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sabato 24 aprile 2021

Milva, Bella Ciao

 

L'avevo invitata qualche anno fa a partecipare alla manifestazione sindacale "sapere per contare" sul diritto allo studio permanente.

Insieme all'amico Vittorio Forelli, alla facoltà di scienze politiche.

Aveva accettato con entusiasmo e si era unita a noi nella giornata, con una semplicità disarmante. Ho un bel ricordo di lei.

Tiziano Riverso




A Milva

canti ed è un dono, un dono di te, come dev’essere

ti spogli di tutto, per arrivare al cuore, offerto a fior di labbra

non il corpo, non il sangue, in questa eucaristia: il cuore

nudo, cerca il tuo a occhi chiusi, per un piccolo bacio

un piccolo, indelebile, segno rosso

Fabio Magnasciutti

Alla mia maniera, ricordando una grande interprete....

#Milva

Pierpaolo Perazzolli


Il 17 luglio 1939 (età 81 anni) è nata a Goro in provincia di Ferrara , Milva, pseudonimo di Maria Ilva Biolcati, cantante e attrice teatrale italiana. Popolare in Italia e all'estero, ha trionfato sui palcoscenici di gran parte del globo, ottenendo particolari consensi, oltre che in Italia, soprattutto in Germania.
Carrera Arcangelo



La falce nera è calata ieri su Milva, indimenticabile voce di tante ballate… Così la ricorda Carlodicamillo Cadica, in arte Cadica. Ca DiCa #milva #bellaciao #brecht #ballatadimackiemesser #satira #vignette

Interpretare è amare.
Milva
Umberto Rigotti

Certi disegni li devi fare arrabbiati.
Milva 🖤
Marianna Balducci



Ilaria Guidantoni:

Addio Milva 

“Oggi ci ha lasciato Milva, uno strappo doloroso per il Piccolo Teatro di Milano e per la sua memoria. La sua voce indimenticabile, inconfondibile, luminosa e incisiva come il soprannome che indossava con eleganza, ha tracciato un capitolo importante della storia della musica e del teatro italiano, colorandolo del rosso della sua chioma e della sua incandescente personalità”.

Claudio Longhi

Il nome di Milva, per il Piccolo, è strettamente intrecciato a quello di altri due giganti: Giorgio Strehler e Bertolt Brecht. Milva, tra gli anni Sessanta e Settanta, è in scena accanto a Strehler tre volte, nelle successive edizioni di Io, Bertolt Brecht (1966/67; 1974/75; 1979/80).

Ma è soprattutto nella seconda, straordinaria edizione de L’opera da tre soldi del 1973 che fa apprezzare a pieno il suo talento di cantante e attrice, accanto a Domenico Modugno, Giulia Lazzarini, Giancarlo Dettori, Adriana Innocenti, Gianni Agus.

I songs brechtiani si dimostrano particolarmente adatti al suo timbro vocale e alla sua forte personalità di donna e di artista: sempre sotto la guida di Strehler, in Italia e all’estero, per tutti gli anni Ottanta, sono numerose le occasioni in cui ha modo di dare prova del proprio talento, fino ad essere unanimemente riconosciuta l’interprete italiana per eccellenza di questo autore. 

Nella stagione 1995/96, in occasione del Festival Brecht del Piccolo Teatro, Strehler crea insieme a Milva un nuovo recital brechtiano, Milva canta un nuovo Brecht: non sempre splende la luna, privilegiando le poesie e le canzoni più delicate, intimiste, sofferte e riflessive dell’autore: entrambi le reputano più consone al periodo storico che si trovano a vivere e alla propria mutata dimensione interiore.

Milva prosegue la propria relazione con il Piccolo condividendo con il Teatro due sue altre grandi passioni, tanto diverse, quanto esemplificative della sua umanità, della sua cultura e della sua curiosità verso il mondo: Astor Piazzolla, di cui, sotto la guida di Filippo Crivelli, porta in scena un memorabile recital nel 1996/97, ripreso con successo anche successivamente, e Alda Merini, alla quale dedica Milva canta Merini nella stagione 2004/05, diretta da Stefano de Luca e accompagnata al pianoforte da Giovanni Nuti. Nella stagione 2005/06 torna a interpretare Brecht, questa volta con Cristina Pezzoli a dirigerla nel nuovo appuntamento con l’autore di riferimento.

La camera ardente sarà allestita nel foyer del Piccolo Teatro Strehler, martedì 27 aprile, dalle ore 9.30 alle ore 13.30.

I funerali seguiranno in forma strettamente privata.

Milano, 24 aprile 2021

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venerdì 31 luglio 2020

Compie 100 anni Franca Valeri

Auguri per i primi 100 anni
© GIO / Mariagrazia Quaranta



Nasce a Milano Franca Norsa, in arte Franca Valeri, in omaggio al poeta francese Paul Valéry. Attrice, sceneggiatrice, autrice e regista, è negli anni Cinquanta, dai microfoni della radio, “la signorina snob”. Caustica osservatrice del mondo, regala al pubblico una variegata galleria di ritratti di donne contemporanee. Dalla Cesira, manicure milanese vagamente razzista e permalosa, condannata a perenni fallimenti sentimentali, alla Sora Cecioni, romana sempre al telefono con mammà.


TANTISSIMI AUGURI FRANCA! 💝💖💛💙



Non è bella ma...
Marianna Balducci


31/7/1920: di Franca Valeri ne nasce una ogni 99 anni.
Piero Tonin



Tanti auguri a Franca Valeri, pseudonimo di Franca Maria Norsa, attrice e sceneggiatrice italiana, di teatro e di cinema, nota per la sua lunga carriera di interprete caratterista in campo sia cinematografico sia teatrale. Grande appassionata di opera lirica, si è dedicata spesso alla regia operistica.
Oggi compie 100 anni, è nata a Milano il 31 luglio 1920.
Carrera Arcangelo


Auguri a Franca Valeri !
Pierpaolo Perazzolli


©Riccardo Mannelli





Franca Valeri: "Nel ricordo la mente si rigenera e ci dimostra che siamo vivi"
Attrice, sceneggiatrice e scrittrice, ha firmato anche la regia di alcune opere liriche: "La nostalgia è una sorella che a una vecchia cocciuta come me fa da badante. Adesso mi piace molto ricordare. Sto lavorando a un nuovo libro. Vorrei intitolarlo 'Il secolo della noia'. Ogni tanto mi chiedo se risorgeremo da tutto questo tedio. Non ho una risposta, ma ci sto seriamente pensando"

I gatti sono stati la sua vita. Come lo furono Vittorio Caprioli e Maurizio Rinaldi. Ma non sarebbe giusto tralasciare la cosa più importante che Franca Valeri ha avuto in sorte: il teatro. Potrà sembrarvi una frase enfatica. Ma cosa c'è di enfatico in un amore dichiarato con intelligenza e sommessa ironia? Riproposto ora in un piccolo libro per Einaudi - La stanza dei gatti - dove il teatro è rappresentato come un vecchio signore, magari un po' stanco ma al tempo stesso intramontabile. Guardo questa donna ormai fragile, percepisco la fatica che accompagna le parole e i pensieri lucidi strappati a una infermità che indossa con tranquillità; penso alle luci del palcoscenico che hanno illuminato la sua lunga vita. La piccola casa in cui vive è accogliente: i gatti sono nella loro stanza; il cane Aroldo - un nome, dice, di ascendenze verdiane - ronfa tranquillamente sul divano: " è un Cavalier King Charles, sa quei cani immancabili nei quadri di corte? Ne ho cinque, gli altri quattro a Trevignano in campagna, e poi ci sono cani di altre razze, li salvo e li accudisco. Fanno parte della mia vita che è stata lunga e, devo riconoscere, fortunata".

Quanto fortunata?
"Parecchio, sospetto. Lo sono stata per tutte quelle occasioni che si sono presentate senza che le determinassi. Poi, oltre alla fortuna, c'è il talento senza il quale in un mestiere come il mio non si va da nessuna parte".

Il talento ha una definizione?
" Possiamo sostituirlo con bravura, creatività, istinto e, nei casi più rari, genialità. Ma alla fine è una condizione inconoscibile. Come la grazia che si va a posare dove vuole".

E lei come ha scoperto di averlo?
"Non l'ho scoperto, nel senso che non è una condizione a parte o che si aggiunge alla psiche. Recitando avvertivo l'estrema naturalezza con cui la voce accompagnava il corpo e la gestualità di quest'ultimo. Sentire tutto questo equivale all'ascolto del suono delle campane la domenica mattina".

Come fosse un richiamo religioso?
"Più che religioso parlerei di sacro. Sono convinta che l'origine del teatro si collochi in quell'indefinibile momento. Senza sacralità non si capirebbero i riti che vestono il teatro e la crudeltà che lo segna. Non era Antonin Artaud che parlava di teatro della crudeltà?".

È a quello che si riferisce?
"Intendo crudeltà non come sadismo ma necessità: se sei posseduto da quel demone non puoi fare altro che sottometterti alla sua forza. Sono convinta che il teatro sia il modo più importante che sia stato offerto a chi crede di avere qualcosa da dire".

Più importante della letteratura?
"Altrettanto importante, ma certamente collocabile prima della letteratura".

Lei recita ancora?
"Non più. Sono caduta, qui in casa, il 21 ottobre dello scorso anno. Rottura di cinque costole e una riabilitazione lenta e parziale. Devo stare ferma. Non mi lamento. Se c'è una cosa che mi dà enormemente fastidio è il piagnisteo dei vecchi. Lasciamo le lacrime ai giovani. Loro hanno diritto di piangere con quello che gli sta capitando. Noi no".

Non trova che ci sia un eccesso di retorica sui giovani?
"Forse, ma dopotutto se non hanno un futuro, la domanda è: chi glielo ha rubato? Mi piacciono i giovani, mi circondo delle loro  attenzioni. Racconto loro cose che non sanno, che neppure immaginano siano mai esistite. Mi sento una specie di portabandiera del passato".

Com'era da giovane?
"Spiritosa. Ma lo ero anche da bambina. Già allora pensavo di voler recitare. Cioè, volevo rendere il mio pensiero qualcosa di esprimibile agli altri. Non ho mai avuto dubbi su questa vocazione. Ma è stato difficile darle una voce e un corpo".

Perché?
" Sono nata alla fine della Prima guerra mondiale. Esattamente nel 1920. Poi arrivò il fascismo che scambiò la vita delle persone per un teatro permanente e mediocre. Dovetti attendere il dopoguerra. E fu davvero un bel periodo: un'epoca certo dura ma felice".

I suoi come reagirono a quella voglia di fare teatro?
"Mio padre reagì male. Oltretutto, aggiunse con una certa ironia, non c'erano precedenti in famiglia. Gli feci notare che non era del tutto vero: una lontana cugina, Fanny Norsa, che era vissuta in Inghilterra, aveva calcato il palcoscenico come ballerina. La verità è che a mio padre sembrava impossibile che io avessi le qualità per recitare. Poi ebbe modo di ricredersi".

Quando?
"Una sera venne a teatro a sentirmi. Notò che la gente mi seguiva divertendosi e applaudendo. Il giorno dopo mi disse che aveva riposto molte ambizioni su di me e che dopo avermi visto attrice aveva avuto la certezza che non sarei fallita".

Cosa faceva suo padre?
"Era ingegnere, fu un importante dirigente della Breda. Allontanato dal posto di lavoro per ragioni razziali".

Foste perseguitati?
"Ce la siamo sempre cavata. Alcuni amici fidati aiutarono mio padre, mia madre, mio fratello e me a riparare in Svizzera. Anche in quell'occasione fui fortunata, mi venne risparmiato il dolore atroce delle tante famiglie ebree disperse, distrutte e annientate. Finita la guerra tornammo in Italia".

Cominciò allora la sua carriera?
"Avevo recitato, ma niente di impegnativo. Divenni amica di Vittorio Caprioli che aveva già maturato qualche esperienza teatrale. Era simpatico, brillante, fantasioso. Ci dicemmo che era venuto il momento di trovarci un lavoro e passammo in rassegna gli attori che avrebbero potuto aiutarci. La scelta cadde su Sergio Tofano".

Quello del "Signor Bonaventura"?
"Aveva creato una maschera che divenne popolarissima sul Corriere dei piccoli. Alla fine, dopo parecchi assalti, Vittorio lo convinse a fare compagnia con noi e uno dei primi spettacoli che allestimmo fu proprio Bonaventura. Ricordo che uno dei ruoli che interpretai fu il cane bassotto, il che vista la mia passione per gli animali mi sembrò gravido di conseguenze".

Con Caprioli vi sposaste.
"Il nostro matrimonio durò un po' meno di quindici anni e poi ci siamo separati, andando ciascuno per la propria strada. Lui con le sue storie io con le mie. Senza rancori né complicazioni. Anche perché trovai un nuovo compagno, Maurizio Rinaldi, un musicista che seppe appagare l'altra mia grande passione: l'opera".

Erano molto diversi?
"Direi di sì, ma erano uguali in fatto di tradimenti. Specialisti in adulterio".

Ne ha sofferto?
" Non più di tanto, la gelosia passava rapidamente e poi cosa vuole gli uomini sono dannatamente esibizionisti".

Non ritiene che Caprioli sia stato un grande attore ma sottovalutato?
"Più che sottovalutato incompreso. Aveva una istintiva profondità nell'interpretare certi personaggi, rara in quel mondo. Oltretutto è stato un bravissimo regista di cinema. Ci sono almeno tre suoi film che reputo bellissimi".

Mi viene in mente "Splendori e miserie di Madame Royale".
" Magnifico, una storia di travestitismo tra il grottesco e il dolente senza eguali. Con un Ugo Tognazzi insuperabile nella parte di Madame Royale. Dati i tempi non era semplice affrontare le problematiche di quel mondo".

Era la prima volta credo che in Italia si rappresentavano delle drag queen.
"Il film uscì nel 1970, oltre che regista Vittorio era anche uno degli interpreti di questa stravagante comunità omosessuale: si era dato il nome piuttosto pittoresco di " Bambola di Pechino". Ma il suo film, cult anche per i più giovani, è Parigi o cara dove io interpretavo il ruolo di una svagata prostituta sui cui tratti avrei ricamato il personaggio della Sora Cecioni".

La mitica Cecioni che esordiva al telefono con " Pronto mammà".
" Già, il personaggio fu ispirato da una mia donna di servizio, oggi guai se le chiami così, Renata. Una bella cinquantenne, vedova, prosperosa, con ossigenatura e permanente fatta in casa. Fu lei il mio modello. Ancora oggi la penso con affetto e gratitudine. Ma so che quel mondo non esiste più".

Come definirebbe la comicità?
"Certamente è un istinto. Poi c'è la gioia di divertire il pubblico con qualcosa di tuo. C'è gente che incontro o che mi scrive per ringraziarmi di quel poco o tanto che le ho donato".

Lei ha lavorato tantissimo con Alberto Sordi. Cosa conserva di quel rapporto?
" Se non ricordo male, credo di aver fatto sette film con lui. Mai uno screzio, una insofferenza, una caduta di stile. Certamente fu un comico di straordinario talento. L'ho amato molto meno quando si mise in testa di fare la regia dei propri film. Aveva un tale potere sul pubblico che tutto gli era permesso e perdonato. Ma ho lavorato anche con Totò: davvero unico. La sua comicità si fondeva con i tempi della tradizione del teatro napoletano. In privato era molto diverso, come afflitto da una seriosa malinconia. E poi c'è De Sica che per me è stato un idolo. Oltre che recitare sapeva far recitare e questo non è da tutti".

Ha lavorato anche con Eduardo De Filippo?
" Presi parte a Questi fantasmi, ma a me piaceva soprattutto Peppino ".

Ha mai capito perché litigarono?
" Rivalità, incomprensione, stanchezza. Chi lo sa. Il nostro è un mestiere che può molto innervosire. Comunque, senza togliere l'aura ai due fratelli, ritengo che la più straordinaria dei tre fosse Titina. E loro lo sapevano".

Le accade di rivedere i suoi vecchi film?
"Non ho molto piacere a rivederli. Poi, se qualcuno insiste, capita che torni sui luoghi del delitto e finisce che mi ci appassiono. Siamo deboli, umani e un po' vanitosi, no?".

Prima si accennava alla gelosia che è un tratto ricorrente tra coloro che recitano in teatro.
"Sono sempre stata immune da questo sentimento. Anzi, ho cercato spesso di voler bene e farmi voler bene. Noto, con soddisfazione, che invecchiando il mio giudizio conta per le altre, per quelle attrici che sono agli inizi o nel pieno della loro attività".

Si sente vecchia?
"Lo sono, è un fatto. Le leggi della natura comprendono la decadenza. Ma il punto è come frani. O, se vuole, come si protegge la propria dignità di donna e di artista".

In questo nuovo libro si definisce una "donna sola".
"Ho avuto una carriera quasi sempre solitaria, fatta più di monologhi che di incontri. Quanto al privato, la mia vita mi ha riservato il destino di essere lasciata sola. Soprattutto affettivamente. Quando perdi i genitori, gli uomini che hai amato, gli amici che non ci sono più, la solitudine diventa una condizione imprescindibile. Però non ho mai avuto la sensazione di essere abbandonata".

Vuole dire che non le pesa?
" So che esistono persone per le quali la solitudine è come una mazzata sulla fronte. Non fanno che lamentarsene. Io posso stare sola sia perché non ho perso il senso dell'amicizia, sia perché continuo a scrivere. Mi duole soltanto non poter più leggere".

C'è un libro che è stato fondamentale per la sua crescita?
"Ce ne sono diversi. Ma per forza di cose il libro della mia vita è stato la Recherche. Lo lessi tutto durante la guerra, diciamo nel mio esilio dorato in Svizzera. Mi entusiasmò, per la lingua francese che esprimeva e per quel senso straordinario che Marcel Proust attribuì al tempo del ricordo".

Cosa intende dire?
" Quella lettura tra le tante cose mi ha anche insegnato il valore del tempo. Mi ha educato a ricordare. Molte cose della nostra vita ci sfuggono e a volte le ritroviamo improvvisamente. Ma dobbiamo essere pronti a carpirle. Mi piace molto in questa fase della mia vita ricordare. A volte quando non prendo sonno, o mi sveglio improvvisamente, comincio delle lunghe "passeggiate" notturne".

È come liberare la propria mente.
"La mente si rigenera nel ricordo e ci dimostra che siamo ancora vivi".

Lo dice con una punta di nostalgia.
"È una sorella che a una vecchia cocciuta come me fa da badante. Però non bisogna cercare la pietà che è quasi sempre falsa o inutile ".

Accennava allo scrivere.
"Sto lavorando a un nuovo libro. Vorrei intitolarlo: Il secolo della noia ".

Quale secolo?
"Quello in cui siamo entrati. Aspettavamo il Duemila con la speranza che avremmo visto realizzate cose straordinarie. E tutto lo straordinario che c'è stato vomitato addosso è solo qualcosa di ripugnante. Ci resta questa noia. Noia per il progresso ostinato, per le banalità televisive, per le cattive notizie, per i ciarlatani della politica che hanno scambiato il Parlamento per un teatro, ma non sanno nulla del vero teatro. Ogni tanto mi chiedo: risorgeremo da tutto questo tedio? Non ho una risposta, ma ci sto seriamente pensando".


Il Diario della Signorina Snob
di Franca Valeri

giovedì 30 luglio 2020

Ritratto di Gianrico Tedeschi



GIANRICO TEDESCHI
DI RICCARDO MANNELLI

Gianrico Tedeschi, 100 anni di vita e di teatro, l'attore che li aveva compiuti  il 20 aprile scorso è stato un grande testimone del Novecento, da un palco all'altro,  e uno dei nostri grandi protagonisti in scena per oltre settant'anni. 
Ha iniziato a recitare in un campo di prigionia nazista poi ha avuto una carriera dedicata al teatro lavorando con Strehler, Ronconi, Visconti. È stato protagonista in tv di sceneggiati, varietà, compreso Carosello.
Ripropongo una vecchia intervista del 2013 dove ci racconta momenti significativi della sua vita e che conclude dicendo di avere un sogno : «Sì, un piccolo sogno. C' è un romanzo che mi ha divertito: Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, di uno scrittore svedese. Ecco, se avessi le forze ne farei una riduzione teatrale. Benaugurante, non trova?».
.... che direi si è avverato.



GIANRICO TEDESCHI
la faccia più beffarda del teatro italiano. Quando ti è di fronte sembra che rida. E quando ride davvero sospetti che ti prenda in giro.
 A 93 anni Gianrico Tedeschi dice che la sua giornata è tempestata di vuoti di memoria: «È come calpestare una gruviera mentre fai la gimkana tra i suoi buchi. Ogni tanto per distrazione ci finisci dentro. E non ti ricordi neppure come si chiamava tua madre. A proposito perché lei è qui? Scherzo, lo so, lo so. L' incontro con il vecchio leone, l' uomo dei mille palcoscenici, dei cofanetti di biscotti e delle minestre concentrate; il sopravvissuto alla crisi del teatro, del cinema, di Carosello».
 Ride, come un vecchio spensierato che non si prende sul serio e che ha lenito gli acciacchi con il farmaco dell' ironia. Di solito vive sul lago d' Orta, non lontano da Novara, con la moglie e attrice Marianella Laslzo, ma ci incontriamo nella casa di una delle due figlie a pochi chilometri da Roma: in un comprensorio simile all' Olgiata, però meno aggressivo e pretenzioso.
 «Nonostante i tempi, sono un vecchio abbastanza felice; glielo dico perché a volte ricordando il passato mi scappa qualche lacrima e non vorrei essere frainteso. Le mie figlie mi danno gioia. Una è sociologa, l' altra fa l' attrice. Non avrei voluto che Sveva intraprendesse la mia carriera. Ma è andata così. Bisogna seguire l' istinto o la ragione? Non l' ho mai capito fino in fondo».
 Perché non le piace che sua figlia faccia teatro?
 «Perché è dura. Perché se ti dedichi solo a questo mestiere oggi non ce la fai a vivere con serenità. Io ho faticato e mi sono divertito. Loro, intendo quelli che hanno iniziato solo ieri, che faranno?».
 Ogni generazione ha le sue tragedie. La sua quali ha vissuto?
 «Dovrei dirle la guerra. E credo sarei nel giusto. Ma poi mi chiedo non sono forse diventato quello che sono grazie anche a ciò che mi è accaduto in quegli anni terribili?». 
Quali anni? 
«Dal 1943 al ' 45. Prima di allora mi sembrava di stare in un altro mondo. Certo, non facile, indurito dalle difficoltà. Ma niente era davvero insormontabile. È solo quando le fauci del tempo si spalancano che la tua vita improvvisamente è messa a repentaglio». 
Dove più alto è il pericolo lì cresce anche la salvezza.
«Si fa presto a dire la salvezza, quando la vita è scossa, traumatizzata, messa in discussione. A me è andata bene e ringrazio il teatro, quella passione che mi è servita durante gli anni della prigionia trascorsi in vari campo di concentramento». 
Passione nata come?
«Eravamo bambini, io il più piccolo di tre fratelli, quando mio padre ci portava tutte le domeniche ad assistere a una rappresentazione. Nei primi anni fu una tortura. Mi annoiavo, volevo fuggire da quello spazio che mi sembrava opprimente e tornare ai miei giochi. Non c' era verso di scappare. Poi, verso i tredici anni, ho cominciato a capire e a lasciarmi andare a quelle recite. Mi incuriosivo ai gesti degli attori, alle voci. Una volta papà mi portò al dal Verme di Milano a vedere Ermete Zacconi. Recitava ne Gli spettri di Ibsen. Fu una cosa strana. Mi impressionò il verismo. Allora decisi che il teatro sarebbe entrato nella mia vita. Mio padre aveva involontariamente gettato il seme».
 Cosa faceva nella vita? 
 «Era commesso nel più grande negozio di colori di Milano. Venivano tanti artisti a servirsi. Si sentiva gratificato da quel mondo del quale era solo uno spettatore. Attento e disponibile. Diceva: pensa, cosa sarebbero i pittori senza di noi, senza un pubblico che li ammiri e li segua. Fu un uomo umile e operoso. E quando partii per la guerra, lui che era un antifascista convinto, mi disse: non devi niente a questo paese, comportati con onore, ma torna a casa».
 Dove la spedirono? 
«In Grecia, avevo il grado di sottotenente. Ci mandarono a combattere contro la resistenza greca. Restammo lì, nella parte Nord, dal 1941 al ' 43. Sembravamo tanti disperati, soprattutto quando apprendemmo della disfatta del fascismo, della fuga ignominiosa del Re. I tedeschi ci catturarono e ci spedirono in Germania. Fui destinato al Benjaminovo, un campo non lontano da Varsavia. E lì che ho cominciato a fare teatro». 
E i tedeschi glielo consentirono? 
«Non era un campo di sterminio, e per quanto fosse duro avevamo piccole possibilità di movimento. Agevolate dal fatto che i tedeschi volevano che aderissimo alla Repubblica di Salò. Cosa che ci guardammo bene dal fare. Tra i prigionieri c' erano Giovanni Guareschi, ricordo che ogni tanto faceva il giro delle baracche con la fisarmonica; Alessandro Natta, che sarebbe diventato segretario del Pci; Giuseppe Lazzati, futuro rettore della Cattolica e perfino quel meraviglioso caricaturista di Novello. Avevamo con noi dei libri. Li mettemmo tutti assieme creando una piccola biblioteca. Fu lì che pescai un paio di commedie di Pirandello: EnricoIV e Il piacere dell' onestà. Mi venne l' idea che potevamo allestire una recita nel campo. Imparammo le parti, ci procurammo perfino dei vestiti da donna e alla fine debuttammo davanti a tutti i prigionieri. Fu un successo incredibile. Decisi così che avrei fatto l' attore».
Come pensa sia stata la sua carriera? 
«Non ho mai avuto il piglio del mattatore. E per quanto mi sforzi nel cercarli, non vedo in me tracce di narcisismo né di istinti prevaricanti. Detesto la retorica sul grande attore. Le frasi ovvie: come desiderare di morire sul palcoscenico. Il teatro è vita, eros, artificio, ma soprattutto fatica e dedizione. Ho cercato, sempre, di essere all'altezza di queste convinzioni, poco scolastiche».
 Ha fatto l' Accademia? 
«Subito dopo la guerra, con Strehler e Grassi. Ma siccome a Milano non c' erano in quel momento sbocchi immediati, feci anche l' Accademia nazionale a Roma. Mi bocciarono. E dovetti ripresentarmi. Anni dopo Silvio D' Amico, che era il direttore, mi disse che quella bocciatura fu un errore di trascrizione di una segretaria. Non so se fosse vero. O se semplicemente voleva riparare un torto, o qualcosa che a me allora parve così». 
Cos' è fallire per un attore? 
«Per alcuni è una tragedia. Per me è un chiedersi dove hai sbagliato. Se il pubblico non ti segue o ti volta le spalle una ragione c' è. Quando insieme ad Anna Magnani facemmo Chi è di scena?, la gente, ancora abituata alla rivista, non capì. Una sera, prima dello spettacolo Anna si presentò sul palcoscenico e disse: "aho, gente mia, noi stamo a dà er mejo. Voi datece na mano: applaudite!". Era una donna carismatica, schietta. Pochi mesi dopo, se non ricordo male, prese anche l' Oscar per La rosa tatuata ». 
Il talento cos' è?
 «È un dono, se ce l' hai lo devi conservare. Il buon Dio non te lo dà una seconda volta. Chi ne aveva tantissimo e lo ha dissipato fu Walter Chiari. Ha buttato via tutto. Ma non ho mai incontrato un uomo più generoso di lui. Lavorammo insieme con Franca Valeri che era l' opposto di lui. Meticolosa, perfetta come la lancetta di un cronometro. Colta e sofisticata. Aveva innalzato il pettegolezzo all'arte dell' intrattenimento». 
A proposito di colto e sofisticato so che ha interpretato il ruolo che fu di Rex Harrison in My Fair Lady. 
«Era il 1964. Il regista, un americano mi pare, durante il provino disse: canti qualcosa. Cantai ' O sole mio. Rimase estasiato. Interpretai il ruolo di Higgins, il professore di fonetica. Fu un successo. A Milano, alla fine della prima, venne Ingrid Bergman a congratularsi in camerino. Ero emozionatissimo. In seguito seppi che dopo essersi lasciata con Rossellini si era sposata con il produttore del musical. A Roma fu la volta di Rex Harrison. Elegantissimo. Bello. Autorevole. Dopo lo spettacolo finimmo in una vecchia trattoria. Cantammo gran parte della sera e giuro che non ho mai sentito uno più stonato di lui». Un attore non è mai quello che sembra?
 «Un attore deve essere ciò che sembra. Soprattutto non deve avere pensieri». 
Cosa intende?
 «Quando chiesero a John Gilguld come avesse fatto ad essere così bravo nell' interpretare Re Lear, rispose che non ne era consapevole. Non era in grado di giudicare Shakespeare, compito che lasciava ai letterati. E che sul palcoscenico la sola cosa che lo guidava erano le emozioni. Un attore non può parlare seriamente di Shakespeare o di Moliére. Però può farli propri».
 Un attore non pensa? 
«In un certo senso è così.È la sola macchina che io conosca dotata di un cuore pulsante».
 Lei ha fatto anche molto cinema. 
«Più per denaro che per passione. Un solo film da protagonista e fu un fiasco clamoroso. Per il resto ruoli secondari, piccole parti. Come l' ultima, qualche mese fa, nel film di Roberto Andò: Viva la libertà, in cui interpreto un vecchio saggio della sinistra italiana. Credo che il riferimento fosse a Vittorio Foa». 
Come vede la politica?
 «Bisogna convenire sull' idea che è un bel rebus. Mi fa venire in mente il periodo in cui in televisione partecipavo alla trasmissione di Cochi e Renato Il poeta e il contadino. Erano i primi anni Settanta. Tenevo dei monologhi surreali tipo: "La maturità democratica delle foreste incide sui dischi volanti"; "Oggi è stata fondata una casa di riposo per uomini politici"; "Tutti i grandi cervelli hanno curato i loro fegati a Chianciano". Insensatezze di questo tipo. E ho l' impressione che frasi del genere oggi non stonerebbero nel linguaggio dei nostri politici. La politica è sempre più non sense. Preferisco, lo dico sottovoce, il mio rincoglionimento».
 Ha un' età scintillante.
 «Aver superato i novanta non mi autorizza a sparare sul mondo. Il vecchio irresponsabile che dice quello che gli passa per la testa non mi piace».
 Cosa rappresenta questa età? 
«Cose belle e malinconiche. Le prime sono gli amori avuti, gli affetti coltivati, le persone cui si è fatto del bene e quelle da cui ne hai ricevuto. E poi il teatro, per tutto quello che mi ha donato. Infine giunge la constatazione che tutto questo un bel giorno finisce e allora subentra la malinconia. Mi piacerebbe rinascere per poter fare meglio tutto quello che ho fatto. Capisco che è infantile. Ma, quando mi rinchiudo nel mio studio, è la sola cosa che mi torna costantemente alla mente. Un desiderio di perfezione».
 Nient' altro? 
«Sì, un piccolo sogno. C' è un romanzo che mi ha divertito: Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, di uno scrittore svedese. Ecco, se avessi le forze ne farei una riduzione teatrale. Benaugurante, non trova?».





Approposito di grandi attori, ieri 27 luglio ci ha lasciato Gianrico Tedeschi. 
Aveva 100 anni. Riposa in Pace...


Gianrico Tedeschi (Il poeta e il contadino - 1973)

martedì 21 gennaio 2020

Fellini 100







AUGURI MAESTRO!!



Fellini di GIO

 ...un'opera in bianco & nero.. di un grande illustratore italiano Pericoli e il suo Fellini...
 ...un'altra illustrazione di Pericoli a colori...del suo Federico Fellini..
Fellini di Franco Liberati



Federico Fellini!
Ramses




Buon compleanno a Federico Fellini che oggi avrebbe compiuto 100 anni e che ci ha sbattuto davanti agli occhi, con vigorosa e sfacciata passione, la dimostrazione che con l’immaginazione si può fare la storia.
Marianna Balducci

 Fellini di Tiziano Riverso
...una caricatura di Franco Bruna...Federico Fellini insieme a " Casanova " Sutherland...


Federico Fellini, 20 gennaio 1920
auguri
Fabio Magnasciutti



Fellini
Arcangelo Carrera


“FELLINI, 100 AÑOS”
Sciammarella


...uno dei tanti eventi nel mondo...il prossimo 23 di Gennaio a Curitiba in Brasile...la caricatura-illustrazione e del mio amico e autore italiano Marco Martellini....



Alberto Sordi parla dell'amico Federico Fellini
«Eravamo due poveracci, senza una lira: io sognavo di diventare un grande attore e lui mi diceva non ci crederai, ma io un giorno sarò un grande regista...». Alberto Sordi parla della sua amicizia con Federico Fellini: un imperdibile reperto Rai.

giovedì 21 febbraio 2019

Auf Wiedersehen Karl Lagerfeld, stilista di Fendi e Chanel.

"Il vero lusso? L'intelligenza."

"L'elegance is an attitude."

"Mi piace reinventarmi: è parte del mio lavoro"

"I pantaloni della tuta sono un segno di sconfitta. 
Avete perso il controllo della vostra vita se uscite con la tuta"

“Il lusso è la libertà di spirito, l'indipendenza, in breve il politicamente scorretto.” 

"Da giovane volevo diventare un caricaturista. 
Adesso finalmente sono diventato una caricatura io stesso"


Karl Lagerfeld


Karl
Moine



Auf Wiedersehen. Karl Otto Lagerfeld, stilista e fotografo tedesco. Durante la sua vita ha collaborato con varie etichette di moda. È stato direttore creativo di Fendi insieme e di Chanel oltre a firmare una sua linea.
Era nato il 10 settembre 1933 ad Amburgo in Germania ed è scomparso il 19 febbraio 2019.
Carrera Arcangelo



Karl Lagerfeld 1933-2019
02/19/2019 par Michel Kichka
Karl Lagerfeld, un styliste jamais démodé.


Karl Lagerfeld R.I.P.
Gero




1933-2019...
Damien Glez


“KARL LAGERFELD”
Sciammarella





karl lagerfeld & Choupette
for Het Parool / Amsterdam
Noma Bar



#choupette #karllagerfeld karllagerfeld
Kroll
L'eredità va alla sua gatta Choupette

caricatura tokidoki by Karl Lagerfeld


Karl Lagerfeld e Coco Chanel, schizzo originale di Karl Lagerfeld




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La splendida galleria di vigne sullo sbarco di Lagerfeld a Cuba!

domenica 21 febbraio 2016

Umberto Eco (1932 - 2016)

Elogio di Franti, Fenomenologia di MikeNonita... 
Eco fu anche uno dei massimi umoristi italiani. Gli sia lieve il cordoglio ipocrita.
Lia Celi



Muere un Grande
Rayma Suprani Venezuela








Ecco, Eco è etimologico echeggio. Effuse, eternò, estese…

di Nadia Redoglia

Un tautogramma (Umberto Eco ne fu autore) per rendere omaggio al semiologo, filosofo e scrittore

Educatore empatico, esperto experior, egloga estemporanea, eloquente Ermes, emozionante epitome, eppure esauriente ed esaustiva, (epperò) eliaco estravagante Etabeta, elargì ed espanse eclettici empirei. Erudì epigoni eredi. Entusiasmò enciclopedisti. Estrapolò ed escogitò enigmi. Elevò ed esortò Es, Etica ed Estetica. Espresse eleganti eterodossi esistenziali. Esultò eufonici evviva eureka ehi.

Editò, energico, efficaci epistole eclissando empi editti, ebeti enunciazioni, esegeti esibizionisti, emissari effimeri, edonisti enfatizzati, eletti eroismi evanescenti, erratiche epifanie, egocentrici esiziali: eterno elenco… (esclamativo)

Eco episodio? Eco epopea…





UMBERTO ECO - Nascimento: 5 de janeiro de 1932, Alexandria, Itália
Falecimento: 19 de fevereiro de 2016
JBosco Azevedo Brasile



Eco 
Tomas Serrano Spagna



Dormi bene Umberto
Carrera Arcangelo  Italia



Yesterday Harper Lee and my mother in law, today Umberto Eco... R.i.P all
http://www.bbc.com/news/world-europe-35620368?SThisFB
Firuz Kutal Turchia


Adiós a Umberto Eco 
BY ANGEL BOLIGAN, Cuba
EL UNIVERSAL, MEXICO CITY,


Chinson... ad Honorem...
Mario Airaghi Italia




"come non cadere in ginocchio davanti all'altare della certezza"
(Umberto Eco) .....alla mia maniera..
Perazzolli Italia



"I deboli sono carne da macello da usare quando servono a mettere in crisi il potere avverso e da sacrificare quando non servono più."
Umberto Eco
Paolo Lombardi Italia


Il cartoon per Eco
Makkox Italia


“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5.000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… Perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.
(Umberto Eco)
Riverso Italia


http://www.noha.it/public/ECO1997.jpg




  Nonita
 di Umberto Eco
[ Il presente manoscritto ci è stato consegnato dal guardiano capo delle carceri di un paesino del Piemonte. Le notizie incerte che l’uomo ci diede sul misterioso prigioniero che lo abbandonò in una cella, la nebbia di cui è avvolta la sorte dello scrittore, una certa complessiva, inspiegabile reticenza di coloro che conobbero l’individuo che vergò queste pagine, ci inducono ad accontentarci di ciò che sappiamo come ci appaghiamo di quel che del manoscritto rimane – il resto roso dai topi – e in base al quale pensiamo che il lettore possa farsi un’idea della straordinaria vicenda di questo Umberto Umberto (ma non fu forse, il misterioso prigioniero, Vladimiro Nabokov paradossalmente profugo per le Langhe, e non mostra forse questo manoscritto l’antivolto del proteico immoralista?) e possa infine trarre da queste pagine quella che ne è la lezione nascosta – sotto la spoglia del libertinaggio una lezione di superiore moralità.]
Nonita. Fiore della mia adolescenza, angoscia delle mie notti. Potrò mai rivederti. Nonita. Nonita. Nonita. Tre sillabe, come una negazione fatta di dolcezza: No. Ni. Ta. Nonita che io possa ricordarti sinché la tua immagine non sarà tenebra e il tuo luogo sepolcro.
Mi chiamo Umberto Umberto. Quando accadde il fatto soccombevo arditamente al trionfo dell’adolescenza. A detta di chi mi conobbe, non di chi mi vede ora, lettore, smagrito in questa cella, coi primi segni di una barba profetica che mi indurisce le gote, a detta di chi mi conobbe allora ero un efebo valente, con quell’ombra di malinconia che penso di dovere ai cromosomi meridionali di un ascendente calabro. Le giovinette mi concupivano con tutta la violenza del loro utero in fiore, facendo di me la tellurica angoscia delle loro notti. Delle fanciulle che conobbi poco ricordo, perché ero preda atroce di ben altra passione e i miei occhi sfioravano appena le loro gote dorate in controluce di una serica e trasparente peluria.
Amavo, amico lettore, e con la follia dei miei anni solerti, amavo coloro che tu chiameresti con svagato torpore “le vecchie”. Desideravo dal più profondo intrico delle mie imberbi fibre quelle creature già segnate dai rigori di una età implacabile, piegate dal ritmo fatale degli ottant’anni, mimate atrocemente dal fantasma desiderabile della senescenza. Per designare costoro, sconosciute ai più, dimenticate dalla indifferenza lubrica degli abituali usagers di friulane sode e venticinquenni, adoprerò, lettore, oppresso anche in questo dai rigurgiti di un’impetuosa sapienza che mi atterrisce ogni gesto di innocenza che mai tenti – un termine che non dispero esatto: parchette.
Che dire, voi mi giudicate (toi, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!) della mattutina cacciagione che si offre nel padule di questo nostro mondo sotterraneo al callidissimo amatore di parchette! Voi che correte per i giardini pomeridiani alla caccia banale di giovinette appena tumescenti, cosa sapete della caccia sommessa, umbratile, ghignante che l’amatore di parchette può condurre sulle panchine di vecchi giardini, nell’ombra odorosa delle basiliche, pei sentieri ghiaiosi dei cimiteri suburbani, nell’ora domenicale all’angolo degli ospizi, sulle porte degli asili notturni, nei filari salmodianti delle processioni patronali, alle pesche di beneficenza, in un amoroso ferratissimo ahimè inesorabilmente casto agguato per spiare dappresso quei volti scavati da vulcaniche rughe, quelle occhiaie acquose di cataratta, il vibratile moto delle labbra riarse, depresse nell’avvallamento squisito di una bocca sdentata, solcate talvolta da un rivolo lucente d’estasi salivare, quelle mani trionfanti di noduli, nervose nel tremolio lubrico e provocante dello sgranare una lentissima corona.
Potrò mai parteciparti, amico lettore, il languore disperato di quelle fuggevoli prede degli occhi, il fremito spasmodico di certi contatti labilissimi, un colpo di gomito nella ressa del tram (“Scusi signora, vuole sedersi?” Oh, satanico amico, come osavi raccogliere l’umido sguardo di riconoscenza e il “Grazie, buon giovine”, tu che avresti voluto inscenare lì stesso la tua bacchica commedia del possesso?), lo sfiorare un ginocchio venerando strisciando, col tuo polpaccio, tra due file di sedie nella solitudine pomeridiana di un cinema rionale, lo stringere della tenerezza trattenuta – sporadico momento del più estremo contatto! – il braccio ossuto di una vegliarda che aiutavo ad attraversare il semaforo con aria contrita di giovane esploratore!
Le vicende della mia beffarda età mi inducevano ad altri incontri. Lo dissi, apparivo piuttosto affascinante, con le mie gote brune e un volto tenero di fanciulla oppressa da una morbida virilità. Non ignorai l’amore di adolescenti, ma lo subii, come un pedaggio alle ragioni dell’età. Ricordo che una sera di maggio, poco prima del tramonto, quando nel giardino di una villa gentilizia – era nel varesotto, non lontano dal lago rosso del sole che calava – giacqui nell’ombra di un cespuglio con una sedicenne implume tutta efelidi, presa in un impeto di amorosi sensi veramente sconfortante. E fu in quell’istante, mentre le concedevo svogliatamente l’ambito caduceo della mia pubere taumaturgia, che vidi, lettore, quasi indovinai da una finestra del primo piano, la sagoma di una decrepita nutrice piegata curvamene in due mentre si dipanava lungo la gamba l’ammasso informe di una nera calza di cotone. La vista folgorante di quell’arto ingrossato, segnato di varici, accarezzato dal moto inabile delle vecchie mani intese a srotolare il groppo dell’indumento mi apparve (occhi miei concupiscenti!) come un atroce e invidiabile simbolo fallico blandito da un gesto virginale: e fu in quell’attimo che, preso da un’estasi irrobustita dalla distanza, esplosi rantolando in un’effusione di biologici consensi che la fanciulla (improvvida ranocchietta, quanto ti odiai!) raccolse gemebonda come un tributo ai propri fascini acerbi.
Hai mai dunque compreso, stolido mio strumento di differita passione, che tu fruisti del cibo di un’ altrui mensa, oppure l’ottusa vanità dei tuoi anni incompiuti mi ti si presentò come un focoso indimenticabile peccaminoso complice? Partita con la tua famiglia il giorno appresso mi inviasti dopo una settimana una cartolina firmata “la tua vecchia amica”. Intuisti la verità rivelandomi la tua perspicacia nell’uso accurato di quell’aggettivo, o fu la tua l’argotica bravata di una liceale in guerra con le filologiche creanze epistolari?
Come da allora fissai tremando ogni finestra nella speranza di vederne apparire la silhouette sfasciata di una ottuagenaria al bagno! Quante sere, seminascosto da un albero, consumai le mie solitarie deboscie, lo sguardo volto all’ombra profilata su di una tendina di un’ava soavissimamente intenta a un pasto biascicante! E l’orrida delusione, subitanea e folgoratrice ( tiens, donc, le salaud! ) della figura che si sottrae alla menzogna dell’ombre cinesi e si rivela al davanzale per quel che è, un’ignuda ballerina dai seni turgidi e dalle anche ambrate di cavalla andalusa!
Così per mesi ed anni corsi insaziato alla caccia illusa di adorabili parchette, teso ad una ricerca che, lo so, traeva l’indistruttibile sua origine dal momento ch’io nacqui, ed una vecchia sdentata ostetrica – infruttuosa ricerca del padre mio che a quell’ora di notte non fu capace di trovare altro che costei, un piede sull’orlo della fossa! – mi sottrasse alla prigionia vischiosa del grembo materno e mi mostrò alla luce della vita il suo volto immortale di jeune parque.
Non cerco giustificazioni per voi che mi leggete (à la guerre comme à la guerre), ma voglio almeno spiegarvi quanto fatale fosse stato il concorrere di eventi che mi portò a quella vittoria.
La festa cui ero stato invitato era uno squallido petting party di giovani indossatrici e impuberi universitari. La flessuosa lussuria di quelle giovinette invogliate, il negligente offrirsi dei loro seni da una blusa sbottonata nell’impeto di una figura di danza, mi disgustava. Già penavo di lasciare di corsa quel luogo di banale commercio di inguini ancora intatti, quando un suono acutissimo, quasi stridulo (e potrò mai esprimere la frequenza vertiginosa, il roco digradare delle corde vocali già spossate, l’allure supréme de ce cri centenarie?) un lamento tremulo di femmina vecchissima piombò nel silenzio l’accolta. E nel riquadro della porta vidi lei, il viso della lontana parca dello choc prenatale, segnato dall’entusiasmo spiovente della chioma canutamente lasciva, il corpo rattrappito che segnava di angoli acuti la stoffa dell’abituccio nero e liso, le gambe ormai esili piegate inesorabilmente ad arco, la linea fragile del femore suo vulnerabile profilata sotto il pudore antico della gonna veneranda.
La scipita giovinetta che ci ospitava ostentò un gesto di sopportata cortesia. Alzò gli occhi al cielo e disse: “E’ mia nonna” …
[ A questo punto termina la parte intatta del manoscritto. Da quel che è dato di inferire dalle linee sparse che se ne possono ancora leggere, la vicenda dovrebbe procedere come segue. Umberto Umberto rapisce dopo pochi giorni la nonna della sua ospite e fugge con lei, portandola sulla canna della bicicletta, verso il Piemonte. Dapprima la conduce in un ospizio di poveri ricchi, ove la notte la possiede, apprendendo fra l’altro che la vecchia non è alla sua prima esperienza. Sul far del giorno, mentre sta fumando una sigaretta nella semi-oscurità del giardino, viene avvicinato da un giovinetto dall’aria ambigua che gli chiede se la vecchia sia effettivamente sua nonna. Preoccupato lascia l’ospizio con Nonita ed inizia una vertiginosa peregrinazione per le strade del Piemonte. Visita la fiera dei vini di Canelli, la Festa del Tartufo di Alba, prende parte alla sfilata di Gianduia a Caglianetto, al mercato del bestiame di Nizza Monferrato, all’elezione della Bella Mugnaia di Ivrea, alla corsa nei sacchi per la festa patronale di Condove. Al termine di questo folle peregrinare per l’immensità del paese che lo ospita, si accorge che da tempo la sua bicicletta è sornionamente seguita da un giovane esploratore in lambretta, che elude ogni appostamento. Il giorno in cui, ad Incisa Scapaccino, porta Nonita da un callista e si allontana un istante a comperare le sigarette, quando torna si trova abbandonato dalla vecchia, fuggita col rapitore. Passa alcuni mesi in una profonda disperazione, e finalmente ritrova la vegliarda, reduce da un istituto di bellezza dove è stata condotta dal seduttore. Il suo viso è privo di rughe, i capelli tinti di un biondo rame, la bocca rifiorita. Umberto Umberto è colto da un senso di abissale pietà e queta disperazione alla vista di tanto sfacelo. Senza dir motto acquista una doppietta e va alla ricerca dello sciagurato. Lo trova ad un campeggio mentre sta soffregando due legnetti per accendere il fuoco. Gli spara una, due, tre volte, sempre mancandolo, sinché non viene afferrato da due sacerdoti in basco nero e giacca di cuoio. Prontamente arrestato viene condannato a sei mesi per porto d’armi abusivo e caccia fuori stagione.]

Umberto Eco, Diario minimo, Mondatori, Milano 1975.





Umberto Eco foto di Alberto Cane







http://www.tpi.it/mondo/italia/regole-lingua-italiana-umberto-eco

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video del commento di Eco con Paolo Poli dell'elogio di Franchi
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Il diario minimo 
di Umberto Eco

“[…] il ridente – o il sogghignante – altro non è che il maieuta di una diversa società possibile.” – Elogio di Franti
Raccolta di articoli pubblicata da Eco per la prima volta nel 1963, poi ampliata e, in parte modificata, nel 1975. Etichettati all’inizio come letteratura disimpegnata e come “figli di un Eco minore” gli articoli rappresentano una serie di esercizi di stile, attraverso l’esplorazione di vari generi, con il grande sotteso della scelta parodistica e umoristica. Scendendo nel concreto, ad esempio c’è l’articolo di apertura: Nonita. Nella finzione, trascrizione di un diario, in parte corrotto, abbandonato da un carcerato nella sua cella. Ricostruzione di Lolita, sostituisce alla passione per una giovinetta quella per un’attempata signora di settant’anni, mantenendo la serietà dei sentimenti e delle descrizioni dell’innamorato, fino all’esito tragicomico che lo condurrà in carcere.

Tra gli articoli contenuti anche il celebre saggio sulla “Fenomenologia di Mike Bongiorno“, che ahinoi è oramai diventata, a distanza di soli cinquant’anni, la fenomenologia dell’italiano abbrutito dalla televisione e dal modo di fare del Bongiorno originale e di tutti gli emulatori più o meno inconsapevoli.

Tra i miei articoli preferiti i due sulle avventure antropologiche dei melanesiani. Infine l’inverno nucleare è giunto, i missili americani, lanciati dalle coste dell’adriatico, e quelli russi hanno cancellato ogni forma di vita al di sotto delle calotte polari. Solo i melanesiani, gli eschimesi e pochi altri abitanti delle terre vicine ai poli si sono salvate. A distanza di un migliaio di anni si interrogano sugli usi e i costumi dei loro predecessori cercando tracce delle loro civiltà. Le ricostruzioni assurde prodotte dalla scarsità di documenti, dalla proiezione della cultura sul passato, producono letture che in realtà finiscono per dirci qualcosa su noi stessi e sui nostri tempi. Anche se noi non siamo più negli anni sessanta abbiamo che oggi è solo più probabile che per un evento del genere, mentre tutti gli altri stati europei hanno prodotto delle criptobiblioteche con il loro sapere, noi ce ne siamo dimenticati o ne siamo stati impossibilitati per mancanza di fondi alla nostra biblioteca nazionale, due ipotesi al dibattito degli studiosi post-apocalittici, insieme a quella della nostra non esistenza nonostante le altre fonti ci citino, ovviamente non quelle francesi, ça va sans dire.

La lettura di questi articoli, con una nota di particolare attenzione per l’Elogio di Franti, è veramente divertente e apre, attraverso il riso, all’osservazione di un’epoca dalla quale, accettate le contraddizioni a tal punto da trovarne il lato umoristico, si può finalmente andare oltre. (fonte)


Intelletuali moderni
Gianluca Foglia-  Fogliazza Italia
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Sentite condoglianze alla famiglia.