venerdì 5 ottobre 2018

1968-2018, CINQUANT’ANNI DOPO LA MACELLERIA MESSICANA


la cicatrice a 50 anni
Dario Castillejos


1968-2018, CINQUANT’ANNI DOPO LA MACELLERIA MESSICANA
di Oriana Fallaci
Il 2 ottobre 1968, dieci giorni prima dell’inaugurazione dei Giochi olimpici di Città del Messico, truppe dell’esercito aprirono il fuoco sui manifestanti uccidendo centinaia di persone. Nello stesso luogo, il 13 agosto del 1521, i conquistadores spagnoli avevano inaugurato con quarantamila morti il massacro degli aztechi e il genocidio dei popoli indigeni. Quella che segue è la testimonianza di Oriana Fallaci, inviata dell’Europeo presente al massacro, ferita dai colpi esplosi dai soldati e data per morta.
Oriana Fallaci in prima linea a Città del Messico
Oriana Fallaci, ferita mercoledì 2 ottobre a Città del Messico, durante i gravissimi incidenti di piazza delle Tre Culture, ci ha fatto giungere il suo racconto della stanza dell’ospedale in cui era ricoverata. Lo stato in cui si trovava, dopo le ferite e l’operazione subita, le ha impedito di mettersi alla macchina da scrivere. Essa ha però voluto ugualmente farci avere la propria testimonianza sui fatti di cui è stata anche protagonista: ha inciso su nastri tutto il racconto. La registrazione che è giunta da Città del Messico dura due ore e mezzo, con le inevitabili ripetizioni, gli indugi, e le interruzioni di una testimonianza resa a viva voce da una persona ancora sotto choc del rischio mortale che ha corso. Oriana Fallaci ci ha inviato i nastri raccomandandoci di usare la sua narrazione per ricavarne un servizio su ciò che era accaduto il 2 ottobre in Messico. Noi, dopo aver ascoltato queste bobine, abbiamo deciso di trascrivere esattamente ciò che vi è detto, senza cambiare niente. Nessun servizio avrebbe potuto essere più vivo, più drammatico di questo racconto fatto con la sua voce viva. Ogni tanto il discorso è interrotto da qualche lamento, da medici e infermieri che entrano ad escono dalla stanza, da pause di stanchezza della nostra collega. Il servizio di Oriana Fallaci che pubblichiamo è più di un racconto: è un eccezionale documento giornalistico.

(All’inizio del nastro si sentono voci, c’è gente nella stanza d’ospedale dove si trova Oriana Fallaci. Un’infermiera le ordina, in spagnolo, di non agitarsi. Poi comincia il racconto di Oriana Fallaci).

Mi sento male, ho ancora la testa confusa. Vedi, c’è qualcosa che mi fa più male del dolore, di questo dolore tremendo alla spalla, al polmone, al ginocchio, alla gamba, mi fa più male del dolore fisico: mi fa male questo incubo che ritorna, che mi ossessiona. Il dolore fisico si sopporta, ma l’incubo no. Non è l’incubo della guerra del Vietnam, io nel Vietnam ho visto delle cose spaventose, ho seguito delle battaglie tremende, dei pericoli allucinanti, ma era diverso, perché sapevo di andare alla guerra. Uno va in Vietnam e sa che va alla guerra e la guerra è una cosa dove ci sono dei signori armati da una parte e degli altri signori armati dall’altra: sai anche che si spara da tutte e due le parti. Ma quello che è successo là la sera in cui sono stata ferita non era una guerra. Era atroce perché non era la battaglia di Dak-To, non era la battaglia ai confini con la Cambogia o che diavolo. E non aveva niente a che vedere con le guerre che più o meno tutti, facendo questo mestiere, abbiamo visto come corrispondenti. Capisci? Non era una guerra. E non doveva essere una notte di sangue. Se insisto su questo punto è perché voglio cercare di spiegare quest’incubo che mi torna e mi ritorna la notte.
La storia dell’altra sera è questa: poi andrò indietro e ti racconterò il perché, come siamo arrivati a questo. Mercoledì alle cinque era stata indetta una manifestazione nella piazza delle Tre Culture a Città del Messico. Questa piazza, che credo sia una delle più grandi di Città del Messico e anche una delle più note, si chiama delle Tre Culture perché riunisce in un certo senso, simbolicamente, le tre culture del paese: quella azteca, quella spagnola, quella moderna: c’è una chiesa spagnola del 1500, c’è la base di una piramide azteca e ci sono gli edifici moderni, quelli costruiti ora. Gli studenti l’hanno sempre scelta per le loro manifestazioni, non soltanto perché si trova nel quartiere di Tlatelolco, vale a dire abbastanza vicino alla loro università, ma anche perché è molto grande, ha molte vie d’accesso e molte vie di fuga: è facile arrivarci ed è facile uscirne. E in questo paese è sempre meglio riunirsi in luoghi dove fai presto ad arrivare e fai presto a scappare.
Io ero già stata testimone di una manifestazione del genere nella piazza delle Tre Culture, esattamente il giorno dopo in cui ero arrivata in Messico. Era lì infatti, in una manifestazione del genere, nella piazza delle Tre Culture, che avevo conosciuto i capi degli studenti e avevo cominciato a intervistarli. Ero arrivata la notte tra il giovedì e il venerdì,
e al venerdì ci fu subito questa manifestazione. Era la prima alla quale assistevo, e mi fece subito un effetto profondo. Mi avevano impressionata queste grandi migliaia di ragazzi, perché sono ragazzi, sai, tredici, quattordici, sedici, diciotto, al massimo ventitré o ventiquattro anni. Ragazzi poveri poi, perché degli studenti messicani solo una piccola parte sono figli di borghesi. La massima parte sono figlioli di contadini, di operai e appartengono in maggioranza al Politecnico. Al Politecnico ci vanno i figli degli operai, dei contadini: allora tu vedi questi ragazzini, che non sono come i nostri studenti, con le camicie pulite, il golf stirato di fresco, le scarpe pulite, ma sono brutti e sembrano i contadini che alla domenica vanno al villaggio, come si vedevano in Italia venti o trent’anni fa e forse anche oggi. E un po’ timidi, come sono i contadini. Mi ero commossa a vederli lì tutti ordinati, tutti insieme.
Questi ragazzi s’erano riuniti nella piazza delle Tre Culture, quello scorso venerdì, per commemorare i loro morti, perché avevano già avuto dei morti, un centinaio credo, dal ventisei luglio, il giorno in cui sono incominciate le repressioni della polizia. Quel venerdì c’era la polizia, soltanto la polizia, non l’esercito; era riunita però sulla terrazza della Scuola numero 7, ancora occupata dalla truppe governative. Questa scuola si affaccia proprio sulla piazza delle Tre Culture. Dalla parte moderna della piazza i ragazzi erano arrivati, con i loro cartelli, erano intervenute le madri dei ragazzi ammazzati dalla polizia. Avevo conosciuto in quell’occasione alcuni capi del Comitato della huelga, il comitato dello sciopero, e li avevo intervistati.
I discorsi erano tenuti (questo è importante perché è lì che poi è successo il disastro ieri l’altro) dalla terrazza di un edificio, una specie di grattacielo popolare, che guarda proprio la piazza delle Tre Culture. A ogni piano di questo edificio che si chiama Chihuahua Building, c’è una grande terrazza con una balaustra abbastanza bassa e lì i ragazzi mettevano degli altoparlanti e parlavano. Era stata una manifestazione, ripeto, commovente perché ad un certo punto c’era stata la commemorazione dei morti: pioveva, e tutti questi ragazzi stavano immobili sotto la pioggia, e le madri dei ragazzi morti stavano immobili sotto la pioggia. Finita la manifestazione, anzi durante il minuto di raccoglimento per i morti, qualcuno aveva acceso un accendino, poi un altro, un altro ancora e poi un altro ancora e s’eran formati in tutta questa piazza come dei fuochi, piccoli fuochi fatui, dappertutto c’erano queste fiammelle: fiammelle e fiammelle e fiammelle, di accendini e di fiammiferi che finivano per bruciarsi sulle dita. Finché qualcuno aveva avuto l’idea di arrotolare dei giornali e farne delle fiaccole e allora tutti si erano messi ad arrotolare giornali e fare fiaccole e la manifestazione s’era sciolta oserei dire pacificamente con questa grande fiaccolata. Capisci, avevano arrotolato i giornali, erano andati via uno a uno, una fila lunga lunga verso il ponte, queste torce accese, cantando le canzoni degli studenti. Le canzoni dicono: «Goya, Goya. Cachu, cachu rara, cachu cachu rara, Goya Goya Universidad». Non vuole dire niente, sono dei suoni da bambini, questa è la canzone dell’università; la canzone del Politecnico è: «Gueu, Gloria a la cachi cachi porra, a la cachi cachi porra Gueu pin pon porra Politecnico Politecnico gloria». Pensa un po’ che canzoni pericolose.
E cantando «pin pon porra cachu rara» questi ragazzi, con la loro fiaccolata, si allontanarono e questa era la pericolosa manifestazione che avrebbe dovuto mettere in pericolo la stabilità e l’attuazione delle Olimpiadi. Dopo questa manifestazione il governo messicano decise di togliere le truppe dall’università, che poi fu un’evacuazione parziale, gli studenti mercoledì indissero un’altra manifestazione, sempre nella piazza delle Tre Culture; gli studenti mi dissero che questa era una manifestazione importante e sarebbe stato bene se io l’avessi vista, e ci andai.
(A questo punto nella registrazione si inserisce la voce di un medico che domanda a Oriana Fallaci come si sente. La risposta è: «Mal, doctor, muy mal. Mi duole tutta la schiena». Il medico dice che le farà un’iniezione per la notte. Il racconto riprende).
La manifestazione doveva avvenire alle cinque. A un quarto alle cinque io ero lì nella piazza delle Tre Culture e la piazza era già piena a metà. Nelle varie terrazze di questo edificio popolare che guarda la piazza, c’erano già vari capi degli studenti ma una gran parte si erano riuniti nella terrazza del terzo piano dove c’erano gli altoparlanti con le bandiere, le bandiere messicane e le bandierine dello sciopero che sono rosse e nere. Sono per noi colori anarchici, per loro no. Per i messicani la bandiera dello sciopero è una bandiera rossa e nera; non è né anarchica né non anarchica: è la bandiera dello sciopero. Gli operai quando sono in sciopero innalzano questa bandiera rossa e nera. Non sono anarchici più di quanto siano comunisti o cattolici, liberali o che altro. A un quarto alle cinque la piazza era già piena a metà, io sono arrivata, sono salita sulla terrazza del terzo piano e ho trovato Guevara che è uno dei capi, ho trovato Manuel un altro capo, un ragazzo che studia biologia ed è figlio di un contadino. Ho trovato Manuel che è figlio di un musicista e studia al Conservatorio, ho trovato Socrates, un altro dei capi, e ho trovato Maribilla una ragazza che studia, mi pare, medicina.
Ho chiesto come si mettevano le cose, se c’era la polizia intorno, se si aspettavano un attacco e mi hanno detto di no, sembrava che la manifestazione fosse tranquilla. In realtà dalla terrazza della Scuola numero 7, dove la settimana avanti, durante l’altra manifestazione, quella della fiaccolata, avevo visto per tutto il tempo i granaderos con i mitra puntati, non c’era niente, non c’erano neanche i granaderos. Intanto la piazza si riempiva in un modo incredibile: guarda, nel giro di dieci minuti io credo che siano arrivate tremila, quattromila persone, perché ad un certo punto c’erano almeno seimila persone. Mentre la piazza si riempiva è arrivato Angel, un altro ragazzo dei capi del Comitato generale dello sciopero; sembrava molto turbato e mi ha detto: «Sai, sono in ritardo perché quasi tutta la piazza a tre o quattro chilometri da qui è circondata di autoblindo e di camion: a un certo punto c’è una strada sbarrata, mi sembra che fosse la strada Manuel Gonzales, sbarrata con ben trenta camion carichi di soldati con le mitragliatrici e non lasciano passare nessuno. Ho dovuto fare un lungo giro e per questo sono arrivato in ritardo».
Ora sono confusa, faccio male il racconto. Dopo la manifestazione i ragazzi volevano andare a una delle scuole del Politecnico che è ancora occupata dall’esercito, capito? Volevano andare a fare una manifestazione lì. Quando Angel è arrivato, dicendo che c’era l’esercito e la polizia schierata dappertutto, i ragazzi tra di loro si sono riuniti e hanno deciso di non andare più perché, hanno detto, se andiamo tutti lì dove ci stanno aspettando con i bazooka sembra che vogliamo provocarli.
Al che io gli ho detto per carità non andate, non lo fate, lasciate perdere, è inutile, è una bravata superflua, non ci andate. Allora il Socrates è andato al microfono, in questa piazza che continuava a riempirsi, e ha detto: «Compañeros, abbiamo cambiato idea, volevamo andare a manifestare davanti alla scuola. Non ci andiamo più, perché l’esercito ci sta aspettando con le autoblindo, con i bazooka. Andarci è una provocazione inutile, per cui mi raccomando, compañeros, appena la nostra riunione sarà conclusa disperdetevi e andate alle nostre case». La folla, i ragazzi rumoreggiavano un po’: erano un po’ delusi; ma era evidente che avevano deciso di rinunciare alla sfilata in direzione della scuola, mi pare fosse la scuola di Economia e Commercio.
Hanno incominciato la riunione vera e propria. I discorsi sono stati aperti dalla ragazzina Maribilla la qualche ha detto: «L’esercito ha evacuato la nostra lotta fino all’applicazione di tutti i sei punti». La Maribilla è una ragazzina di circa diciotto anni, graziosina, un po’ sciupata da un labbro leporino, gentile, un po’ timida, parlava con una vocina che sembrava un uccellino: anche con l’altoparlante non si sentiva niente.
Dopo ha preso la parola Socrates, che sembra un bambino coi baffi, ha la faccia di un bambino, come quella di Emiliano Zapata, ha diciotto-diciannove anni e questi immensi baffi che è tutto quello che gli è rimasto dei capelloni lunghi perché i ragazzi fino all’agosto scorso avevano i capelli lunghi, non perché volessero fare gli hippies, non perché volessero imitare i Beatles, ma perché c’è una tradizione al Messico che i rivoluzionari hanno i capelli lunghi. Così fino a poco tempo fa, i ragazzi portavano tutti i capelli lunghi. Quando la polizia ha cominciato a fotografarli, a seguirli, ad arrestarli, c’è stata una ecatombe di capelli lunghi e di baffoni e l’unico che non ha voluto rinunciare ai baffi è stato il Socrates, poveretto, che con i suoi baffoni è andato lì al microfono e ha detto: «Compagni, questa è una manifestazione pacifica, noi oggi l’abbiamo indetta innanzitutto per festeggiare l’evacuazione della nostra università da parte delle truppe governative, poi per chiedere che il resto delle scuole secondarie vengano anch’esse liberate dalla presenza dei soldati e infine per indurre i compañeros a cominciare, a partire da lunedì, uno sciopero della fame, per dimostrare che noi non vogliamo attaccare nessuno. Cerchiamo d’ora innanzi dei sistemi pacifici. Lunedì cominceremo, chiunque vorrà partecipare a questo sciopero della fame si sistemerà nella città universitaria dinnanzi alla piscina olimpica… che farà lo sciopero della fame fino alla fine delle Olimpiadi».
Socrates aveva appena finito di parlare, che un elicottero ha cominciato a volare sopra la piazza, un elicottero verde dell’esercito, in cerchi concentrici, sempre più bassi, sempre più bassi. Io mi sono preoccupata e ho detto a Manuel: che cos’è questa storia? Lui mi ha risposto di non preoccuparmi; i ragazzi non erano eccitati, erano tranquilli, quieti. Mentre si discuteva della presenza dell’elicottero, l’elicottero ha lanciato due bengala verdi. Ora, venendo dal Vietnam, so benissimo che tutte le volte che un elicottero o un aereo butta giù un bengala, è perché vuole localizzare il punto da colpire. Allora io mi sono preoccupata e ho detto subito a questi ragazzi: guardate che sta buttando i bengala, se butta giù i bengala vuol dire che hanno intenzione di sparare. Ma loro non mi hanno preso sul serio. Siccome sapevano che ero stata in Vietnam hanno detto: «Eh, tù ves las cosas come en Vietnam». Non avevano finito di parlare che si è sentito un gran fracasso, un grande rumore di camion e di carri armati e la piazza è stata letteralmente circondata dalle quattro parti, perché l’edificio dove eravamo noi, questo terzo piano dove c’erano gli studenti, guarda la piazza, quindi da qualsiasi parte si guardasse, si vedevano arrivare camion e autoblindo. Sul fondo, di fronte all’edificio, c’è una specie di cavalcavia e si sono piantati su questo cavalcavia. I camion si sono aperti, cioè la parte posteriore dei camion, i soldati si sono buttati giù sparando. Ma non sparando in aria, sparando in basso, i fucili non li tenevano in alto, li tenevano in basso. Per due o tre minuti siamo rimasti sbalorditi, allibiti quasi, per questa cosa; questa cosa era un incubo, era al di là dell’assurdo perché non era successo niente che potesse giustificare l’arrivo di queste truppe. Stavano dicendo che volevano indire lo sciopero della fame lunedì! I ragazzi hanno cominciato a scappare. Socrates, non essendosi ancora reso conto che stavano sparando veramente alla folla, è andato al microfono e ha detto: «Compañeros, compañeros, calma calma calma, es una provocaciòn, es una provocaciòn!». Ma loro continuavano a scappare, volevano venire in avanti, E ad un tratto ho cominciato a vederli cadere, sai quando vai a caccia e le lepri corrono, come fanno le lepri quando le colpisci, fanno una specie di capriola e poi restano lì.
Da lontano si vedevano piccoli, e si vedevano queste lepri, che correvano e facevano una capriola, bom! E restavano in terra. Io ero immobilizzata, letteralmente immobilizzata al balcone e guardavo la confusione violenta, tremenda che era scoppiata e sentivo Socrates che stava raccomandando alla folla la calma: ma non so che razza di calma potesse raccomandare a questo punto perché erano già cominciati a cadere i primi morti.
Davanti a me c’era la piazza, la grande piazza rettangolare che dalla nostra parte, dove eravamo noi, finisce in una grande scalinata. Ora c’è una cosa ti voglio spiegare, ti ricordi nel film della corazzata Potëmkin quella scena della folla che scappa per quella scalinata e restano quelle donne, quei bambini, tutti ciondoloni, ecco sembrava la corazzata Potëmkin, questa scalinata ripida dove restavano tutti in giù, a testa in giù, era una cosa spaventosa. Noi eravamo chiusi in trappola, ci eravamo resi conto benissimo che stavano puntando verso di noi, verso il terzo «piso», il terzo piano, dove c’erano gli altoparlanti, ma ho capito anche che non c’era nulla da fare. Voglio dire ho fatto il movimento di andare verso l’ascensore, ma l’ascensore era stato bloccato, capisci, nello stesso momento la Maribilla che era scesa giù, è arrivata gridando, chiamando Angel, e Angel è sceso giù al piano terreno e quando è sceso giù al piano terreno ha trovato decine, decine, decine di poliziotti in borghese che hanno cominciato a gridare «figlio de chingada», «hijo de puta», «figlio di cane», «donde vas hijo de chingada», allora Angel e gli altri dicevano «Abajo, abajo!» e allora loro hanno detto «Arriva, arriba!» e li hanno mandati su. Io mi sono girata voltando le spalle al massacro che era cominciato nella piazza e ho visto piombare, come nei film, una quarantina, una cinquantina prima, poi una sessantina di uomini di mezza età in borghese, in camicia, avevano tutti la camicia bianca, la mano sinistra dentro un guanto bianco, oppure fasciata in un fazzoletto bianco, era per riconoscersi, perché erano in borghese. Sono entrati sparando, hanno cominciato a sparare con queste rivoltelle dappertutto, non addosso alla gente, devo dire, ma per terra dappertutto, e agguantando la gente. Socrates è scomparso, io non l’ho più visto Socrates, Angel era già scomparso prima, quando la Maribilla era venuta a dire che c’erano i poliziotti. Io mi sono ritrovata insieme a Moises, che è un ragazzino del Politecnico, figlio di un contadino, a Manuel, un amico mio, e ho guardato i poliziotti venire avanti, in uno stato di totale stupore, anche se per stupire me ce ne vuole parecchio e per stupirmi dopo che avevo visto quello che stava succedendo nella piazza, quel piombare senza ragione, ce ne voleva ancora di più. Ma era talmente pazzo il piombare di questi qua, che li guardavo sbalordita.
Una guardia mi ha preso pei capelli, io ho i capelli lunghi, mi ha agguantata per i capelli, sai come nelle vignette dell’uomo delle caverne che agguanta la donna per i capelli, e prendendomi pei capelli (io credo che gliene siano rimasti un bel po’ in mano), mi ha fatto fare mulinello, mi ha letteralmente scaraventata contro il muro. Sono rimasta qualche secondo stordita, naturalmente.
Non so se avete capito com’era la terrazza. C’è questa terrazza grande, con le scale dalle parti, poi c’è il muro con i due ascensori e poi c’è la balaustra. Lui m’ha buttato contro il muro dalla parte dove ci sono gli ascensori.
Quando mi sono ripresa mi sono trovata da Moises e Manuel, gli altri erano spariti, nello sfondo c’erano altri, giornalisti tedeschi, olandesi, c’era un giapponese, dei francesi, eccetera. E questo qui che gridava «Detenidos, detenidos, detenidos!», cioè arrestati, arrestati, arrestati. Io sono rimasta in piedi. Intanto continuava la sparatoria nella piazza, ma non era ancora una sparatoria violenta. Io ho detto una parola: «Yo italiana». Chissà perché ho detto italiana, mi è venuto così per istinto di sopravvivenza, non lo so. Quello ha preso e mi ha messo la rivoltella alla tempia. A questo punto, ti dico la verità, io avrei voluto dire periodista, giornalista, ma non sono riuscita a dirlo, con quella pistola puntata alla tempia e col pensiero che se avessi voluto tentare di dimostrarlo, non avrei neanche potuto, perché far vedere un documento, soltanto mettere la mano nella tasca della giacchetta (avevo i pantaloni e la giacchetta) e tirar fuori un documento voleva dire farti sparare, perché si dovevano tenere le mani quelli lì facevano partire un colpo. Ci hanno fatto mettere…
Dunque sta’ a sentire: loro ci hanno fatto mettere al muro. Devo dire che fino a quel momento, malgrado la tremenda sparatoria fosse già cominciata, io non ero spaventata, un po’ perché c’era Manuel, questo ragazzo che continuava a dire: «Lo fanno per ragioni psicologiche», un po’ perché ero andata a intervistare il capo della polizia, quel generale Queto di cui gli studenti chiedono le dimissioni insieme allo scioglimento del corpo dei granaderos. Ero stata ricevuta da questo signore nel suo bellissimo ufficio ed egli aveva incominciato a intrattenermi a lungo sui vini italiani, sul fatto che a lui piace il Bardolino e il Chianti meno, che c’è un ristorante che si chiama Mamma Roma, Mamma Maria, non mi ricordo come a New York. Quando poi gli avevo posto delle domande precise, gli avevo chiesto spiegazioni sul fatto che la polizia attaccava gli studenti, sparava sulla popolazione, con aria tranquilla mi aveva detto: «Ma no, ma nada, no pasa nada, no pasa nada nunca, mentira, mentira». E aveva aggiunto: «Lei ha visto che anche l’ultima volta vi è stata la manifestazione alla piazza delle Tre Culture, non è successo niente».
Ed era vero che non era successo niente, capisci. Così io non ero eccessivamente spaventata. Il capo stesso della polizia mi aveva rassicurata. La mia sola preoccupazione era data, devo dire, dalla presenza di questi poliziotti in borghese con il guanto bianco per riconoscersi, con le pistole puntate. Intanto la sparatoria si era fatta ancora più intensa. Le raffiche partivano dalle mitragliatrici delle autoblindo, che circondavano la piazza, e dai mitragliatori e dai fucili automatici dell’esercito, e dai granaderos, i granatieri che qui chiamano granaderos, e infine da questo elicottero che si abbassava sempre di più, capisci, e sparava sulla folla ormai sparsa per tutta la piazza e sulla terrazza dove eravamo noi. Ho spiegato che su questa terrazza l’unico punto in cui si poteva cercare un pochino di protezione era sotto la balaustra, sotto il muricciolo, e sotto il muricciolo si sono messi tutti questi poliziotti col guanto bianco e le rivoltelle in pugno, puntate contro di noi e noi, che eravamo i detenidos, gli arrestati, siamo stati messi invece dalla parte del muro. Così eravamo un bellissimo bersaglio per quelli che sparavano dalla piazza, dall’elicottero, eravamo un bersaglio per tutti.
(A questo punto la voce di Oriana Fallaci si interrompe. Quando si riprende dice: «Scusami, ferma un momento il magnetofono che mi sento male, molto male. Mi sento morire…»).
Ecco, riprendiamo. Vedi, quando io dico che era peggio che nel Vietnam, voglio dire che nel Vietnam, quando sei dentro una battaglia, cerchi di ripararti, di salvarti, ti butti in un buco, ti butti in un bunker, ti ripari dietro qualche cosa e mentre fai questo non c’è mica un poliziotto con la rivoltella spianata che te lo impedisce. E non potevi trovare nessun rifugio, non potevi entrare in nessun buco, non c’era nessun bunker nel quale ti potevi rifugiare e tutte le volte che cercavi di muoverti di un millimetro da quel muro maledetto che costituiva il bersaglio principale e contro il quale ci avevano messi e cercavi di andare un pochino più in là dove c’era il muricciolo, questi poliziotti distesi per terra ti sparavano addosso, capisci? Sparavano contro il muro. Hanno sparato due o tre volte nel muro! Hanno sparato nell’ascensore due o tre volte. In questa sparatoria tremenda, mi cadevano i bossoli tutto d’intorno. A un certo punto io ho detto: «Por favor, por favor quiero me haga venir, me haga venir cerca, cerca!», gliel’ho detto anche in inglese: «Please, please let me come there, please please here is too dangerous, too bad, please»: per favore qui è troppo pericoloso, lasciatemi venire lì. Ma loro mi rispondevano puntandomi l’arma contro e sparando nel muro. Quindi io non mi potevo muovere, comprendi, non mi potevo muovere assolutamente.
L’incubo per cui io alla notte mi sveglio come impazzita è questo, è un incubo da racconto di Poe. C’è il fuoco da tutte le parti, sei inseguito come uno scorpione circondato dal fuoco, che non soltanto ti sparano da tutte le parti ma non puoi neanche metterti in salvo perché quando fai un movimento per metterti in salvo te lo impediscono e ti sparano addosso.
Poi qualcuno deve avermi dato l’ispirazione per togliermi da quella posizione terribile, lì in piedi, a fare da bersaglio. A un bel momento ho finto di svenire, sicché sono calata giù come uno straccio, gli altri hanno fatto lo stesso e quelli ci hanno lasciato fare. Allora siamo rimasti in quel modo sdraiati a pancia a terra. Io mi trovavo fra questi due studenti, questo Moises e questo Manuel: Moises è rimasto subito ferito alla mano perché ho visto che la mano era tutta insanguinata. Manuel cercava di proteggermi e quando la polizia si è accorta che lui cercava di proteggermi un poliziotto ha incominciato a gridare perché ci staccassimo. Per quanto possibile cercava di proteggermi, mi teneva le mani sulla testa, e mi tenevo anch’io le mani sulla testa. La polizia allora, sempre puntando le rivoltelle, ha ordinato a lui di staccarsi e a tutti e due e anche a Moises di alzare le mani in modo che non ci potevamo neanche proteggere la testa dalle schegge. Niente, capisci: è questa la cosa meravigliosa.
Quando Manuel si è staccato da me e Moises si è staccato, io centimetro per centimetro, perché stavo tutta distesa bocconi sullo stomaco, perché mi sentivo più sicura, ho cominciato a scivolare lungo il muro e sono riuscita a spostarmi di un metro indietro mentre questo poliziotto gridava e mi puntava la rivoltella. Questo movimento è stato quello che mi ha salvato, perché se no la pallottola mi sarebbe arrivata nella testa anziché nelle spalle. La sparatoria era ininterrotta, ho detto che sparavano da tutte le parti mentre noi eravamo sempre sotto le rivoltelle della polizia.
A un certo punto l’elicottero si è abbassato, si è sentita una grande raffica e io ho avvertito come due o tre pezzi di sasso che si abbattevano sopra di me e un coltello che mi entrava nella schiena. Il coltello era la scheggia della pallottola dell’elicottero che si è fermata a pochi millimetri dalla colonna vertebrale. Un’altra scheggia è entrata nel ginocchio sinistro e mi ha squarciato tutta la gamba in quel punto, però ho avuto questa fortuna incredibile che il professor Viale ha definito una fortuna scandalosa perché è andata a incastrarsi tra l’arteria principale e tutti i legamenti nervosi e la vena, senza tagliare né l’una né l’altra. Un’altra ancora è entrata nella coscia. È entrata da una parte ed è uscita educatamente da quell’altra, senza fare nulla, lasciando solo due o tre schegge che risultano dalla radiografia ma che non possono togliere. Resteranno sempre lì tanto non mi danno noia e io le tengo come ricordo. [...]



Massacro a Tlatelolco, 2 ottobre 1968
È il 50° anniversario del massacro di studenti universitari messicani nella Plaza Tres Culturas a Tlatelolco, ordinato dal presidente Gustavo Díaz Ordaz, che non ha accettato le manifestazioni a favore dei diritti, della liberazione dei prigionieri politici e delle libertà civili. Questo documentario raccoglie importanti testimonianze dei partecipanti a quei giorni di protesta, che si sono conclusi in una delle pagine più oscure della storia del Messico, dove l'esercito e i cecchini del regime hanno ucciso centinaia di studenti e sono rimasti impuniti.

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