco. Poi giunse il 25 luglio".

La caduta del fascismo.
"Sì e in seguito ci fu il ricostituirsi dell'esercito repubblichino. Dovevo scegliere da che parte stare".

E scelse?
"A 19 anni non avevo le idee chiare. Decisi per le montagne vicino a casa. Nella Valtellina. La fame fu il primo problema. Un gruppo armato di noi scese in paese e svaligiò una banca. Comprammo cibo. Ci sentivamo euforici. Poi rapinammo un industriale milanese. Lo minacciammo di dirci dov'era la cassaforte. Ma non c'era. Alla fine arraffammo quello che vedevamo".

Non dovevate combattere i tedeschi e i fascisti?
"Certo. Ma avevamo bisogno di vettovaglie, di armi. Poi, durante una spedizione, la mia brigata si trovò circondata in un bosco. Solo io e altri due riuscimmo a rompere l'accerchiamento. I fascisti uccisero o catturarono i compagni. A quel punto restai solo. Decisi di entrare nella banda di Angelo Del Bello. Anche lì finì male".

Che accadde?
"Nel frattempo la Resistenza si era organizzata con strutture politiche e militari. Partì l'ordine che non si sarebbero tollerati atti di indisciplina o di violenza gratuita. Del Bello rifiutò di obbedire. Il comando decise l'eliminazione della banda. Lo sorpresero in una piccola frazione con tre uomini. Vennero fucilati sul posto".

E lei dov'era?
"Con il resto della banda in un paese non lontano. Ci trovarono. Qualcuno non si arrese e cadde nel conflitto a fuoco. Gli altri, me compreso, furono fermati. Decisi di entrare nella nuova brigata. Peccato che il comandante era un cattolico fanatico. In quanto antifascista e ufficiale dell'esercito, il comando gli aveva assegnato la guida di una brigata. Ma era inadatto. Mandò molti di noi al macello. Dopo una missione decisi di non rientrare".

E andò dove?
"Mi nascosi. Il comandante mi condannò alla fucilazione per diserzione. Cominciò la caccia. Passai due mesi orribili. Braccato nei boschi. Non riuscirono a prendermi. Alla fine incontrai il mitico comandante Mino. Gli raccontai la mia storia e mi accolse nelle sue file. Venni a sapere che era la Brigata Camozzi legata a Giustizia e Libertà. Mino aveva messo su una squadra autonoma: i Cacciatori delle Alpi. Fu un momento esaltante".

Lei dà della Resistenza una versione molto dura, fuori dal mito.
"La Resistenza non è stata solo Bella ciao e gli uomini non furono solo degli eroi. Accaddero cose straordinarie. Di sacrificio estremo. Ma io ho voluto raccontare il mondo che sta sotto più che quello che sta sopra".

Poi arrivò la Liberazione. Cosa fece?
"Furono giorni memorabili. Ma subito dopo ci sentimmo spersi. Eravamo stati la legge. E poi più niente. Ci tolsero le armi. La grande allegria di libertà si spense a poco a poco. Lo Stato si riorganizzò nel nome della continuità. Tornarono i vecchi prefetti. Per cosa avevamo combattuto?"

Si sentiva uno sconfitto?
"Mi sentivo come uno che doveva ricominciare da capo. Vissi per qualche mese di espedienti. Terminai gli esami all'università. Diedi la tesi di laurea su Dino Campana. Ebbi come correlatore il filosofo Antonio Banfi. Tornai a Bergamo e insieme ad altri fondammo una rivista: La cittadella. I miei articoli furono notati da Elio Vittorini. Mi offrì di scrivere per il Politecnico. E mi propose un libro di racconti da pubblicare nella sua nuova collana: I Gettoni".

La fortuna stava girando?
"Avevo realizzato alcuni documentari tra cui uno che andò al Festival di Venezia. Pensai che il cinema potesse essere la mia strada. Tanto è vero che mollai il libro e informai Vittorini".

Come reagì?
"Malissimo. Si sentì tradito. Disse che il cinema era fatto di stronzate e che mi sarei pentito. Fu una predica insieme patetica e violenta".

Ma nel cinema come pensava di affermarsi?
"Avevo una lettera di presentazione per Luchino Visconti. Mi accolse con molto garbo. Disse che avrebbe girato un nuovo film. Aveva visto un mio documentario su Acitrezza e gli era piaciuto. Promise che mi avrebbe chiamato".

E invece?
"Il film La carrozza d'oro alla fine fu realizzato da Jean Renoir. Mi ritrovai a Roma senza una seria prospettiva professionale. Fu grazie a Ettore Giannini che divenni aiuto regista in Carosello napoletano, era il 1953. In seguito ho lavorato, sempre come aiuto, con Valerio Zurlini e Francesco Rosi. Con quest'ultimo feci La sfida e gli preparai le ambientazioni in Germania per I magliari . Tornai da Amburgo con una broncopolmonite. E divenni attore per caso".

Per caso?
"Sì, durante le riprese della Dolce vita Antonioni mi presentò a Fellini. Si appassionò alla mia storia e volle darmi una parte nel suo film. Lo stesso, in seguito, accadde con Pietro Germi e il suo Signori e signore. Non amavo recitare. Non sopportavo la noia. Intere giornate ad attendere per un ciack. Meglio stare dietro la macchina da presa".

Lei ha fatto in tutto tre film.
"Il primo fu un western oggi considerato un cult: Se sei vivo spara , vi rifusi in una specie di delirio barocco la mia esperienza di partigiano durante la Resistenza".

Perché non ha mai girato un film vero sulla Resistenza?
"Il produttore Franco Cristaldi me lo propose. Mi chiese se avevo letto Fenoglio. Conoscevo Primavera di bellezza, da cui qualche anno dopo sarebbe scaturito Il partigiano Johnny . Mi disse: so che stai scrivendo sulla Resistenza. Perché non vai a capire se possiamo ricavarci un film?".

E lei andò?
"Arrivai ad Alba. Ci incontrammo in trattoria. Avevamo storie molto simili alle spalle. Simpatizzammo. Disse che stava lavorando a un racconto: Una questione privata . Sulla tovaglia di carta buttammo giù una scaletta. Poi si fece tardi. Mi disse che doveva rientrare. Ci ripromettemmo di restare in contatto".

Che anno era?
"Era il 1960. Ci scambiammo alcune lettere. Poi non ebbi risposta. Passò qualche mese. Provai a cercarlo. Qualcuno della famiglia mi disse che si era ammalato. Morì di cancro nel febbraio del 1963. La notizia mi fece male. Quella notte compresi che se ero scrittore in parte almeno lo dovevo a lui".

Perché?
"Per la sua grandezza, per la forza che esprimeva e perché quello che poteva essere solo un fantasma  -  la sua esperienza partigiana  -  divenne una cosa viva, palpitante e anticonformista".

Mentre la sua di grandezza? È come se la sua vita sia un insieme di bellissimi capitoli incompiuti
"Forse la mia grandezza è nel non essere mai stato grande".

Per questo a un certo punto mollò tutto e si rifugiò in Sud America?
"Quella stagione durò un decennio. E tutto nacque in modo curioso. Volli raggiungere la compagna che amavo: un'insabbiata".

Una cosa?
"Un'insabbiata. Aveva lavorato come costumista per Queimada . Pontecorvo girò quasi tutto il film a Cartagena e, finite le riprese, lei decise di restare laggiù. La raggiunsi per amore. Ma la verità è che Carlo Ponti mi aveva cacciato. Ruppe il contratto che mi legava a lui, mi diede dei soldi con i quali, insieme a un socio, aprii uno studio a New York. Volevamo realizzare film a basso costo. Combinai ben poco. Facevo su e giù con i Caraibi. Vennero i giorni logori. Fu allora che decisi di passare un periodo tra gli indiani della Sierra Nevada, nel Nord della Colombia, sulla punta estrema delle Ande".

E che esperienza fu?
"Oserei definirla mistica. Gli indiani di quella popolazione sono convinti di essere i regolatori dell'universo. Quelli che donano al mondo l'armonia".

E Cartagena? Glielo chiedo perché il suo ultimo racconto ha come protagonista Gabo.
"Lo vidi diverse volte. Passammo alcuni giorni assieme alle isole del Rosario. Era un uomo fantastico: una testa piena di ciocche di capelli e un naso ribelle. Occhi meravigliosi. Due supervisori. Ci aveva condannati al carcere di Macondo. Tutti allora pensammo che Macondo fosse la libertà. Il luogo dove avremmo smaltito le nostre angosce. Ma non era vero. Esisteva solo nella sua fantasia. Fu il suo colpo di genio. Ma a noi restò solo il caos".




la sequenza