domenica 17 giugno 2012

Aung San Suu Kyi ha ritirato il Nobel per la Pace

Aung San Suu Kyi re�oit son Nobel
Chappatte

Aung San Suu Kyi: “Il Nobel ha aperto una porta nel mio cuore”

In una storica e commovente cerimonia, Aung San Suu Kyi ha ritirato formalmente a Oslo il Nobel per la Pace. Più di 20 anni dopo averlo conquistato grazie alla lotta a favore della democrazia nel suo Paese, la leader dell’opposizione birmana ha tenuto il suo discorso di ringraziamento per un premio che – ha detto – le ha aperto una porta nel cuore. Un premio che non aveva mai potuto ritirare.

“Mentre mi guardate, mentre ascoltate – ha detto – quello che vi dico, ricordare, per favore, la verità spesso ripetuta che un prigioniero di coscienza è un prigioniero di troppo”. “Nel mio Paese sono molte più di una le persone che non sono ancora state liberate, quelle cui non è ancora stato dato accesso ai benefici della giustizia. Per favore ricordatelo e fate quanto possibile per favorire il loro rilascio incondizionato”.

La “Signora” è in Europa per il primo viaggio in quasi 25 anni, molti dei quali trascorsi tra arresti domiciliari e carcere e durante i quali non è mai uscita dal Myanmar per timore di non potere rientrarvi. (fonte)

Aung San Suu Kyi receives her Nobel
Chappatte


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RITORNAI ALLA VITA (La Repubblica)

AUNG SAN SUU KYI


HO SA­PU­TO che mi era sta­to con­fe­ri­to il Pre­mio No­bel per la Pa­ce ascol­tan­do­la ra­dio una se­ra. Ave­vo già sa­pu­to da al­tre tra­smis­sio­ni nel­la set­ti­ma­na pre­ce­den­te di es­se­re una dei fi­na­li­sti.
HO FAT­TO uno sfor­zo per ri­cor­da­re qua­le sia sta­ta la mia im­me­dia­ta rea­zio­ne al­la no­ti­zia. Cre­do, an­che se non ne so­no più si­cu­ra, di aver pen­sa­to qual­co­sa co­me: «Ah, han­no de­ci­so di dar­lo a me». Il tut­to non sem­bra­va mol­to rea­le, per­ché, in un cer­to sen­so, nean­ch’io mi sen­ti­vo mol­to rea­le in quel mo­men­to.
Ho pro­va­to spes­so, du­ran­te il pe­rio­do che ho tra­scor­so agli ar­re­sti do­mi­ci­lia­ri, la sen­sa­zio­ne di non fa­re più par­te del mon­do rea­le. C’e­ra una ca­sa che era il mio mon­do, c’e­ra il mon­do di chi non era li­be­ro ma sta­va in­sie­me con al­tri in una pri­gio­ne for­man­do una co­mu­ni­tà, e in­fi­ne c’e­ra il mon­do dei li­be­ri: tut­ti pia­ne­ti dif­fe­ren­ti che se­gui­va­no cia­scu­no una pro­pria or­bi­ta in un uni­ver­so in­dif­fe­ren­te. Ciò che ha fat­to il Pre­mio No­bel è ri­por­tar­mi nel mon­do de­gli al­tri es­se­ri uma­ni, fuo­ri da quel­l’a­rea iso­la­ta nel­la qua­le ho vis­su­to, di ri­dar­mi in qual­che mo­do il sen­so del­la real­tà. Mi ha re­so rea­le an­co­ra una vol­ta; mi ha ri­por­ta­to nel­la co­mu­ni­tà de­gli es­se­ri uma­ni. E co­sa an­co­ra più im­por­tan­te, il Pre­mio No­bel ha ri­por­ta­to al­l’at­ten­zio­ne del mon­do la lot­ta per la de­mo­cra­zia e per i di­rit­ti uma­ni in Bir­ma­nia. Non sa­re­mo sta­ti scor­da­ti.
Es­se­re scor­da­ti. Es­se­re scor­da­ti è co­me mo­ri­re in par­te. Vuol di­re per­de­re al­cu­ni dei vin­co­li che ci ten­go­no an­co­ra­ti al re­sto del­l’u­ma­ni­tà. I la­vo­ra­to­ri mi­gran­ti e i ri­fu­gia­ti bir­ma­ni che ho in­con­tra­to nel­la mia re­cen­te vi­si­ta in Tai­lan­dia mi han­no det­to con for­za «Non ci di­men­ti­ca­re! », in­ten­den­do «Non scor­da­re che an­che noi ap­par­te­nia­mo al tuo mon­do». De­ci­den­do di con­fe­rir­mi il Pre­mio No­bel per la Pa­ce, il Co­mi­ta­to ha ri­ba­di­to che gli uo­mi­ni op­pres­si e iso­la­ti del­la Bir­ma­nia so­no an­ch’es­si par­te del mon­do e ha riaf­fer­ma­to che l’u­ma­ni­tà è una so­la. In va­rie par­ti del mon­do im­per­ver­sa­no i con­flit­ti e la sof­fe­ren­za. Nel mio pae­se, nel­l’e­stre­mo Nord, le osti­li­tà non so­no an­co­ra ces­sa­te; a Ove­st, i con­flit­ti lo­ca­li so­no sfo­cia­ti in in­cen­di eas­sas­si­nii so­lo qual­che gior­no pri­ma del­l’i­ni­zio del viag­gio che mi ha por­ta­to qui. Le no­ti­zie su atro­ci­tà in al­tre par­ti del mon­do ab­bon­da­no. E ogni gior­no ve­nia­mo a co­no­scen­za di rap­por­ti che ri­fe­ri­sco­no di fa­me, di ma­lat­tie, di tra­sfe­ri­men­ti for­za­ti, di di­soc­cu­pa­zio­ne, di po­ver­tà, di in­giu­sti­zia, di di­scri­mi­na­zio­ne, di pre­giu­di­zi, di in­tol­le­ran­za. Do­vun­que la sof­fe­ren­za è igno­ra­ta, si se­mi­na il con­flit­to, per­ché la sof­fe­ren­za im­pli­ca umi­lia­zio­ne, av­vi­li­men­to e rab­bia.
Quan­te vol­te du­ran­te i miei an­ni agli ar­re­sti do­mi­ci­lia­ri ho trat­to for­za­dal mio pas­sag­gio pre­fe­ri­to del pre­am­bo­lo del­la Di­chia­ra­zio­ne uni­ver­sa­le dei di­rit­ti del­l’uo­mo: “… Con­si­de­ra­to che il di­sco­no­sci­men­to e il di­sprez­zo dei di­rit­ti uma­ni han­no por­ta­to ad at­ti di bar­ba­rie che of­fen­do­no la co­scien­za del­l’u­ma­ni­tà, e che l’av­ven­to di un mon­do in cui gli es­se­ri uma­ni go­da­no del­la li­ber­tà di pa­ro­la e di cre­do e del­la li­ber­tà dal ti­mo­re e dal bi­so­gno è sta­to pro­cla­ma­to co­me la più al­ta aspi­ra­zio­ne del­l’uo­mo… è in­di­spen­sa­bi­le che i di­rit­ti uma­ni sia­no pro­tet­ti da nor­me giu­ri­di­che, se si vuo­le evi­ta­re che l’uo­mo sia co­stret­to a ri­cor­re­re, co­me ul­ti­mai­stan­za, al­la ri­bel­lio­ne con­tro la­ti­ran­nia e l’op­pres­sio­ne…”.
Quan­do mi si chie­de per­ché lot­to per i di­rit­ti uma­ni in Bir­ma­nia, la ri­spo­sta sta nel pas­sag­gio ap­pe­na ci­ta­to. Quan­do mi si chie­de per­ché lot­to per la de­mo­cra­zia in Bir­ma­nia, la ri­spo­sta sta nel­la mia con­vin­zio­ne che le isti­tu­zio­ni e la pra­ti­ca del­la de­mo­cra­zia sia­no ne­ces­sa­rie per ga­ran­ti­re i di­rit­ti uma­ni.
Nel cor­so del­l’ul­ti­mo an­no so­no emer­si dei se­gna­li che in­di­ca­no che le fa­ti­che di chi cre­de nel­la de­mo­cra­zia e nei di­rit­ti uma­ni stia­no co­min­cian­doa pro­dur­re dei frut­ti in Bir­ma­nia.
So­no sta­ti in­tra­pre­si dei pas­si ver­so la de­mo­cra­tiz­za­zio­ne. Se io mi pro­nun­cio per un cau­to ot­ti­mi­smo non è per­ché non ho fe­de nel fu­tu­ro, ma per­ché non vo­glio in­co­rag­gia­re una fe­de cie­ca. Sen­za fe­de nel fu­tu­ro, sen­za la con­vin­zio­ne che i va­lo­ri de­mo­cra­ti­ci e i di­rit­ti fon­da­men­ta­li del­l’uo­mo non so­no sol­tan­to ne­ces­sa­ri ma an­che fat­ti­bi­li nel­la no­stra so­cie­tà, il no­stro mo­vi­men­to non sa­reb­be re­si­sti­to lun­go tut­ti que­gli an­ni de­va­stan­ti. La lo­ro fe­de nel­la no­stra cau­sa non è cie­ca ma pog­gia su una lu­ci­da va­lu­ta­zio­ne del­la pro­pria ca­pa­ci­tà di re­si­ste­re.
La mia pre­sen­za qui og­gi tra di voi è il ri­sul­ta­to dei re­cen­ti cam­bia­men­ti ve­ri­fi­ca­ti­si nel mio Pae­se, e que­sti cam­bia­men­ti han­no avu­to luo­go per­ché voi e al­tri aman­ti del­la li­ber­tà e del­la giu­sti­zia ave­te con­tri­bui­to a co­strui­re nel mon­do una con­sa­pe­vo­lez­za sul­la no­stra si­tua­zio­ne. Pri­ma di con­ti­nua­re a par­la­re del mio Pae­se, vor­rei di­re qual­che pa­ro­la a no­me dei pri­gio­nie­ri di co­scien­za. In Bir­ma­nia ci so­no an­co­ra que­sto ti­po di pri­gio­nie­ri. Il ti­mo­re è che ora, do­po il ri­la­scio dei de­te­nu­ti più no­ti, quel­li che ri­man­go­no, gli sco­no­sciu­ti, sia­no di­men­ti­ca­ti. Per fa­vo­re ri­cor­da­te­li e fa­te quan­to pos­si­bi­le per ot­te­ne­re il lo­ro tem­pe­sti­vo e in­con­di­zio­na­to ri­la­scio.
La Le­ga na­zio­na­le per la de­mo­cra­zia ed io sia­mo pron­ti e fer­ma­men­te in­ten­zio­na­ti a svol­ge­re qua­lun­que ruo­lo ri­chie­da il pro­ces­so di ri­con­ci­lia­zio­ne na­zio­na­le. Le mi­su­re di ri­for­ma av­via­te dal go­ver­no del pre­si­den­te U Thein Sein pos­so­no es­se­re sal­va­guar­da­te so­lo con la coo­pe­ra­zio­ne in­tel­li­gen­te di tut­te le for­ze in­ter­ne. Si può di­re che le ri­for­me sa­ran­no ef­fi­ca­ci sol­tan­to se mi­glio­re­rà la vi­ta del­le per­so­ne e, in que­sto sen­so, la co­mu­ni­tà in­ter­na­zio­na­le può svol­ge­re un ruo­lo vi­ta­le.
La pa­ce nel no­stro mon­do è in­di­vi­si­bi­le. Fin­tan­to che le for­ze ne­ga­ti­ve avran­no la me­glio su quel­le po­si­ti­ve in una qual­sia­si par­te del mon­do, sia­mo tut­ti a ri­schio. Si po­treb­be obiet­ta­re che le for­ze ne­ga­ti­ve non po­tran­no mai es­se­re scon­fit­te tut­te e del tut­to. La ri­spo­sta è sem­pli­ce:«No!». Tut­ta­via, fa par­te del­le ca­pa­ci­tà del­l’uo­mo ado­pe­rar­si per raf­for­za­re ciò che è po­si­ti­vo e per mi­ni­miz­za­re e neu­tra­liz­za­re ciò che è ne­ga­ti­vo. An­che se non con­se­gui­re­mo nel mon­do la pa­ce per­fet­ta, gli sfor­zi co­mu­ni per rag­giun­ger­la uni­ran­no le per­so­ne e le Na­zio­ni nel­la fi­du­cia e nel­l’a­mi­ci­zia e con­tri­bui­ran­no a ren­de­re la co­mu­ni­tà de­gli uo­mi­ni più si­cu­ra e gen­ti­le.
Uso la pa­ro­la «gen­ti­le» do­po un’at­ten­ta pon­de­ra­zio­ne; po­trei di­re do­po un’at­ten­ta pon­de­ra­zio­ne du­ra­ta mol­ti an­ni. Tra gli aspet­ti po­si­ti­vi del­l’av­ver­si­tà, tro­vo che il più pre­zio­so sia co­sti­tui­to dal­le le­zio­ni che ho im­pa­ra­to sul va­lo­re del­la bon­tà d’a­ni­mo. Es­se­re gen­ti­li vuol di­re da­re ri­spo­ste ca­ri­che di sen­si­bi­li­tà e di ca­lo­re uma­no al­le spe­ran­ze e ai bi­so­gni de­gli al­tri. Per­si­no la più sfug­gen­te ma­ni­fe­sta­zio­ne di bon­tà d’a­ni­mo può al­leg­ge­ri­re la pe­san­tez­za di un cuo­re. La gen­ti­lez­za può cam­bia­re la vi­ta del­le per­so­ne. In ul­ti­ma istan­za, il no­stro obiet­ti­vo do­vreb­be es­se­re crea­re un mon­do do­ve non ci sia­no per­so­ne sen­za ter­ra, sen­za un tet­to e sen­za spe­ran­za. Ogni sin­go­lo pen­sie­ro, pa­ro­la e azio­ne che con­tri­bui­sca a ciò che è po­si­ti­vo e un tut­t’u­no è un con­tri­bu­to al­la pa­ce. Cia­scu­no di noi è ca­pa­ce di of­fri­re un ta­le con­tri­bu­to.
Unen­do­mi al mo­vi­men­to per la de­mo­cra­zia in Bir­ma­nia, non mi pas­sò mai per la men­te che sa­rei po­tu­ta es­se­re in­si­gni­ta di un pre­mio o di una ono­ri­fi­cen­za. Il pre­mio per il qua­le la­vo­ra­va­mo era una so­cie­tà li­be­ra, si­cu­ra e giu­sta. L’o­no­re ri­sie­de­va nel no­stro sfor­zo. La sto­ria ci ha da­to l’op­por­tu­ni­tà di da­re il me­glio di noi per una cau­sa nel­la qua­le cre­dia­mo. Sce­glien­do di ono­rar­mi, il Co­mi­ta­to per il No­bel ha re­so la stra­da da me li­be­ra­men­te scel­ta me­no so­li­ta­ria. Di ciò so­no gra­ta al Co­mi­ta­to, al po­po­lo del­la Nor­ve­gia e ai po­po­li di tut­to il mon­do, il cui so­ste­gno ha raf­for­za­to la mia fe­de in un co­mu­ne per­se­gui­men­to del­la pa­ce. Gra­zie.
© The No­bel Foun­da­tion 2012 Tra­du­zio­ne di Guio­mar Pa­ra­da
© RI­PRO­DU­ZIO­NE RI­SER­VA­TA

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