e l'intervista di Antonio Gnoli
a
Riccardo Muti, il grande direttore d'orchestra italiano.
“Ho avuto fortuna, ma non sono nato con il papillon e la musica ha tolto molto tempo ai miei affetti”
11/08/2013
Riccardo Muti
Ho avuto fortuna ma non sono nato con il papillon
di ANTONIO GNOLI
Straparlando Riccardo Muti "Ho avuto fortuna ma non sono nato con il papillon" oltre ad essere il grande musicista amato in tutto il mondo- dirige la Chicago Symphony Orchestra ed è direttore onorario del Teatro dell' Opera di Roma - Riccardo Muti è un uomo molto spiritoso. Me ne accorgo assistendo a una sua lezione dedicata al Nabucco, davanti a una vasta platea di studenti sotto gli affreschi "africani" del Teatro dell' Opera. E se ripenso agli anni penosi di questa istituzione, che divenne e restò per lungo tempo uno degli esempi della decadenza italiana, mi pare un miracolo ciò che Muti ha realizzato.E dovete immaginare quest' uomo che in uno stile informale intrattiene il suo pubblico per più di due ore. Senza annoiarlo, senza deprimerlo.
Davvero sorprendente.O quanto meno insolito. Come il taglio sottile dei suoi occhi che verrebbe da definire circasso se non fosse che è nato a Napoli.
«Certo, sono nato a Napoli ma a 14 giorni con i miei ci trasferimmo in Puglia, a Molfetta. Entrambi i luoghi sono incisi sulla mia pelle, come tatuaggi».
Come qualcosa che non si può cancellare?
«Non si può togliere la nostalgia e i ricordi ad essa legati. Sento ancora i profumi della mia terra, dove ho vissuto fino a 17 anni. Le stagioni che passavano le avvertivo dagli odori della natura. Il Natale mi si annunciava non con le luci o il presepe ma con il profumo delle arance. Mi chiedo se sono stato privilegiato in questo, se la mia generazione ha goduto di qualcosa di irripetibile. Nelle mie lezioni ai giovani mi pongo sempre questo problema: come trasmettere certe cose, come parlare di musica, a loro che sono lontani dalla mia stagione, dal mio tempo? Ecco il bisogno di sdrammatizzare e di uscire da certi toni retorici».
Sorprende un po' in un direttore d' orchestra il desiderio di alleggerire.
«Fa parte delle mie due nature: seriosa e leggera. Da una parte, quella pugliese, ponderosa e greve; dall'altra, quella napoletana, solare e scherzosa. E poi, le confesso, che è sempre spiccata in me la tendenza a smitizzare ciò che faccio.A volte mi capita di affermare una cosa molto seria e subito dopo svuotarla di importanza».
Forse è un bisogno di non prendersi troppo sul serio?
«Forse, ma le dirò che non ho piacere a indagare nelle profondità dell' animo umano, soprattutto il mio».
Un' identità precisa però ce la fornisce il suo lavoro. Chi è un direttore d' orchestra?
«È un signore che esercita una delle ultime nobili professioni in cui un singolo mette d' accordo un insieme di persone».
Occorrono virtù carismatiche?
«Direi di sì. L' orchestra è un piccolo collettivo dall' istinto sovrumano. Si accorge immediatamente delle qualità di un direttore, già dal modo in cui sale sul podio. Un direttore deve sapere cosa vuole ottenere. E l' orchestra percepisce se egli va per tentativi o possiede esattamente ciò che intende trasmettere».
Si è spesso associato il direttore di orchestra a una figura dittatoriale. È un' immagine che sopravvive?
«Fortunatamente non esiste più il direttore tiranno che con gesto imperioso allontanava l' orchestrale di turno. D' altra parte, non si può neanche pensare a una direzione collegiale».
Chi sono stati i direttori che hanno rivoluzionato il mondo della musica?
«È difficile fornire un elenco».
Le lancio un nome facile: Toscanini?
«Grande, anche se non mi ritengo un toscaniniano. Però il mio insegnante fu assistente di Toscanini. Di lui ammiro il rigore e la severità. Ho amato Furtwängler per quel senso di improvvisazione che imprimeva all'esecuzione. Nel momento in cui eseguiva dava la sensazione di stare creando. E poi Bruno Walter. Figure che non si discutono».
Il più controverso è stato Karajan.
«È stato soprattutto un innovatore. Con lui si è arrivati alla scoperta di un culto del suono che prima non esisteva».
Forse anche un culto della personalità.
«Sapeva amministrare perfettamente la sua immagine. Ma il primo fu Toscanini. Bastava vedere come vestisse già durante le prove. E poi capì immediatamente l' importanza di un mezzo come la radio».
Che cosa è il cantante per un direttore?
«Per un artista la voce è lo strumento più immediato ed esaltante. Un direttore deve scoprirne il segreto. Ma anche accettarne la memoria. Ero agli inizi della carriera quando ebbi la fortuna di lavorare con Maureen Forrester, interprete strepitosa dei Lieder di Mahler. Aveva cantato con Bruno Waltere portò a me gli echi di quella esperienza storica».
Si dice che tra quelle femminili la più grande voce fu la Callas.
«Non farei classifiche. Fu straordinaria in mano a certi direttori. E in un periodo di approssimazione, si parla degli anni Cinquanta, diede al canto e all' arte scenica una disciplina sconosciuta. Non ho mai lavorato con lei. Ma una sera mi telefonò. Ero a Philadelphia. Avevo parlato di lei a un amico, confessandogli che mi sarebbe piaciuto dirigerla. Mi disse che era bello che avessi pensato a lei. Ma aggiunse che era troppo tardi».
Cos' è il tramonto di un artista?
«Non per tutti è uguale. Alcuni non si rassegnano al tempo che passa. Lo vivono come un affronto, un' offesa. La cosa peggiore che può accadere è di non avere una confidenza ironica con la vita. Occorre saggezza, modestia e una certa disinvoltura per non lasciarsi travolgere dal ricordo di ciò che si è stati e non si è più».
I ricordi continuano ad affascinarla?
«Mi forniscono la misura della nostalgia, che è una cosa diversa dal rimpianto. La nostalgia dà valore al passato, a ciò che si è fatto. Il rimpianto è la paura per un passato che non passa, che abbiamo mancato. Perciò rischia di trasformarsi in ossessione».
I suoi primi ricordi?
«Due, nitidi. Mio padre nell' ospedale militare, era il 1945, con il camice bianco da medico che curava i soldati tornati dal fronte; l' altro è la prima visione che ho avuto del Castel del Monte. Ricordo che con tutta la famiglia partimmo in carrozza da Molfetta. Arrivammo all' alba e mi apparve il Castello in tutta la sua imponenza. Quell' immagine si è sovrapposta come una seconda pelle. E mi piace pensare che sia l' ombra di Federico II».
Sono ricordi molto seri. Come è stata la sua infanzia?
«Severa e meravigliosa. C' era la guerra, ma c' erano anche gli occhi di un bambino che guardavano con incanto alla sua terra. Giocavo con i miei coetanei, con i miei fratelli. Ero affascinato dalle feste del Sud, in cui sacro e profano si mescolavano. Come pure ero attratto dalla banda che a volte evocava melodie mediorientali. Incombevano la morte e la vita; la gioia e la tristezza. Quel mondo mi ha dato il vantaggio di guardare all' esistenza non con superiorità ma con distacco».
Perché?
«Provenire da una terra solida e antica, piena di valori, forgia come nessuna altra metropoli può fare. Niente può gareggiare con l' immagine che conservo, neppure i grattacieli di Manhattan».
Dei suoi fratelli è il solo a essersi occupato professionalmente di musica?
«Sì, ed è stato casuale. Grazie forse agli incontri che si hanno nella vita. Uno di questi fu con Nino Rota. Quando mi presentai a Bari per l' esame di pianoforte, per me era un modo di completare i miei studi, mi sentì suonare e disse che avevo le qualità per diventare musicista. A quel punto, dopo un consiglio di famiglia molto sofferto, i miei decisero che avrei potuto frequentare il conservatorio».
Che ricordo ha di Rota?
«Aveva studiato con grandi maestri e aiutato Toscanini, che stimava molto questo giovane talento. Era un uomo celestiale, di una bontà estrema. E un musicista pieno di fascino. Ho inciso diverse sue composizioni».
Lei poteva intraprendere una carriera di solista, perché è finito a dirigere?
«Il pianoforte fu una decisione dall'alto. Lo studiai a Napoli con Vincenzo Vitale, uno dei grandi maestri della scuola napoletana. E anche se ero un ottimo pianista non è che ci credessi più di tanto. Poi, un giorno fui convocato dal direttore del conservatorio che mi disse: hai mai pensato di dirigere? Restai perplesso. E lui fissandomi negli occhi: credo che tu abbia le qualità per fare il direttore d' orchestra».
E lei?
«Restai un po' stupito. Poi accadde tutto in modo naturale. Quando cominciai a muovere il braccio sentii dopo pochi secondi che quello sarebbe stato il mio destino. Era una condizione magica: da un gesto semplice scaturivano i suoni. Provai una sensazione strana, insieme di esaltazione e smarrimento».
Se non si fosse occupato di musica?
«Probabilmente sarei stato un mediocre avvocato».
Quindi è un uomo fortunato?
«Chi non lo sarebbe al mio posto. Però non sono cresciuto con il papillon. I miei genitori non mi dicevano: Riccardo sei un genio. Le mie conquiste le ho realizzate giorno per giorno, con fatica e determinazione.E poi, le confesso, la musica mi ha tolto tante altre cose».
Cosa esattamente?
«Potrei dirle la vita, ma sarebbe enfatico. E perfino ingiusto. Però nello spettacolo in cui siamo immersi ed esposti finiamo col perdere la nostra semplicità. E ho sperimentato che fare seriamente una simile professione toglie tempo agli affetti. Ho visto crescere bene i miei figli, ma spesso ero distante da loro».
Prova sensi di colpa?
«A volte sì. Poi, ringrazio Dio di avermi messo su una strada dove potevo mostrare le mie qualità. Vede? Da un lato c' è il rimorso, dall' altro la convinzione che non poteva che andare così».
Cos' è il talento?
«Verdi diceva: lavoro, lavoro, lavoro».
Non basta, lo sa.
«Avere idee forti e il coraggio di portarle avanti a dispetto delle convenzioni e dei conformismi. In ogni grandissimo talento c' è il momento della trascendenza».
Crede in Dio?
«Credo in un Dio unico, possiamo anche dargli nomi diversi, assoggettarlo alle nostre necessità o abitudini, ma c' è un solo creatore. Non si può dirigere il Requiem di Verdi o la Messa in si minore di Bach senza avvertire il fascino di una presenza divina. Grandezza spirituale e abisso, questa è la musica».
A proposito di abisso, mi incuriosiva la sua affermazione che è meglio non guardarsi troppo nel profondo.
«È una forma di difesa. Molte volte è preferibile non chiedersi tante cose, non aprire certe porte».
Ma per un artista non è fondamentale aprire le porte più rischiose?
«È una visione romantica. Comunque anch' io ne ho aperte. Però c' è un istinto razionale che mi spinge alla cautela. Mi pare fosse Kant, in una celebre pagina della Critica della Ragion Pura, a mettere in guardia dall' ignoto».
Il giorno in cui smettesse la sua professione, cosa farebbe?
«Bella domanda. A volte mi sento un outsider dell' arte che è finito sul palcoscenico per una serie di circostanze favorevoli. Ma spente le luci bisogna avere il coraggio di uscire dal gioco. Credo che tornerei all' immagine di Castel del Monte. Proprio lì davanti ho comprato un terreno dove mi piacerebbe andare a vivere».
È come un ritorno all' infanzia?
«In un certo senso. Ma quando accadrà e quanto tempo dedicherò a questa nuova forma di vita non lo so».
Il Castello è un' interessante metafora, un' opportunità letteraria.
«Non è il Castello di Kafka, minaccioso, terribile, enigmatico. Quello di Federico II fu creato non per difesa ma per la mente, è un libro misterioso scritto con la pietra. Trasmette un' idea di una perfezione che ogni uomo dovrebbe cercare».
E lei l' ha trovata? «A volte mi sono illuso. È una necessità che ci portiamo dentro. Come un mare infinito nel quale a volte con timore o esaltazione ci bagniamo».
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